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Un discorso sulla violenza

La prima cosa che mi ha detto il mio compagno stamani è stata: lo hanno arrestato. Siamo rimasti in silenzio.

Sinceramente non so bene cosa si può dire in merito. Mi piacerebbe pensare che è possibile evitare queste morti ma la realtà è più complicata di quello che io vorrei e anche del modo in cui vorrei che andasse il mondo.

Tutti stanno trovando una colpa nelle parole del padre dell’omicida. Io penso siano una chiave per capire. Anche per capire perché è così difficile proteggersi.

Un bravo ragazzo lo poteva essere davvero. Un ragazzo incensurato, che non da grossi problemi. Un bravo ragazzo che è diventato un assassino, che ha ucciso una vita giovanissima, una persona che conosceva bene.

Vorrei dirmi che si può prevedere ma io non sono sicura. Non sono sicura di nulla. Sarebbe facile, sarebbe rassicurante se gli assassini fossero riconoscibili. Si salverebbero in tante.

Invece è questa la fregatura, che non te lo aspetti. Perché si pensa sempre che non ti farebbe mai del male. Ed è terribile pensare il contrario perché significa ammettere che non siamo esenti dal male, nessuno di noi.

Io ci credo che l’assassino prima di uccidere “non è mai stato uno violento“. Ed è questo il dramma. “Se ti fa del male dillo almeno a me” le diceva la sorella “ma lei non mi ha mai detto nulla in questo senso e quindi non ho mai pensato che quel ragazzo potesse in qualche modo ferirla”. È vero, è così, dicono la verità.

A me piacerebbe poter pensare che ci sono formule semplici per prevenire queste morti ma la realtà è che non lo so. Barbara mi aveva dato dei buoni consigli sul dottorato prima di finire uccisa dall’ex. E chi se lo aspettava? Lei così brillante, così impegnata, così realizzata. Io non ho risposte.

Educare i figli, ma davvero è questo? Qualcuno insegna forse che è accettabile picchiare una donna o ucciderla? Francamente credo che le famiglie lo facciano già di educare, nella maggioranza dei casi.

Eppure quest’anno sono state uccise 105 donne per lo più per motivi di genere. Lo dice l’Osservatorio dei diritti. Gelosia, possesso, incapacità di accettare la separazione e le scelte altrui, vendette, dimostrazioni di potere, ritorsioni.

Forse bisognerebbe parlare del fatto che la violenza ci abita tutti. Bisognerebbe non sentirci esenti delegando tutto ciò che di noi ci fa paura alla figura del mostro. Bisognerebbe pensare che l’omicida è uno di noi, non un estraneo. Non si nasce senza pulsioni violente: a controllare la violenza si impara.

Forse bisognerebbe cambiare paradigma, cominciare a valutare il fatto che la violenza non è estranea a nessuno e così, una volta ammessa, possiamo finalmente fare un discorso serio su come imparare a controllarla.

Forse.

https://www.centrouominimaltrattanti.org

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Contro la mostrificazione

Anni fa, studiando per un lavoro, ho guardato un documentario sulla storia e il pensiero di Etty Hillesum. A un certo punto dei ragazzi intervistano Michale Wery, dell’Istituto di Neuroscienze di Bruxelles, sul fatto che la Hillesum (proprio lei) parla della barbarie che si può trovare dentro ciascuno di noi.

Wery dice: non spiego la barbarie; osservo me stesso. Ci sono volte in cui mi sono detto che c’è qualcosa di barbaro in me. Sono rimasto colpito dal potenziale di violenza che ho dentro. Poco tempo fa tenevo in braccio il gattino di mia figlia. Mi sono accorto che l’avrei potuto strangolare con una facilità assoluta e questa consapevolezza mi ha portato a interrogarmi. Quando ero giovane mio cugino mi ha chiesto di fare il bagnetto a suo figlio. Era neonato e in quell’istante mi sono reso conto che quel piccolo essere vivente era alla mia mercé. Quel giorno ho preso coscienza del potere che avevo su questo essere vivente. Quale sarà il limite?

Vent’anni dopo – continua Wery – stavo lavorando in giardino e ho sentito qualcuno gridare e chiamarmi per nome. Il mio vicino era caduto nel pozzo e stava annegando. Sapevo benissimo di doverlo aiutare, nonostante ciò ho avuto un’immagine terribile: “puoi fare ciò che vuoi di quest’uomo”. Hai il potere di trovare un modo per tirarlo fuori e salvarlo, hai il potere di ucciderlo. In quei momenti della mia vita ho avuto potere sull’altro. E mi dico: presta attenzione alla barbarie che dorme in te. Il fatto di dare un nome a queste cose, il fatto di parlarne, mi fa capire che non ne ho veramente paura. E questo ci rende più liberi rispetto alle tendenze che vivono in noi.

Il discorso di Wery mi incuriosì e ci ho pensato letteralmente per anni. La stessa cosa che lui racconta la sperimentiamo con i cuccioli, con i bambini, con le persone che ci chiedono aiuto. Una sensazione di potere assoluto che si presenta di fronte a chi consideriamo inferiore o più debole. Questo è l’elemento in grado di scatenare la barbarie in ciascuno di noi. Ogni giorno scegliamo diversamente ma ogni giorno questa possibilità può presentarsi. La natura di ogni essere umano può, all’occorrenza, essere violenta.

Accettare questo significa rinunciare all’idea del mostro che, in realtà, è solo il nome che diamo al riflesso della nostra paura. Noi abbiamo dentro (anche) pulsioni violente ed esserne consapevoli vuol dire accettare la necessità di farci i conti e di gestirle. Nessuna rabbia, nessuno sfogo sarebbe sufficiente a compensare lo stupore e il gelo che coglie leggendo la storia dell’ennesima donna uccisa. Non fatelo, non cedete alla tentazione di pensare che l’assassino sia qualcosa di diverso da un uomo. Non lasciatevi andare all’emotività facile dei discorsi forcaioli. Rimanete lucidi. Riflettete. Ragionate. Perché dove c’è caos c’è sempre qualcuno che riesce a trarne vantaggio.

(Continua….)

Nell’immagine installazione di Philip Worthingto, Shadow Monsters

MoMA, dec 7, 2012–jan 2, 2013

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Gli spostapoveri e i lanzichenecchi

La mia prima reazione leggendo l’articolo di Alain Elkan è stata di chiedere ai miei contatti social se fosse un pezzo di satira di costume. E le risposte sono state spassose. Ho perfino pensato che se fossi un editore vorrei raccogliere gli esercizi di stile su quell’articolo e chiamare il libro “L’uomo del treno” perché tra tutti i tormentoni estivi dagli anni ’80 in poi è il più divertente.

Ma da quando stamani ho cominciato a leggere le difese d’ufficio sul diritto a viaggiare in pace non mi diverto più.

Così oggi, dalle alzate di scudi a protezione del signor Elkan, scopriamo che il problema di Trenitalia sono quattro adolescenti chiassosi che parlano di ragazze, scrollano lo smartphone e ammassano i vuoti nei cestini.

Non l’aria condizionata che non va o va troppo, non il riscaldamento che non va o va troppo, non le corse che non ci sono per collegare tratte ovvie (uno per tutti il raddoppio Lucca Firenze atteso come Godot), non i tempi ridicolmente lunghi per fare tratte brevi, non che da mesi a Bologna il treno è sostituito dal bus e alla fermata – 40° col sole a picco – non c’è neanche uno straccio di telo che manca poco gli anziani ci rimangono secchi, non che a Prato nei bagni pubblici a pagamento (notare bene) accettano solo monete e non c’è uno sportello utile nel giro di un chilometro, perché il bar interno mica ce l’ha il bagno e se ci sono bambini o anziani tanto peggio per loro.

No, il problema non sono i carri bestiame strapieni di gente che giustamente vengono chiamati gli “spostapoveri” perché di grazia se ti fanno il favore di fornirti un micragnoso mezzo pubblico per spostarti senza usare la macchina, mezzi a volte non revisionati a cui si spezzano i mozzi delle ruote e si schiantano in una stazione come a Viareggio, o che si scontrano l’uno con l’altro sul binario unico come ad Andria.

Il problema non è che amministratori e governanti continuano a investire in millemila assi viari per il trasporto su gomma e ti dicono che la tramvia non si fa perché non c’è l’economia di scala.

Il problema non è che ti dicono che i cittadini hanno il culo pesante ed è per quello che non funzionano i mezzi pubblici, così ignorando per puro pregiudizio le file alle biglietterie. Che le corse siano insufficienti o non ci siano proprio sembra del tutto irrilevante.

No. Niente di tutto questo.

Il problema sono quattro adolescenti brufolosi che hanno imbroccato le offerte di Trenitalia per la prima classe di Italo e parlano delle solite sbruffonate estive, di ragazze e nottate in giro, disturbando un lettore di Proust.

Ultimo ma non ultimo, il problema dei rifiuti sui treni sono questi barbari, signora mia, non che nei cestini c’entra appena una cicca di sigaretta e non vengono mai cambiati. E poi chi di noi comuni mortali li ha mai visti i tavolinetti per scrivere a mano? Ti va già di culo se riesci ad appoggiare il portatile sulle ginocchia facendo spessore con lo zaino. Sui treni che prendo io funziona sempre così.

Del resto serve sempre un capro espiatorio pronto all’uso per ogni evenienza. Non è forse la stessa cosa che sta succedendo per i negazionisti del cambiamento climatico?

Mica sono d’accordo con loro: le anomalie climatiche le vedo e soprattutto le soffro. Ma se siamo convinti che un cambiamento climatico è in corso, dobbiamo anche ammettere che le cause antropiche non sono mica i negazionisti climatici ma questo modello produttivo predatorio delle risorse, questo sistema economico alienante e questi governi incapaci di tenere testa alla grandi realtà industriali che sono la causa prima di ogni mutazione climatica.

Prendersela con i negazionisti è come prendersela con un altro passeggero del tram – o del treno – che come te subisce gli sballottamenti del pessimo guidatore ma indossa la maglia gialla invece che color verde ecologico. E nessuno mette in discussione il guidatore incapace bensì il lanzichenecco di passaggio o quello che si è messo la maglia gialla invece che color verde ecologico.

Del resto è sempre utile individuare un nemico fatto su misura: primo, non è più colpa tua ma del nemico, purché sia adeguato all’occorrenza; secondo, puoi evitare di prendere le decisioni necessarie che risolverebbero qualcosa ma sono inevitabilmente impopolari; terzo, puoi usare il meccanismo identitario a tuo vantaggio rinforzando il legame dei buoni che costituiscono la tua bolla di riferimento; quarto, tutto questo non ti costerà nessun investimento concreto.

L’alibi perfetto. Parliamo del negazionista o del lanzichenecco che scandalizza tutti ma guardiamoci bene dal parlare dei Governi o delle Amministrazioni che investono negli assi viari per il trasporto su gomma ma affermano che la tramvia o il treno o il trasporto pubblico non sono sostenibili in un’economia di scala. 

Perché la colpa è sempre dei cittadini che hanno il culo peso, mica dei Governi o delle Amministrazioni che non fanno investimenti o leggi adeguate prendendo iniziative che comportano una spesa economica o una qualche impopolarità (poi dice il populismo…).

Pedonalizzando, togliendo posteggi, introducendo pedaggi, liberalizzando la circolazione delle bici e dei monopattini sulle strade ‘normali’ (molto più comodo che fare le ciclabili) – senza preoccuparsi di migliorare il trasporto pubblico. Anzi: riducendo le corse sulla scorta di valutazioni economiche. E quel punto chissà come mai le priorità green non contano più. Chissà come fanno ad andare a lavorare quelli che non hanno le macchine “verdi” e non hanno soldi per comprarle (grazie Fede, ti ho proprio copincollata).

E allora vuoi mettere quant’è più semplice e rassicurante puntare il dito e tutta l’attenzione sul negazionista?

Quindi grazie anche al signor Elkann che con la sua stilografica ha dato modo anche a noi che non viaggiamo in prima – ma facciamo gli workshop in inglese e leggiamo Le monde diplomatique – di capire che non è la nostra cultura poliglotta che fa la vera differenza ma solo i soldi che possiamo spendere e gli agganci che possiamo far valere nei posti che contano.

Il disegno è di Kelsey Heinrichs 

https://www.repubblica.it/cultura/2023/07/23/news/racconto_alain_elkann_sul_treno_per_foggia_con_i_giovani_lanzichenecchi-408733095/?fbclid=IwAR0ZJ1y-YgJrVEQTdRCx0FM517aHbef9i5zO6nJ-f-CeJBkdYJkvhiIUmjE

https://mowmag.com/culture/su-giovani-lanzichenecchi-e-treni-ha-ragione-elkann-c-e-poco-da-ridere-e-da-indignarsi-serino-racconto-perfetto?fbclid=IwAR1FQzVGG9F8R83sr7l8UY9qD5rwZbiCZzG1ddS0FTWMHZ-w5XluBXujPyA

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Di Sporcelli e braghettoni: la questione dei libri di Roald Dahl

Scusate. Il titolo è uno sporco trucco per sfruttare l’onda della polemica. Onda che passerà tra non molto ma che a me serve per fissare alcuni concetti. Non parlerò infatti del braghettonismo ma del caso dei libri emendati di Roald Dahl in relazione al metodo.

Anche se questo piccolo blog non è particolarmente importante, uso le sue pagine per segnare le questioni che ritengo in qualche modo utili e annotare i pensieri che prima o poi potrei voler rileggere.

Stavolta è il turno di Roadl Dahl il cui lavoro è stato riedito dall’editore Puffin in forma emendata. Lo spiega Il post alla cui ricostruzione mi sono affidata perché lo ritengo uno dei giornali online più attendibili in questo periodo storico. La notizia viene da una fonte primaria che è un articolo del Telegraph riportata poi da vari giornali.

Vorrei prenderla un po’ alla lontana quindi partiamo da un caso precedente. Ve la ricordate la questione del bacio del principe a Biancaneve etichettata come una vicenda di cancel culture? Ebbene non lo era.

Era successo che due giornaliste di un giornale locale online, il San Francisco gate, recensendo una nuova attrazione di Disneyland a tema Biancaneve, avevano inserito la considerazione che il bacio del principe non era consensuale*.

L’articolo, in realtà più ampio, dava una valutazione positiva dell’attrazione e chiudeva dicendo che la scena finale è una fiaba e non una lezione di vita.

L'attrazione di Biancaneve, scena del bacio.
Immagine dell'inaugurazione del 30 aprile 2021 tratta dal San Francisco Gate

Immagine dell’inaugurazione del 30 aprile 2021 tratta dal San Francisco Gate

Fu montato un caso che non esisteva: il giornale era di livello locale, si trattava della recensione di una nuova attrazione (peraltro positiva), le giornaliste non avevano il potere di intervenire su niente. Nessuna cancel culture, solo un caso sbandierato e gonfiato oltre ogni limite.

Qual è la differenza rispetto al caso dei libri di Dahl? Che il testo è stato effettivamente cambiato in nome di una qualche sensibilità che, visti gli interventi, non si sa bene su cosa sia basata.

Secondo Il Post sono stati cambiati i seguenti passaggi (nell’edizione ufficiale inglese, non nella traduzione). Io ne trascrivo la traduzione italiana.

In The witches:

“Le streghe sono tutte donne. Non voglio parlar male delle donne. In genere sono adorabili. Ma tutte le streghe sono donne: è un fatto” [traduzione di Francesca Lazzarato e Lorenza Manzi dall’edizione italiana].

Di questo passaggio nella nuova edizione è rimasta solo la prima frase:

“Le streghe sono tutte donne”.

Le streghe portano i guanti per coprire gli artigli e sono senza capelli per cui il bambino protagonista dice alla nonna che tirerà i capelli a tutte le donne per scoprire se sono streghe.

La nonna risponde:

“Non dire stupidaggini. Non puoi tirare i capelli a tutte le donne che incontri, anche se portano i guanti. Provaci e vedrai”.

Nella nuova edizione diventa:

“Non dire stupidaggini. Peraltro ci sono molte altre ragioni per cui una donna potrebbe indossare una parrucca senza che ci sia nulla di sbagliato” [traduzione de il Post].

Andiamo avanti

“Che faccia la cassiera in un supermercato o la segretaria in un ufficio […]”

diventa:

“Che sia una grande scienziata o gestisca un’attività […]”.

Una strega con guanti, i capelli lunghi e il vestito viola insieme ad altre donne anziane con cappelli colorati

Matilda non legge più Kipling ma Jane Austen.

La signora Hoppy di Agura Trat non è più una “attraente signora di mezza età” ma una “gentile signora di mezza età”.

Negli Sporcelli

“Una persona con pensieri gentili non potrà mai essere brutta. Potrà avere il naso bitorzoluto e la bocca storta e i denti fuori, ma se ha pensieri gentili, questi le illumineranno il viso come raggi di sole e apparirà sempre bella” [Traduzione di Paola Forti]

è stato completamente rimosso “double chin” che nelle precedenti edizioni in italiano è tradotto con “bocca storta”.

Un uomo e e una donna trascurati a testa in giù

Sono state rimosse le parole “domestica”, “grasso”, “matto” e le occorrenze di “bianco” e “nero”, anche in riferimento a un cappotto.

Finora ho sempre sminuito il fenomeno della cancel culture perché erano per lo più montature giornalistiche strumentali e il problema rimane. Questa però non lo è perché l’intervento è reale e incide sull’integrità di un testo.

Se il problema è la capacità di comprensione e di problematizzazione dei bambini piccoli è certamente giusto intervenire ma non così.

Quello che risulta non è un testo che rispetta i diritti di tutti ma un testo che da una spolverata alle coscienze più pelose senza affrontate i problemi. Dove per peloso intendo alludere, ad esempio, a coloro che vedono discriminazione nell’uso di “bianco” e “nero” per un cappotto.

Intendiamoci: io non penso che ci sia da salvare qualcosa o qualcuno. Come spiega Il post le modifiche sono state fatte con l’autorizzazione di chi detiene i diritti d’autore: la Roald Dahl Story Company, società che dal 2021 appartiene a Netflix. Netflix comincia a collaborare con Roald Dahl Story Company nel 2018. Nel 2020 Roald Dahl Story Company comincia a modificare i testi. Nel 2021 viene acquisita. Notizia questa che non è esattamente neutra dato che Netflix ha intenzione di creare una gamma di prodotti esclusivi tratti dalle opere di Dahl. Certo, non è una censura in senso proprio. Diciamo allora che è l’adattamento a un trend il cui scopo principale è di rendere il prodotto più commercialmente appetibile.

Ma non è che questo sia consolante o sminuisca l’evento. Dal mio punto di vista è pure peggio perché sottrae spessore e sostanza alle battaglie importanti (parità di genere, antirazzismo, diritti delle persone LGBTQ, body positivity, etc.) riducendo un panorama valoriale complesso a una mera questione di appetibilità sul mercato. Mercato che ha un peso, ovviamente, ma che non è l’unico fattore di valutazione e non è necessariamente prioritario quando si parla di diritti.

Il caso dei libri di Roald Dahl mi ha fatto pensare che, alla fine, la famigerata cancel culture non si presenterà con i tamburi e le fanfare, non è un gruppo di femministe esasperate, di attivisti/e LGBTQ esagitati, di antirazzisti molto woke, ma si manifesterà come acquiescenza a un trend che aggiusta le battaglie civili alla esclusiva misura di una maggior vendibilità.

La discussione, comunque sia, è piuttosto significativa rispetto ad alcune trasformazioni in corso. Tutto questo fermento mi ha fatto venire in mente anche un episodio che per la mia formazione è stato importante. Durante un corso di storia della lingua italiana, uno dei casi di studio affrontati era la questione della leggibilità dei Promessi sposi scritti in un italiano che non era più comprensibile ai ragazzi.

La questione non era banale. Si discuteva infatti se era opportuno o meno trasporre in italiano corrente la lingua dei Promessi sposi. Sembra una cosa semplice ma richiama due aspetti per nulla scontati. Il primo è che la questione della lingua in Manzoni è fondamentale. Il secondo è che la cosa riguarda anche l’approccio didattico.

Ci sono due possibilità: da una parte semplificare un linguaggio ritenuto difficile portandolo al livello dei ragazzi; dall’altra dare ai ragazzi gli strumenti per comprendere i Promessi sposi così come sono.

Il non detto di questo dibattito era però la cosa più interessante: nel primo caso si consideravano i ragazzi incapaci a priori di acquisire le conoscenze necessarie per leggere un testo difficile; nel secondo si chiedeva ai ragazzi di acquisire strumenti cognitivi accessori come condizione preliminare per poter leggere un testo.

Quest’ultima può sembrare la scelta più ovvia ma non lo è perché per farlo occorrono un livello di scolarizzazione più alto, diciamo scuola superiore, e una preparazione pregressa che non è indifferente e tanto meno scontata.

Al di là del caso in sé, la questione riguardava due aspetti importanti: l’accessibilità, nel senso di comprensione, e l’integrità del testo. Si parlava di integrità del testo perché, appunto, quello era un corso di laurea in filologia neolatina e dunque il caso era utile alla comprensione del metodo. Tutto era giocato su due aspetti entrambi importanti ma apparentemente inconciliabili.

Riscrivere i Promessi sposi secondo il linguaggio contemporaneo attribuendoli a Manzoni era impensabile: un tradimento del lettore prima ancora che dell’autore. Viceversa, pretendere che tutti acquisissero le conoscenze necessarie alla lettura di quel testo significava stabilire uno standard che avrebbe escluso una parte dei lettori.

Non dirò la soluzione anche perché non fu data: era più importante capire la problematizzazione. Dirò invece quello che è venuto dopo, ovvero la risposta che ho trovato e che ritengo un compromesso onorevole.

Nel tempo, grazie anche alla diffusione dei libri illustrati, delle graphic novel (che per inciso amo tantissimo), dell’attenzione ai libri per ragazzi, sono uscite diverse riscritture e adattamenti dei Promessi sposi.

Se ci fate caso le riscritture e gli adattamenti non vanno mai sotto il nome di Alessandro Manzoni ma sotto quello del curatore o della curatrice che non solo se ne prende il merito ma anche la responsabilità. Sottolineo: merito e responsabilità.

Infatti non è Manzoni che ha scritto quelle parole ma un’altra persona con una sensibilità – giustamente – moderna e un sistema di pensiero e di valutazione – giustamente – moderno.

Si privilegiano esclusivamente la trama e l’intreccio mentre si adattano la lingua e le espressioni al modo in cui ci si esprime oggi. È un’operazione legittima e non intacca l’integrità del testo lasciando credere al lettore che Manzoni parlasse e ragionasse come si ragiona nel XXI secolo.

Ora facciamo finta che io non parli di Alessandro Manzoni ma di Roald Dahl. Che cosa impedisce di presentare i suoi romanzi in forma di “adattamento” (non “aggiornamento” che è cosa diversa), lasciando integra la percezione di quello che è il linguaggio effettivo di Dahl?

Tanto più che in Dahl, oltre alla trama e all’intreccio, sembra proprio che la scelta linguistica abbia un peso specifico molto grande nel determinare la firma d’autore. Non tanto perché l’edizione è sacra ma, al contrario, perché l’edizione di un testo d’autore può essere soggetta a tutti i rimaneggiamenti possibili. Ed è perfettamente legittimo.

A un solo patto: che se la mano non è dell’autore lo si presenti come rimaneggiamento o come riscrittura. Infatti questo è il modo più razionale per lasciare integro un testo, peraltro storicizzato, e per rendere più facile quel testo per la sensibilità contemporanea.

Non c’è niente che lo vieta. Se deve essere libertà – e io penso sia legittimo – deve esserlo fino in fondo non a metà: sia nel modificare un testo d’autore, sia nell’avvertire il lettore – chiunque egli sia – che il testo d’autore è stato modificato da altri.

E allora la domanda è: perché non viene fatto?


* Un’amica mi fa notare che il bacio del principe è un’invenzione Disney. È vero, basta leggere la fiaba, che ha una storia editoriale piuttosto articolata, in una delle edizioni dei Grimm.


Gallimard Jeunesse, l’editore francese dei libri per ragazzi di Roald Dahl, ha fatto sapere che non modificherà le proprie edizioni: «Questa riscrittura riguarda solo la Gran Bretagna. Non abbiamo mai modificato i testi di Roald Dahl e a oggi non abbiamo in programma di farlo». Invece Salani, l’editore italiano, non ha finora risposto alle richieste di commento.


Magari non sarà la soluzione ma questa riflessione che mi ha segnalato la mia amica Beatrice mi sembra molto interessante:

https://www.theguardian.com/commentisfree/2013/oct/14/feminism-capitalist-handmaiden-neoliberal

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Il Pinocchio politico di Guillermo del Toro

Fin dalle prime immagini è una meraviglia per gli occhi, ma per chi si aspetta una lettura filologica dell’opera di Carlo Lorenzini ci saranno molte sorprese. Se non volete spoiler fermatevi qui perché parlerò apertamente del film e della storia.

Il Pinocchio di Guillermo del Toro non solo è ambientato in Italia nella seconda guerra mondiale ma i personaggi si danno del voi, coerentemente con l’uso dell’epoca, e il clima di un paese di provincia di quegli anni è ben ricostruito. Sono proprio gli scorci dei paesi preappenninici della Toscana che a chi è nato in queste terre sembra di riconoscere ad ogni piè sospinto. E la prima emozione forte che mi ha comunicato è stata quella di vedersi raccontati, con rispetto e con amore.

Mi ha colpito molto lo spazio che assume il rapporto con la chiesa e il prete di Geppetto, presentato come artigiano intento a realizzare il crocifisso di legno sopra l’altare. Mi sono chiesta perché e poi l’ho capito lungo lo svolgimento del film. Essendo ambientato in un paesino italiano durante la seconda guerra mondiale tutto è stato ricostruito con attenzione, non solo i dettagli di costume ma anche il clima socioculturale, ed è abbastanza ovvio che il ruolo della religione in quell’epoca fosse di forte riferimento per tutta la comunità.

È straniante sentire un Pinocchio che tutto contento dice vuole andare in chiesa ma in effetti, vista l’attenzione alla ricostruzione del periodo, è perfettamente coerente. Il regista però non si lascia scappare l’occasione di fare un parallelo sorprendente tra il crocifisso e Pinocchio, entrambi di legno, entrambi fatti da Geppetto ma l’uno adorato dalla gente e l’altro accusato di stregoneria dalla stessa gente perché è un burattino che si muove e parla autonomamente.

Già su questo aspetto ci sarebbe una marea di cose da dire ma preferirei se gli spunti venissero sviluppati in un eventuale confronto con chi legge queste mie considerazioni. Comunque questo è uno dei temi forti del film: il burattino è l’immagine dell’emarginato, del l’outsider e in questo senso ha a che fare con l’immagine sacra molto più di quel non può sembrare a un primo sguardo. Ciò è possibile solo nella grande sensibilità di Guillermo del Toro che lo spiega tra gli altri dettagli preziosi della realizzazione del film e della sua filosofia nello speciale sul processo di creazione.

Il racconto non parte da Geppetto che crea il burattino ma da suo figlio Carlo, morto sotto un bombardamento casuale (dice il narratore: le bombe furono sganciate per alleggerire gli arei) proprio mentre il falegname fa un sopralluogo per lavorare al crocifisso. Il trait d’union è la pigna perfetta che Carlo tiene in mano e rimane come ultimo ricordo del bambino. Il padre seppellisce il figlio morto in modo così atrocemente inutile e accanto alla tomba seppellisce anche la pigna che dopo molti anni da vita a un pino che cresce mentre Geppetto si abbrutisce nell’alcol, incapace di arrendersi alla morte di Carlo.

Una notte, più ubriaco del solito, Geppetto decide di abbattere il pino nato dalla pigna di Carlo e di farci un burattino che gli ricordi il suo figliolo. Proprio quella notte il grillo Sebastian si installa in un buco del legno del pino e viene portato nel laboratorio del falegname insieme al tronco.

Geppetto scolpisce il burattino in stato di ubriachezza ed è il motivo per cui Pinocchio è brutto. Intendiamoci, il character design, è pieno di dettagli poetici e romantici, ma Pinocchio è l’opposto del pupazzo carino di qualsiasi reinterpretazione precedente. Ha la faccia asimmetrica, una fessura sulla fronte cucita con due punti, la faccia immobile e al posto del cuore ha un buco che è esattamente il vano del legno abitato dal grillo Sebastian. Ed è proprio Sebastian, il cuore di Pinocchio, a rappresentare la voce narrante del racconto.

Mentre Geppetto dorme ubriaco senza aver completato il burattino, si palesa una creatura magica rappresentata come un incrocio tra una chimera e un cherubino alato dai molti occhi. La creatura è la vita e insieme a sua sorella, la morte, prende il posto della fata Turchina dando un senso completamente diverso al racconto che come dicevo è una rilettura e non una semplice messa in scena di Pinocchio.

La vita chiama le creature spirituali che abitano il bosco e da così vita al burattino. Da questa ampia e sostanziosa premessa si sviluppa tutto il racconto che prende una piega tutta particolare giocata non genericamente sul percorso di formazione del burattino ma sul suo rapporto con il circo dei burattini, dove si esibisce sotto il controllo del conte Volpe, e sul suo rapporto col fascismo, incarnato dalla figura del Podestà, che non solo rappresenta la massima autorità del paesino ma è anche il padre di Lucignolo, più fedele all’ideale che non all’amore per il figlio.

La figura del gatto non c’è, viene in qualche modo riassorbita dalla scimmia di proprietà del conte Volpe, che si chiama Spazzatura (in italiano anche nella versione inglese). Sostanzialmente il conte Volpe è da solo a vessare Pinocchio e maltrattare la sua scimmia per quel piccolo potere che pensa di detenere.

Dapprima Pinocchio viene assoldato dal conte Volpe per esibirsi come burattino straordinario. Grazie alla scimmia, invidiosa che il burattino sia il preferito del conte Volpe, Pinocchio viene a sapere che nessuno dei soldi degli incassi promessigli dall’impresario è andato a Geppetto come pattuito. Allora, d’accordo con Spazzatura, Pinocchio allestisce uno spettacolo irriverente ai danni di Mussolini, invitato speciale del conte Volpe che desidera ingraziarsi il potere per fare ancora più soldi.

Mussolini ordina di sparare al burattino ma il burattino non può morire e si ritrova in un regno dei morti dove dei conigli scheletrici blu accatastano la sua bara in mezzo a tante altre. Pinocchio esce dalla bara e si ritrova al cospetto della morte, un’altra chimera blu, che gli spiega che non può morire ma solo rimanere nel regno dei morti per un po’ prima di ritornare in vita. E infatti Pinocchio resuscita. Buffamente e ironicamente Guillermo del Toro fa dire alle stesse beghine che avevano accusato Pinocchio di stregoneria, che la sua resurrezione è un miracolo del cielo. E a noi viene da sorridere come se avesse fatto una sberleffo alle due bigotte. Non si può non cogliere in questo aspetto lo sviluppo del primissimo e tenero paragone tra il burattino stortignaccolo e il Cristo di legno realizzato da Geppetto.

Inizia qui la seconda parte della formazione di Pinocchio con il Podestà che lo prende per farne un perfetto soldato, insieme al figlio Lucignolo, trattato sempre con freddezza e distacco. Pinocchio e Lucignolo, come due reietti, fanno amicizia in vamerata e diventano complici. Quando il Podestà li costringe a lottare in una guerra simulata, con le bombe di coriandoli e i proiettili di vernice colorata, i due riescono a trovare il modo di vincere insieme e di fare pari.

La notizia è accolta pessimamente dal Podestà che vorrebbe costringere Lucignolo a uccidere Pinocchio per prevalere. Ma Lucignolo si rifiuta e in questo si manifesta il grande amore di Guillermo del Toro, un gigante sia fisico che morale, verso gli emarginati. Lucignolo disobbedendo è buono. E nello stesso modo Pinocchio, definito dal Podestà un burattino ribelle e dissidente, fa della sua personalità irriverente una chiave per la libertà.

Nel frattempo Geppetto è finito nel ventre del pescecane (un pescecane meravigliosamente freak) andando alla ricerca di Pinocchio per mare. Una bomba distrugge il campo di addestramento per i bambini soldato del Podestà e Pinocchio si ritrova ad affrontare la vendetta del conte Volpe, con l’aiuto della scimmia Spazzatura che finalmente si emancipa e passa dalla parte del burattino, provocando la fine del conte Volpe.

Pinocchio e la scimmia cadono in mare e lì vengono inghiottiti dal pescecane. Trovano Geppetto e il grillo e riescono a liberarsi sfruttando la capacità del naso di Pinocchio di crescere con le bugie. Anche qui Guillermo del Toro introduce una variante interessante. Il naso non cresce solamente, diventa un ramo di pino con tanto di fronde e nuove pigne.

Pinocchio mente, incoraggiato da tutti, per farsi crescere il naso e con quello raggiungere lo sfiatatoio dello squalo. I quattro riescono a liberarsi in modo rocambolesco ma alla fine Geppetto cade in acqua svenuto, rischiando di annegare. Pinocchio muore un’altra volta e chiede alla morte di salvare Geppetto. La sfinge gli risponde che è possibile solo a patto che lui diventi umano cioè mortale. E il modo per ottenerlo è rompere le regole, visualizzato nella scena con la rottura delle clessidre che regolano il tempo di Pinocchio. Pinocchio rompe le regole e diventa umano ma, in un colpo di scena molto apprezzabile, rimane comunque un burattino benché mortale.

Pinocchio muore nel tentativo di salvare Geppetto che approda sano e salvo sulla spiaggia col grillo e la scimmia. Accortosi della morte di Pinocchio capisce che non avrebbe mai potuto essere come il figlio Carlo e gli dice che lo ama così com’è. Si palesa ancora una volta la vita che spiega come Pinocchio sia morto per sempre. Solo il grillo riesce a risolvere la situazione riscuotendo la promesse che gli aveva fatto la vita di avverare un suo desiderio. Il grillo desidera che Pinocchio viva e così accade.

In un finale del tutto inatteso e di una bellezza sorprendente assistiamo poi alla morte di Geppetto, a quella del grillo, sepolto in una scatola di fiammiferi nel cuore di Pinocchio. E infine muore anche la scimmia Spazzatura, ultima compagna con cui Pinocchio andava a portare i fiori sulle tombe degli altri due. Quando muore anche Spazzatura, Pinocchio è libero di andare per il modo nella certezza che prima o poi morirà anche lui.

La chiusura avviene sull’immagine una pigna di pino, in una perfetta circolarità narrativa, mentre la voce del grillo spiega che le cose accadono e poi si muore tutti, prima o poi. Che detto così sembra una botta di pessimismo ma in realtà, nel contesto del racconto, con la pigna in primo piano, è un chiaro inno alla vita e alle storie straordinarie che tutte le vite racchiudono.

Ho già notato che la ricostruzione degli ambienti sociali e dei contesti ambientali è particolarmente attenta. Giullermo del Toro ha usato la consulenza di Ruth Ben Ghiat storica del fascismo, dei totalitarismi e del colonialismo italiano. Colgo l’occasione per ringraziare Igiaba Scego che mi ha segnalato questa collaborazione. In effetti si vede proprio la mano di qualcuno che conosce sia l’epoca che gli ambienti. Ed è un gran bene.

C’è un dettaglio di cui mi sono innamorata. Nel paesino di Geppetto si accede attraverso un arco medievale, inerpicandosi su una strada in salita che fa subito una curva. Su quella curva c’è un palazzo ad angolo, sulla cui piccola facciata c’è un’immagine di Mussolini che viene coperta dal cartellone del circo sgangherato. Questo scorcio mi ha dato la sensazione di vedere i paesini che conosco benissimo e mi ha attivato il ricordo di due staffette che ho avuto la fortuna di intervista insieme a mio marito: Didala Ghilarducci e Nara Marchetti. Nara ci ha raccontato dei ritratti di Garibaldi che tenevano in casa di nascosto quando abitavano a Longoio (Bagni di Lucca) e che non erano ben visti dai fascisti. Mi è venuto in mente anche mio nonno, che non ho mai conosciuto ma di cui mi hanno raccontato la storia. Prima di emigrare in America e poi trasferirsi in città, era nato e cresciuto a Villa Basilica, un paese a un tiro di schioppo da Collodi. Quello scorcio di paesello con la faccia del duce e il motto fascista ha interagito con tutti questi racconti nella mia memoria, dandogli una forma nuova, rivitalizzandoli in un modo imprevisto. Questo scorcio potrebbe essere uno dei tanti paeselli del pre Appennino, come quello dove visse Carlo Lorenzini oppure mio nonno Ugo.

E non credete a chi dice solo che questo è un Pinocchio antifascista perché davvero è molto molto di più. Questo Pinocchio è un emarginato, un diverso, un outsider non solo rispetto al fascismo ma anche rispetto a qualsiasi morale restrittiva e costrittiva, sia essa quella delle beghine, sia essa quella del Podestà, sia essa quella del conte Volpe accecato dall’avidità.

Ma l’ultima disobbedienza salvifica che compie questo Pinocchio è quella rispetto alla perfezione, al desiderio di Geppetto che Pinocchio sia come il bravissimo Carlo, il figlio morto bambino. Ebbene Pinocchio non è Carlo, Pinocchio non è perfetto, Pinocchio non è obbediente, Pinocchio non è compiacente e nelle mani innamorate di Guillermo del Toro tutti quelli che erano difetti da emendare diventano i pregi e le doti grazie ai quali il burattino salva sé stesso e tutto il suo mondo.

Tralascio il parterre de roi che si è cimentato nel doppiaggio originale. Andatelo a vedere per curiosità. Un solo consiglio: guardate anche il video sulla realizzazione tecnica del film, completamente in stop motion. Questo film non è una meraviglia solo per il risultato visivo ma anche per il modo in cui è stato lavorato e per le scelte fatte dal regista proprio su questo piano.

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The wonder il prodigio necessario al patriarcato

The wonder è un film visivamente sontuoso. Attenzione a non confonderlo con titoli analoghi. Sebastian Lelio, il regista, ha scritto la sceneggiatura con Emma Donoghue, l’autrice del racconto omonimo che parla di una fasting girl, una di quei ragazzini che in età vittoriana erano ritenuti capaci di vivere senza alimentarsi per lunghi periodi, effetto sociale della grande carestia e della recente guerra di Crimea.

La fotografia è estremamente elegante, la ricostruzione dei costumi e degli ambienti molto ben curata. Il livello di qualità di questo film è tale da spingere me e Marito, che di questo si occupa, a discutere di come le chimere diffondano le luci sui volti dei componenti della commissione uno per uno.

Florence Pugh nei panni dell’infermiera è notevolissima, anche se tutto il cast è davvero ma davvero buono. La storia è serrata, l’analisi sociale del fenomeno prodigioso niente affatto banale. A me ha ricordato il bello studio di Giordano Bruno Guerri su Maria Goretti e il contesto sociale in cui è vissuta, bisognoso di una santa propria. Una società di contadini, depauperata di tutto in cui tra i pochi notabili vige una rigorosa supremazia di stampo patriarcale, col potere di distruggere l’economia delle famiglie con un si o con un no.

++Qui inizia lo spoiler++

L’infermiera Elizabeth viene convocata dal consiglio autonominato di una piccola comunità irlandese per controllare continuativamente una bambina che si dice sopravviva da quattro mesi senza toccare cibo.

Si alternerà con la suora Michael, rappresentando insieme a lei le due componenti opposte che finiscono poi per trovare un punto d’incontro. Solo tra le due donne però, perché i notabili della comunità sono tutti uomini e tutti (tranne uno) interessati a far sì che il miracolo sia vero.

La cosa interessante è che dell’autonominato consiglio fanno parte il medico, il prete, un grande latifondista proprietario della casa dove vive la famiglia di Anna e il proprietario della locanda dove l’infermiera alloggia, l’unico davvero scettico, insieme al giornalista che diventa l’amante di Elisabeth.

Elisabeth scopre che per quattro mesi la madre di Anna ha sostenuto l’inganno passando il cibo alla figlia di bocca in bocca, mentre le da il bacio del buongiorno o della buonanotte. Ma la bambina è convinta che quella sia manna dal cielo, quindi alla domanda se mangia cibo risponde sempre di no perché lei si nutre solo della manna dal cielo.

La famiglia è povera, ultrareligiosa, fiaccata della grande carestia, inserita in una comunità divisa tra la maggioranza di chi vuole credere al prodigio a tutti i costi e la minoranza di chi resta fedele alla ragione. Il giudizio non è solo sui familiari della bambina ma anche e soprattutto sul consiglio dei notabili che fa carte false per avere il proprio caso di santità e per rendersi così speciale.

Ma l’osservazione voluta dalla commissione impone che la bambina non abbia più contatti con la madre. Dunque quando la madre non può più passare il cibo alla figlia, Anna comincia a deperire veramente, poi ad ammalarsi, ad allettarsi e infine entrare in una fase di agonia.

L’infermiera intuisce l’inganno, lo rivela alla commissione che non le vuol credere e chiama a testimoniare Anna che nega di essere stata nutrita da sua madre. Allora l’infermiera si appella alla donna pregandola di ricominciare a dare cibo alla bambina con i baci ma la madre rifiuta convinta che la morte della figlia potrà portare in paradiso lei e riscattare il figlio morto.

Nel frattempo infatti, Anna ha rivelato a Elisabeth che suo fratello, morto di malattia, l’ha abusata ripetutamente quando aveva nove anni e che la madre imputa a lei e al suo “peccato” la morte del figlio, rovesciando completamente il rapporto vittima e abusatore.

Anna è prossima alla morte. Elisabeth con un inganno la porta a una fonte sacra dove la bambina andava sempre. Le fa credere che morirà come Anna e rinascerà come Nan, una bambina che non ha mai vissuto niente di brutto nella sua vita. Anna si addormenta credendo di morire e si sveglia come Nan, che rinasce e viene portata a Dublino dal giornalista amico di Elizabeth. Nel frattempo Elisabeth da fuoco alla casa di Anna per cancellare prove della sua sparizione e permettere alla bambina di vivere una vita lontano da quell’ambiente.

Tutto funziona ma Elisabeth si ustiona le mani nell’incendio. Viene curata dalla suora Michael la quale racconta all’infermiera di aver avuto la visione di un angelo a cavallo che portava via Anna. Si capisce quindi che Michael ha intuito gli eventi e ne diventa complice quando chiede a Elisabeth la conferma che Anna è andata davvero in un posto migliore di quello.

++Spoilerissimo++

Chicca delle chicche, il film inizia con una carrellata sul set del film, partendo dal dietro le quinte e dichiarando il gioco, per poi concentrarsi sulla ricostruzione della stiva della nave dove l’infermiera sta mangiando durante la traversata dall’Inghilterra.

Stessa cosa alla fine. L’ultima scena continua con una ripresa dell’attrice che interpreta Kitty, la sorella di Anna, sul set in abiti contemporanei che ripete “dentro-fuori” in riferimento al gioco dell’illusione ottica dell’uccelino fuori e dentro la gabbia, con cui Anna ama giocare.

Tutto è incentrato sul cibo, sul sesso e sull’ingerenza sociale nelle relazioni personali e familiari. In fondo la famiglia che lascia morire Anna di inedia non è altro che la risposta a una comunità che ha bisogno della santa e per questo vuole crederci a tutti i costi.

++Un commento++

Mi è stato chiesto un commento sul ruolo oscurantista della Chiesa. Beh, questo non è un film contro la Chiesa o la superstizione o le credenze popolari. Questo è un film contro un patriarcato trasversale che attraversa tutti gli ambienti sociali, da quello religioso a quello laico, fino a quello proprio dell’ambiente scientifico.

Di fronte a una commissione autonominata di soli uomini, le due donne chiamate a osservare la digiunante, l’infermiera e la suora che rappresentano il punto di vista scientifico e religioso, stanno sempre in piedi entrambe e mai alla pari con gli uomini. Sempre nella posizione di essere interrogate o di servire.

L’infermiera viene contestata sul suo stesso piano professionale quando riferisce al medico i gravi sintomi della bambina dovuti alle privazioni e il medico le risponde che il lavoro di lei non è fare diagnosi: quello spetta soltanto a lui. Tra l’altro il dettaglio corrisponde al fatto concreto del non poter esercitare la medicina da parte delle donne.

Ebbene il ruolo oscurantista della Chiesa, in questa storia, non c’è. Per l’esattezza non c’è perché c’è un altro oscurantismo, meno ovvio, meno scontato e anche molto più disconosciuto. La Chiesa condanna il suicidio, non vuole la morte per inedia della presunta santa. Infatti alla fine il riconoscimento del prodigio evapora perché la bambina viene dichiarata morta di stenti. Nonostante il latifondista voglia fare un santuario sopra la casa bruciata, contraddetto dal prete e dal medico.

Ma diciamolo meglio: il ruolo oscurantista è definito in modo molto più specifico e trasversale. La lettura di Sebastian Lelio e di Emma Donoghue è molto più grave e precisa di un’accusa generica alla Chiesa. Non è un caso se la suora si assicura che la bambina sia fuggita e stia bene. Michael scopre l’inganno e tace, pur potendo distruggere sia Elisabeth che Anna. E non solo rinuncia a farlo ma fa capire a Elisabeth che manterrà il segreto raccontando ciò che ha visto come una visione paradisiaca che paradossalmente avvalla la tesi che Anna sia morta, affermando che è fuggita. Attraverso questo racconto la suora usa la superstizione della famiglia e della comunità per avallare l’assurdo racconto della santità di una bambina lasciata morire d’inedia. Ma al tempo stesso lo rende anche inutilizzabile perché se la bimba è morta di inedita significa che il miracolo non è mai accaduto. 

Semmai c’è al centro di tutte le dinamiche la violenza maschile sottolineata più volte, non a caso, dalla locandiera. La quale dice che la colpa è degli uomini poco prima che la suora racconti la fuga di Anna. Ed è sempre la locandiera che si accorge che il proprio marito chiama l’infermiera davanti alla commissione degli uomini prima di lasciarle mangiare la sua colazione. È chiaramente tutto legato al potere maschile. Anche il padre di Anna, un uomo debole e vile, quando Elisabeth lo implora di far mangiare la figlia protesta che la bambina gli ha fatto giurare di non chiederglielo. Non potendo esercitare alcun potere usa le manie della bambina per difendere la propria posizione. Mentre la madre diventa a sua volta lo strumento del potere del fratello sulla sorella. 

Da notare che la locandiera, oberata dai troppi figli che non vuole, è proprio la moglie dell’unico uomo del consiglio che rimane scettico verso il digiuno di Anna. L’unico anti oscurantista. Non opprime la ragazzina ma opprime comunque la moglie atteraverso legami sociali e morali che non vengono solo imposti e accettati ma anche esercitati e goduti. In sostanza l’oscurantismo è tutto legato alla parte maschile della società rappresentata. 

E in effetti questo risulta. Il medico che doveva rappresentare la scienza avalla a tutti i costi la versione della bimba santa, il latifondista proprietario della casa vuole creare un santuario sopra la casa bruciata, solo il prete, che fino ad allora avallava la versione della manna, dice che non ci sono le prove.

++Allargare il panorama++

Se invece si vuole parlare del ruolo della chiesa cattolica irlandese nel perpetrare una serie di atti violenti e abusatóri contro le donne le scelte di visione sono diverse. Per mostrare questo aspetto uno dei film migliori è Magdalene.

The wonder parla di patriarcato in senso trasversale, ben oltre la questione confessionale. L’oscurantismo è rappresentato in tutta la società vittoriana, e non a caso le uniche figure capaci di riscatto sono le donne che per un verso o per l’altro hanno studiato: l’infermiera e la suora.

Viceversa Magdalene parla chiaramente degli abusi della chiesa cattolica irlandese nei confronti delle donne. Molto meno incisivo ma comunque bello è Philomena. E sempre per parlare del rapporto della Chiesa con le donne c’è Agnus Dei (o Les innocents). Questo solo per citarne alcuni dei titoli tra i più famosi.

Non ho paura di parlare dell’Oscurantismo della Chiesa. Semplicemente non voglio infilare tutto nello stesso calderone perché è sbagliato metodologicamente e non offre nemmeno alcun vantaggio dal punto di vista della riflessione femminista.

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Ma di quale indifferenza andate parlando?

A Civitanova Marche, il 29 luglio, è stato ucciso un uomo per futili motivi, con varie aggravanti di cui si occuperà la legge. Fin dal primo lancio della notizia si è parlato di indifferenza. E da quel momento è stato tutto un susseguirsi di commenti e articoli sulla stessa falsariga. Solo per caso mi sono resa conto che le cose non erano andate così come un certo giornalismo voleva raccontare.

Si è verificata un’incredibile manipolazione delle notizie per cui le persone che sono intervenute, pur non riuscendo a evitare l’omicidio, sono diventate per l’opinione pubblica nazionale (e poi internazionale) indifferenti e razziste. L’effetto telefono senza fili ha trasformato quei pochi individui presenti in folle indifferenti perché razziste, pur senza sapere niente di loro

La prima affermazione è stata che erano tutti lì a riprendere la scena col telefonino. 

Ti aspetteresti una gran quantità di video da vari punti di vista, invece no. Il mio compagno mi dice: “io ho visto un solo video, ora controllo”. Chiede in rete, verifica, e in effetti c’è un solo video. Potremmo esserci sbagliati, ma al momento non ne circolano altri: solo 39 secondi di girato, sempre gli stessi.

Hanno detto che la gente non ha fatto niente, è stata indifferente. 

Poteva essere. Il 30 luglio però leggo casualmente da Loredana Lipperini un post che riportava ciò che le aveva scritto Sara, che era presente ai fatti: «Io c’ero a Civitanova, ho visto tutto e ho aiutato come tante altre persone. Ho letto il commento di Mentana che come molti dice che quell’uomo è morto nell’indifferenza generale: non è vero. Io sono ancora molto scossa e non riesco a dormire. Di tutto questa assurdità di come può morire una persona mi porterò nel cuore sempre l’immagine del dottore in vacanza col costume che è stato chiamato dalle persone in attesa che arrivasse l’ambulanza e ha provato a rianimarlo. Delle persone si hanno ripreso ma le riprese sono state date subito agli agenti per incastrare l’aggressore che da quanto ho potuto capire è stato preso grazie anche a un signore che lo ha rincorso e lo ha segnalato alla polizia. Si capisce tanto da come vengono diffuse le notizie quando certe cose le vedi con i tuoi occhi». Lo stesso commento l’ho letto sulla bacheca di Sara, almeno finché ha retto. Poi il post non è stato più raggiungibile. Non è difficile immaginare perché lo abbia tolto.

C’era pieno di gente − hanno scritto − e nessuno ha mosso un dito. 

Siccome mi piace verificare sempre ho guardato il video (39 secondi), anzi l’ho analizzato. Si sentono le grida delle persone presenti e uno che dice «chiamate i carabinieri, la polizia, qualcuno». Infatti sono stati chiamati e sono arrivati, come ha scritto Sara. Incuriosita dalla polemica che montava ho continuato a verificare. Nel video non si vedono persone presenti. L’unico che si vede è un vecchio col cane. Il Corriere, riportando le informazioni degli investigatori, dice che erano in cinque, di cui due anziani (un uomo e una donna), la ragazza moldava che ha ripreso la scena e un impiegato che ha dato un calcio alla stampella e inseguito l’assassino. Le folle indifferenti erano due anziani, una donna moldava e un impiegato. La quinta, la fidanzata dell’assassino, era entrata in un negozio e non si è accorta di niente, se non a delitto compiuto. Lui era tornato indietro a cercare l’ambulante.

Cinque persone. Cinque. E un uomo nel pieno delle forze in preda a una crisi di rabbia violenta che atterra la vittima. Alle 14 di pomeriggio, in una strada dove non si vede passare nessuno.

Mario Mosconi, 56enne impiegato all’agenzia delle dogane e dei monopoli di Civitanova, che venerdì pomeriggio si trovava proprio in Corso Umberto I

Continuano a dire che nel video si vedono passanti che non si fermano.

Ho ripreso in mano il video più volte. Non chiedetemi perché. Sentivo che in questa versione c’era una sorta di pilota automatico. Ho osservato com’è composto il luogo dov’è avvenuto l’omicidio. L’aggressione si è compiuta su un marciapiede piuttosto ampio. C’è una fila continua di macchine parcheggiate sul lato. Poi c’è una strada grande dove passano le macchine. Sull’altro lato c’è un’altra fila continua di auto parcheggiate. I pochi passanti che si vedono scorrere camminano sul marciapiede dell’altro lato. L’assassino e la vittima stanno a terra, nascosti dalla auto parcheggiate. Quelli che si vedono passare sull’altro marciapiede non si fermano, non girano neanche le testa, non si accorgono di quello che sta succedendo. Li dividono dalla scena due file di macchine parcheggiate e una strada trafficata.

A volte la realtà è molto più mediocre dei fantasmi che le si proiettano addosso. Non c’è nessuna grandezza e nessun abisso. Non c’è vigliaccheria, non c’è eroismo. Non c’è indifferenza. Ci sono solo cinque persone che cercano di fare qualcosa e non riescono a far allontanare l’omicida.

Qualcuno sostiene che non si fanno le riprese davanti alla violenza. 

Beh invece si, si fanno eccome. Se non ci fosse stata una documentazione video l’omicidio di George Floyd nel 2020 sarebbe passato per un’altra cosa. Sarebbe stato possibile raccontare che George Floyd aveva reagito, che George Floyd era l’aggressore e l’omicidio era stato un incidente. Pensate davvero che sia così improbabile?

Molti si sono indignati perché la ragazza del video ha ripreso tutto per farlo vedere alla mamma. 

Leggo sul Corriere: “La testimonianza della donna moldava di 28 anni. Gli inquirenti: «Quel filmato ci ha dato una grossa mano»”. «Ho ripreso tutto col mio cellulare per farlo vedere a mia madre, l’ho girato in preda all’orrore». “«Per esempio – spiegano gli investigatori – il video che è diventato virale su Internet ci ha dato una grossa mano insieme ai filmati delle telecamere di Corso Umberto per ricostruire la dinamica esatta dell’aggressione subìta dal mendicante». Un documento importantissimo, dunque, che di sicuro finirà agli atti”. La ragazza ha effettivamente mandato tutto alla mamma. La mamma che non sta in Italia, ma in Moldavia. Poi sentita dalla Polizia, ha consegnato il video alle autorità senza problemi. Da quanto si è capito la madre ha inviato il video a un’amica in Italia e il video è circolato su Wathapp finché non è finito in rete.

Il ruolo delle immagini

La cosa più sorprendente per me è stata proprio l’indignazione per il video girato dalla ragazza moldava come fosse una colpa. Come se il fatto di girare un video che verrà usato nella ricostruzione dei fatti fosse insignificante. Come se non fosse la stessa identica cosa fatta dai testimoni dell’omicidio di George Floyd. 

E in merito al video voglio ricordare una cosa a cui non si pensa mai abbastanza. Vent’anni fa in Italia è stata compiuta un’enorme violazione collettiva dei diritti umani. Non lo dico io, lo dice Amnesty International, lo dicono i processi, lo dicono le ricostruzioni storiche. Io ero là. E sebbene non abbia fatto niente di male sono dovuta scappare. Ho dovuto proteggermi non solo quel giorno ma anche dopo. Quel giorno dalle botte, i giorni seguenti dall’opinione pubblica aizzata dai media. Io, come tutti quelli che erano a Genova, ho dovuto difendermi dalle accuse gratuite perché, nonostante avessimo preso le botte, respirato gas proibiti dalle convenzioni di guerra, riportato problemi di salute, nessuno credeva a quello che raccontavamo.

Ci ha salvati una sola cosa: l’enorme quantità di documentazione fotografica e video che siamo stati in grado di raccogliere e di mostrare. Circolava una sola indicazione tra gli attivisti: fotografa, filma, documenta tutto.  È grazie a questa documentazione che è stato possibile dimostrare ciò che poi è diventato di dominio pubblico: si è trattato di una violenza inaudita e noi siamo stati vittime. Non a caso il Media Center è stato distrutto poco prima che facessero irruzione alla Diaz. Noi però avevamo altre immagini, tante immagini. E le immagini hanno permesso di stabilire l’accaduto oltre ogni possibile dubbio. Le immagini sono state la nostra garanzia. Provate a pensare se non lo avessimo fatto: non ci sarebbe stato niente. I processi, le denunce di Amnesty, i racconti di quella inconcepibile violenza. Sarebbe stata solo la parola di un gruppo di giovani a cui non credeva nessuno. Sarebbe stato possibile negare che ci avevano pestati selvaggiamente e raccontare che ci avevano colpiti perché li avevamo aggrediti. E infatti ci hanno provato. Ma noi avevamo le immagini e con quelle abbiamo chiesto giustizia.

La percezione della realtà

Tutta questa vicenda si riduce a una sola domanda. Voi siete davvero sicuri che i giornali che hanno strillato all’indifferenza senza conoscere interamente gli eventi vi stiano aiutando a capire? Vi stiano facendo un bel servizio? Vi stiano raccontando i fatti?

In questi giorni ci siamo raccontati che siamo tutti eroi. Che si può fermare a mani nude un omicida in preda alla frenesia. Che quelli che avrebbero dovuto farlo erano due vecchi, due donne e un impiegato. Il quale, in effetti, è intervenuto. Ci siamo raccontati che chiamare i soccorsi, allertare le forze dell’ordine, dare un calcio all’oggetto con cui l’omicida colpiva la vittima, impedire la fuga dell’omicida e permetterne l’arresto, tentare di rianimare la vittima prima dell’arrivo dell’ambulanza, consegnare il video della colluttazione alla polizia, è “non fare niente”, è “indifferenza”. Ci siamo raccontati che un vecchio con il cane poteva fermare un quarantenne nel pieno delle forze, durante l’esplosione di una crisi di rabbia violenta.

Ho letto le affermazioni più disparate tutte accomunate da una cosa: l’assenza del principio di realtà. C’è chi ritiene paragonabile l’omicidio a quando da ragazzini si sono intromessi nelle zuffe dei compagnucci o all’intervento nelle liti in caso di diverbi, chi ipotizza che un vecchio senza alcuna preparazione poteva blandire un uomo in preda a una crisi di rabbia, chi suppone che il vecchio nel video sia razzista perché si siede e si gira, chi afferma che nel video si notano dei passanti senza riflettere se potevano davvero vedere la colluttazione e infine chi afferma che, invece di riprendere la scena, la ragazza moldava poteva tirare il cellulare addosso all’assassino, come se 200 grammi fossero un corpo contundente.

Qualcuno si è perfino spinto a parlare dell’effetto spettatore in un pubblico che assiste a una situazione d’emergenza. Anche se il fenomeno è ben documentato, nessuno parte dal dato di realtà: quanti erano, cosa potevano fare, cosa hanno fatto. Io non dico che i presenti non potessero comportarsi diversamente. Ma il dato di realtà è che ciascuno fa le cose in base alle capacità che ha, in base alle forze e alla preparazione che possiede. Il dato di realtà è che hanno cercato davvero di fare qualcosa, anche se non sono riusciti a distrarre l’aggressore e a salvare la vittima. Il dato di realtà è che non si possono chiamare indifferenti delle persone che hanno cercato di intervenire nel modo in cui potevano. 

Passo dopo passo

Cosa si può fare, mi ha chiesto qualcuno durante una discussione sui social. Non lo so. So solo cosa faccio io e di certo non per indicare agli altri la verità. Io non ce l’ho la verità. So solo che quando un racconto mi sembra troppo conforme alla mia visione del mondo mi fermo e osservo. E se noto qualche cosa che rompe la coerenza sospendo il giudizio.

Mi è capitato di cambiare idea anche dopo molto tempo ma non è un processo semplice. Credo che sia questione di tempismo: non partire mai con troppa sicurezza, qualunque sia la notizia in questione. Di fronte a reazioni univoche e uniformi, faccio un passo indietro per riconquistare la prospettiva. Se noto che all’indignazione per determinati fatti non corrispondono bene i fatti, comincio a confrontare i vari giornali.

È una semplice verifica delle fonti. Tutto dipende infatti dal rapporto tra opinione pubblica e media. Molte persone si sono immaginate la scena di una cinquantina di testimoni, tutti col cellulare puntato, che guardavano un bianco ammazzare un nero perché questo hanno recepito dai media. 

Non analizzo le fonti per indicare la verità ma solo per permettere a me stessa di capire. Alla base c’è la semplice consapevolezza che tutti siamo soggetti a cadere in distorsioni. Tale consapevolezza implica l’abitudine a tenere sotto controllo prima di tutto le mie distorsioni. Anch’io mi posso perdere, quindi fate le vostre considerazioni, usate il metodo, non lasciatevi travolgere dall’emotività delle notizie.

L’indignazione come unica risposta

Tutta questa vicenda si riduce a una sola domanda. Voi siete davvero sicuri che i giornali che hanno strillato all’indifferenza senza conoscere interamente gli eventi vi abbiano aiutato a capire? Vi abbiano fatto un bel servizio? Vi abbiano raccontato i fatti?

E se ieri ci siamo raccontati quello, mi pare coerente raccontarci oggi che i bipolari come lo è l’omicida possono uccidere, anzi uccidono. Quindi evitare di osservare tutto il resto, cioè la realtà. Cose come il contesto, la cura, gli episodi pregressi, i trattamenti sanitari obbligatori, le visite al pronto soccorso, la fuga dall’ospedale.

Ogni giorno c’è una nuova categoria pronta da odiare. Per sentirsi giusti, per sentirsi migliori, per sentirsi sicuri di quello che si è. Per rattoppare con una falsa coscienza, sempre rinnovata, i buchi delle nostre fragilità e della nostra impotenza.

Ma va tutto bene purché si dia in pasto la miseria quotidiana a un popolo sempre più arrabbiato e meschino, che sfoga sugli altri le proprie frustrazioni.  Perché in fondo tutto serve a un solo scopo: sapere che noi siamo migliori. E con l’indignazione che ci viene regolarmente erogata ne abbiamo ogni volta la rassicurante conferma.

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Libertà di (non) poter scegliere

La sentenza della Corte suprema degli Stati Uniti rende i singoli stati liberi di applicare le proprie leggi in materia di aborto. Così Texas e Missouri lo hanno già reso illegale.

Le scelte etiche sono sempre terreno di mediazione e di potenziale conflitto ma questo divieto non ridurrà affatto l’aborto, lo renderà solo più classista.

Perché, appunto, il sistema valoriale non è necessariamente condiviso e non serve a niente vietare una pratica che per una parte della popolazione non rappresenta un problema etico. Si può solo regolamentarla.

Succederà che le donne ricche andranno ad abortire negli altri stati e le donne povere ricorreranno all’aborto clandestino sfuggendo definitivamente a qualsiasi rete sociale.

Paradossalmente le cose peggioreranno non solo per le donne ma anche per il famoso diritto alla vita che verrà compresso in una gestione clandestina e classista.

Può sembrare controintuitivo ma il fatto è che tutto quanto passa dalle maglie dello Stato ha maggiori margini di intervento, compreso il diritto alla vita.

La differenza non è solo nei valori, che ovviamente in questo caso non sono condivisi, ma proprio nell’approccio ai fenomeni che può essere pragmatico o dogmatico.

Hanno scelto quello dogmatico e non si sono preoccupati del danno che avrebbero fatto agli stessi valori che sostengono.

Come ha sottolineato un’amica, nel dibattito è stata criticata l’idea che la corte dovrebbe considerare la volontà pubblica. Citando il giudice supremo Rehnquist è stato affermato: “The Judicial Branch derives its legitimacy, not from following public opinion, but from deciding by its best lights”.

Credo che in questo modo il rischio che si corre è quello di corteggiare un modello di Stato etico che invece di considerare i cittadini portatori di diritti, decide qual è il comportamento eticamente edificante e pretende di educarli.

Quando lo Stato si propone di formare e orientare i cittadini nega di fatto l’autonomia ai singoli secondo una concezione paternalistica.

Ritengo invece che lo scopo dello Stato sia mediare la convivenza di persone con principi e valori diversi, evitando l’offesa ai diritti dell’uno da parte dell’altro non decidere cosa è meglio per i cittadini al posto loro come fossero bambini.

Anche perché non è solo questione di diritto (si lo è, certo, ma è anche altro). L’aborto è considerato sempre anti-etico nei un sistemi valoriali che ritengono individuo qualsiasi stadio di sviluppo del feto. Sistemi valoriali e di pensiero legittimi ma che non rappresentano una convinzione universale, nemmeno nelle religioni.

Credo si possa dire senza timore di smentite che la maggioranza dei cittadini concorda sul fatto che l’aborto tardivo, oltre un certo termine, è eticamente inaccettabile (tranne eccezioni precise): il problema è stabilire il confine tra un prima e un dopo.

Se non erro, il limite di tempo per l’aborto legale, coincide nelle varie legislazioni con il tempo di formazione del sistema nervoso. Al di là delle opinioni personali ritengo che sia l’unico principio che può essere considerato condiviso.

Capisco anche che per alcuni non sia così e dal mio punto di vista è importante regolamentare i termini dell’aborto legale proprio perché si tratta di un limite labile. Ma il ruolo dello Stato non è decidere cosa è meglio per me (e per inciso è lo stesso motivo per cui ero dubbiosa sull’intervento dello Stato nel caso di Charlie Gard).

Esiste poi un’ulteriore aspetto su cui mi ha fatto riflettere un’altra persona. Il tema dell’aborto legale è di fondamentale importanza e proprio per questo dovremmo evitare di scollegare la questione dei diritti dalla questione politico economica.

Per i ricchi cambierà poco mentre per i poveri cambierà tutto. Mi sembra invece che si stenti a parlare apertamente di povertà. Questa sentenza colpirà i poveri, i ricchi troveranno comunque una via di fuga. E se non colleghiamo il tema dei diritti al tema della povertà, i diritti non significano più niente.

Se oltre ai diritti in sé non viene difeso l’accesso universale ad essi, si sta difendendo un potenziale privilegio. Laddove si smette di vedere il privilegio è solo perché se ne sta assumendo il punto di vista.

https://www.ilpost.it/2022/06/24/corte-suprema-sentenza-aborto-motivazioni/

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L’incubazione mediatica del femminicidio

Si chiamava Carol, Carol Maltesi ma i media la chiamano con il nome che aveva scelto come attrice porno, Charlotte. E invece delle foto normali, da sola o con suo figlio come per le altre donne, di lei ci sono le foto del set, quelle in cui è un po’ scollacciata ma non troppo sennò vengono oscurate dai social.

Lei, Carol, è stata uccisa e fatta a pezzi da un omicida che ha filmato tutto. Prima l’ha ridotta in fin di vita a martellate in testa. Quando ha capito che forse era ancora viva, l’ha finita con una coltellata alla gola perché stava soffrendo. Secondo lui è stato un gesto di pietà. Ha fatto a pezzi il corpo di lei asportandole i tatuaggi, lo ha messo nel congelatore e ce l’ha tenuto per due mesi. Poi lo ha distribuito in quattro sacchi della spazzatura e lo ha trasportato dal milanese all’alta Val Camonica. Ha provato anche a bruciarlo nel barbecue di un B&B ma non ce l’ha fatta. Sono le sue dichiarazioni. Infine lo ha gettato in un dirupo. Nei giorni successivi ha usato gli account di lei per rispondere a suo nome e depistare le indagini.

Pausa. Occorre tirare il fiato per sopportare questa sequela di orrori. Lui era il fotografo a cui lei si affidava. Tutte le foto di lei che ci sono sui social le aveva fatte lui. L’omicida è stato con la vittima per tutto il tempo del suo breve e recente percorso nel porno.

Eppure tutto quello che i giornali riescono a mettere nel titolo è che la vittima lavorava come attrice di film porno. Non contenti alcuni la chiamano con il nome che lei usava per lavoro. «Davide Fontana ha fatto a pezzi Charlotte Angie», una porno attrice. Come suona diversa da «Davide Fontana ha fatto a pezzi Carol Maltesi», una donna che sta crescendo un figlio, una donna che lavora, a prescindere che ci piaccia il lavoro che fa.

La chiamano Carol Maltesi solo e soltanto quando raccontano della volta in cui lei fece un video su Instagram per parlare della violenza sulle donne. Ma dimenticano che il tema del suo video sono le violenze psicologiche e i pregiudizi nei suoi confronti. Le sue parole su Instagram contro sono un pugno nello stomaco. Lei non si nasconde e parla proprio di ciò che ora, dopo la sua morte, la sta vittimizzando per la seconda volta.

Ma quando raccontano il suo omicidio, neanche il nome all’anagrafe le concedono. E neanche un’immagine normale: preferiscono mettere in copertina quelle un po’ hard, perché l’aspetto morboso di questo omicidio attira gli spettatori e così si capisce bene come stanno le cose.

Neanche la dignità nella morte. E neanche nella morte le concedono la libertà di gestire il proprio corpo secondo le sue scelte, giuste o sbagliate che siano. Come se l’approvazione sociale e morale fossero il prerequisito per essere considerate vittime. Se non ti comporti da brava ragazza, sei meno vittima delle altre, vali meno di un’altra donna. Lo fanno sempre: se non è l’approvazione sociale sono la verginità, la monogamia, la moralità, l’abbigliamento, l’atteggiamento.

Se non rispecchi i canoni prestabiliti va bene chiamarti col nome da attrice porno anche quando si parla del tuo omicidio. E mettere le foto in cui si vedono le tette, quel che basta non troppo, sennò i social censurano i capezzoli. Tanto non è morta una donna con una vita e un futuro, è morta una porno attrice. Poco importa cosa volesse, quali fossero i suoi progetti, la sua normalità. Faceva la porno attrice. Quindi era una porno attrice. E questo è tutto ciò che i titoli dei giornali riescono a raccontare. O meglio, vogliono raccontare.

Il giorno in cui si capirà che i femminicidi nascono nel momento in cui le donne smettono di essere percepite come esseri umani, sarà sempre troppo tardi.

Nutrendosi della reiterata rivittimizzazione delle vittime, il prossimo femminicidio comincia la sua storia qui, radicandosi nel modo in cui viene raccontato il femminicidio precedente. Comincia ora.

Oggi, con questa narrazione, inizia l’incubazione del prossimo femminicidio.

Edit:

Tra l’altro non si capisce neanche perché un comico venga stigmatizzato (giustamente) per una frase oggettificante nei confronti di donna una vittima di femminicidio mentre se la maggioranza dei giornali possono titolare sottolineando per dritto e per rovescio che la vittima faceva la porno attrice, mettendo come immagini le foto dei set, usando il nome della vittima come porno attrice al posto del nome all’anagrafe, invece non succede niente.

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Il premio nobel Muratov sulla guerra

Dmitrij Muratov è il direttore di Novaya Gazeta, un quotidiano russo indipendente che esce due volte a settimana. Tra i suoi giornalisti e collaboratori ci sono state cinque vittime dal 2000. Fra queste inchieste molte sono state firmate da Anna Politkovskaja, uccisa a Mosca nel 2006. Dmitrij Muratov è stato insignito nel 2021 del premio nobel per la pace 

Il 25 febbraio ha pubblicato sulla Novaya Gazeta un editoriale che dice così:

«Stamattina presto ci siamo trovati tutti in relazione, addolorati. Il nostro paese per ordine del presidente Putin, ha dichiarato guerra all’Ucraina e non c’è nessuno che può fermarla, la guerra. Perciò, oltre a essere addolorati abbiamo, e ho, anche vergona. Dalla mano del comandante supremo, come il portachiavi di una macchina costosa, penzola il pulsante dell’attacco nucleare. Che il passo successivo sia un attacco nucleare? Non riesco a interpretare in altro modo le parole di Vladimir Putin sull’arma della rappresaglia. Questo numero di Novaya Gazeta che esce venerdì (25 febbraio) lo pubblichiamo in edizione bilingue, in ucraino e in russo, perché per noi l’Ucraina non è un nemico e la lingua Ucraina non è la lingua del nemico e non lo saranno mai. Infine solo un movimento globale contro la guerra può salvare la vita sul nostro pianeta».

Traduzione dal russo di Paolo Nori

Murale di Laika, 15 e il 16 febbraio, Roma

Fahrenheit Chi ha paura di Dostoevskij?

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La bolla (non) covid free

MSC crociere ha garantito una bolla covid free ai passeggeri. Stando a quanto riferito sono state rispettare regole di imbarco precise. I passeggeri, vaccinati e con tampone, si sono imbarcati. Poi si sono contagiati in 150 e sono stati isolati infine sono stati fatti sbarcare.

Non si capisce bene se la crociera è finita, è stata interrotta e se gli altri hanno potuto proseguire. Il caso ha suscitato interesse e a un certo punto è arrivata la notizia che è stata intentata una causa collettiva alla MSC per aver garantito una cosa che non era possibile: una bolla covid free.

MSC sostiene che i passeggeri saranno rimborsati, perché è stata prevista un’assicurazione Covid, ma il problema economico legale non può nascondere la vera domanda che solleva questa vicenda.

Infatti è inevitabile chiedersi se il problema non consista proprio nella volontà di perpetrare a tutti i costi un’idea che, alla prova dei fatti, non può essere garantita nel concreto e che può ingenerare in chi si pone sotto questo scudo di carta un falso senso di sicurezza.

Il concetto di bolla o corridoio covid free garantito tramite green pass e considerato impermeabile al contagio Covid perché riservato ai soli vaccinati, in questo caso e in altri simili, non ha danneggiato i non vaccinati esclusi, al contrario ha danneggiato proprio i vaccinati (come è anche chi scrive).

Di buono c’è che i passeggeri non sono stati particolarmente male, almeno così sembra, che i vaccini stanno proteggendo i più fragili e i più anziani da esiti gravi, e Omicron pare avere a tutti gli effetti una letalità ridotta a fronte di una altissima contagiosità.

Fatto sta che quando ci siamo resi conto che si apriva tutto, pur senza ansie e fobie particolari, in famiglia siamo diventati più cauti di prima. Non pensiamo che il nostro comportamento debba essere quello di tutti ma solo che ogni situazione vada valutata singolarmente, in base alle possibilità e ai rischi di ciascuno.

Non contestiamo nemmeno la scelta del Governo, solo ci lascia perplessi il fatto che non sia stata comunicata con chiarezza e abbiamo dovuto scoprirlo dai fatti. Comunque sia saremo cauti finché non si calma questa ondata e di certo non perché siamo diventati improvvisamente asociali.

È vero che in casa siamo tutti vaccinati, è vero che Omicron è meno letale ma non ci fidiamo dell’idea che il green pass ci protegge da tutti i pericoli perché abbiamo la responsabilità di una persona anziana, in salute e con patologie pregresse.

Se qualcosa ci protegge, quello semmai è il vaccino, non il green pass. Non si vede infatti come per un anziano con patologie faccia qualche differenza essere eventualmente contagiato da persone vaccinate o non vaccinate.

Se il problema è il residuo residuo di variante Delta, a quanto pare ancora il circolazione, e lo “portiamo a nonno”, non sarà una consolazione sapere che siamo stati contagiati da un vaccinato piuttosto che un non vaccinato.

Tutti avremmo potuto accontentarci del fatto che il vaccino ci protegge da esiti gravi, anche se non ci rende immuni. Non c’era per forza bisogno di credere che potevamo creare una società parallela di soli vaccinati in cui il Covid non poteva avere accesso.

E forse sarebbe stato meglio per tutti.

https://www.rainews.it/articoli/2022/01/Covid-focolaio-a-bordo-di-una-nave-da-crociera-Msc-nel-porto-di-Genova-Piu-di-cento-i-positivi-433c0fe3-6fb2-4684-acf2-377f422d9b16.html

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Fiducia e timore. Una riflessione sull’obbligo

Se il governo non ha calibrato bene quanti dubbiosi ci sono ancora e quanti di loro convintamente contrari al vaccino, potrebbe ottenere l’effetto inverso.

Basta osservare le persone che accettano di perdere il lavoro o rimanere senza stipendio per capire che è qualcosa di più di un capriccio. È una posizione.

Una posizione non condivisibile per la grande maggioranza di noi ma una posizione. E non trattarla per quello che è peggiorerà le tensioni.

Ci sono persone – e può darsi che non saranno poche – che tireranno dritto nonostante il mutuo, il lavoro e i danni che subiranno. Altre che pensano di cambiare paese.

Credo che abbiamo a che fare sì, con la paura e l’avversione al vaccino, ma anche con scelte di vita e soprattutto con un livello di sfiducia altissimo.

Vedo radicalizzarsi le posizioni, crescere la divisione e credo sia l’ovvia conseguenza del clima che è montato da un anno a questa parte.

Prima quelle persone non erano così. Non tutte. Non avevano perso la fiducia nelle Istituzioni. Ma se uno perde la fiducia nella istituzioni non mi pare così imprevedibile che poi la cerchi in qualcosa d’altro.

Un conto sarebbe stato imporre l’obbligo fin dall’inizio e per tutti, magari (di grazia) cercando di mantenere un clima sociale di fiducia. Un conto è l’obbligo imposto dopo mesi, dopo le conflittualità, dopo misure le che si sommano, si sovrappongono e talvolta vanno in direzioni diverse.

Dopo che non si è fatto praticamente niente per le scuole, per i trasporti, per il personale medico e infermieristico in cronica carenza di organico, per la medicina di base dove basta un pensionamento per lasciare senza riferimenti migliaia di cittadini perché i medici non vengono sostituiti.

Dopo che gli ospedali sono stati dotati di farmaci anticovid che, come spiega Evelina Tacconelli (università di Verona) nell’articolo di Avvenire, non vengono ancora utilizzati.

Invece di ricostruire, o anche solo preservare, il rapporto di fiducia con i cittadini lo si minerà ancora di più. L’Istituzione non verrà percepita come autorevole ma come autoritaria.

Nessuna contropartita, nessuno che dice: ricordatevi che c’è l’esenzione per quelli che hanno problemi seri, guardate che togliamo il consenso informato perché ora la responsabilità della vaccinazione che vi imponiamo è nostra, guardate che se c’è l’obbligo diventerà inutile il green pass sul territorio nazionale.

Il green pass, di fatto ormai superfluo per tutti gli over 50.

Manca un equilibrio, manca una mano tesa nel proporre o anche solo nel ribadire insieme all’obbligo la presenza delle garanzie e delle contropartite.

Forse così si potrà dragare ancora qualche punto percentuale di vaccinati per semplice timore dell’autorità o della sanzione ma si demolisce la fiducia nelle Istituzioni.

Perché la fiducia non si basa mai sulla paura.

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Il trionfo dell’irrazionalismo

In un amatissimo film che ha segnato l’adolescenza di molte generazioni uno dei personaggi principali, Jake Blues “vede la luce” nel mezzo dell’esecuzione di un brano da parte del reverendo Cleophus James.

Jake, ex leader di un gruppo musicale rhythm and blues, è appena uscito di prigione dopo aver scontato tre anni per rapina. Deve recuperare i soldi per aiutare l’orfanotrofio dove è cresciuto e per trovare l’ispirazione va alla chiesa di Triple Rock insieme al fratello Elwood Blues.

Mentre Cleophus James sta cantando un ispiratissimo blues, Jake riceve la “rivelazione divina” che gli suggerisce di rimettere insieme la band, i cui vecchi componenti ora sono tutti onesti lavoratori.  Jake ed Elwood, da questo momento, saranno in missione per conto di Dio. La scena è quanto di più meravigliosamente surreale si possa trovare in questo genere cinematografico, non a caso citatissima da cinefili e rocchettari.

E siccome ritengo molto seriamente che per abbattere la conflittualità attuale occorra cominciare a ridere, parto proprio da qui, dalla conversione di Jake che circonfuso di luce azzurra e incoraggiato dal reverendo Cleophus rivela a tutti i presenti di aver visto la luce. Parto da qui perché il racconto della conversione dell’ex leader novax, che nelle intenzioni dei media dovrebbe essere presentata come una sorta di conversione di san Paolo, a me ha fatto venire in mente il reverendo Cleophus.

Siate clementi, sono una donna ironica e soprattuto stanca. Così stanca che non riesco più a prendere sul serio certe narrazioni. E non perché non sia vaccinata o perché nutra dubbi sull’efficacia dei vaccini. Non ho incerte sull’esistenza e sulla pericolosità del Covid. Sono convinta che l’uomo sia andato davvero sulla luna e spero ci andrà presto anche la donna. Per me il 5G è solo un metodo di trasmissione del segnale. Sono consapevole che la terra è sferica anzi, per l’esattezza, è sferoidale. E non so bene cos’altro dichiarare per far capire che non sono dalla parte sbagliata della barricata. Anche se il comportarsi da persona laica, razionale e vaccinata, dovrebbe essere sempre bastante.

Premesso questo, sono molto colpita dal modo in cui i media stanno raccontando morte e conversione dei novax a tamburo battente, non si sa bene a che scopo, visto che non è certo questo il modo in cui si possono convincere i recalcitranti a vaccinarsi.

Fin dalla notizia del ricovero si potevano leggere titoli del tipo: «Lorenzo Damiano, il leader No vax prende il Covid e si pente» e facevano sorridere già allora. Non credo abbia più molto senso arrabbiarsi prendendo le cose sul serio. Ormai è ovvio che non c’è nessuna utilità ai fini vaccinali in questo tipo di approccio mediatico. Ed è altrettanto ovvio che non interessa più a nessuno dei danni che vengono fatti proprio alla campagna vaccinale mediante questo tipo di comunicazione. Ammesso e non concesso che a qualcuno sia mai importato veramente.

Era prevedibile che quel tipo di titolo avrebbe gratificato alcuni e a fatto irrigidire altri. Perché il dato palese non è il novax convertito ma che tutto è plasticamente propagandistico, anche agli occhi di persone regolarmente vaccinate e che confidano nell’effetto positivo del vaccino. Quel titolo odora di propaganda e se chi lo legge non si vuol vaccinare sarà ancora più spinto a non vaccinarsi. È tutto molto chiaro.

Un approccio del genere alimenta solo i processi identitari e un allontanamento reciproco tra gli schieramenti. Chi non si vuol vaccinare penserà che il novax convertito venga esibito come un trofeo. O come una spoglia di guerra, se si vuole mantenere la metafora bellica. E non è esattamente una cosa che può spingere chicchessia a sviluppare fiducia.

Quell’approccio ha il solo risultato di rafforzare nella loro identità coloro che interpretano il vaccino come una forma di superiorità morale. O viceversa di confermare l’opposizione di chi non si vuole vaccinare. Grazie a questo approccio sarà tutto ancora più polarizzato. Tra qualche settimana ci chiederemo una volta di più perché ancora non cede la resistenza contro i vaccini quando abbiamo sempre avuto sotto gli occhi tutti gli elementi per capire.

La cosa, oggi, si ripete anche alle dimissioni dall’ospedale del novax convertito ma stavolta con un linguaggio che trasporta il vaccino stesso nell’ambito dell’irrazionalismo. Cosa che a me, adulta vaccinata, informata e consapevole dei benefici del vaccino, procura un certo fastidio. Al contempo però ho anche capito che è completamente inutile prendersela perché tutto quello che sta succedendo a livello comunicativo va molto oltre il piano razionale e la logica dell’utilità collettiva.

Oggi, la maggior parte dei giornali riporta un’intervista del novax convertito, con titoli variamente assortiti, e un testo particolarmente interessante su cui mi sono cimentata a fare un lavoro di decostruzione.  Non è stato esattamente un divertimento vedere come si possa trasformare il vaccino in una narrazione fideistica speculare e contraria a quella dell’antivaccino.

Questo approccio ovviamente farà danni ma ormai non c’è più alcuna strategia di comunicazione razionale e dunque non mi rimane che condividere alcune osservazioni sul modo in cui è stato fatto il racconto e sulla scelta linguistica adottata.

Partiamo dal presupposto che il vaccino è un fatto scientifico quindi non riguarda il “credere” ma il “constatare”. Perché il credere consiste in un atto di adesione senza evidenze di sorta: nessuno può vedere le divinità dei vari pantheon religiosi ma, appunto, ci crede senza vederli. O viceversa non ci crede proprio perché non li vede.

Il soggetto è presentato come un novax che ha cambiato idea. L’etichetta di novax lo delegittima e lo disumanizza. Ma nemmeno dopo la conversione si rinuncia all’etichetta delegittimante quindi, anche quando cambia idea, rimane comunque un soggetto delegittimato. Se il soggetto è delegittimato, ne deriva che anche il suo messaggio pro vaccino è indebolito. Infatti è presentato come una sconfitta e non come una trasformazione.

Tutto il discorso, come dicevo, è giocato sul piano delle credenze: prima il soggetto non credeva al vaccino e ora crede al vaccino, non c’è traccia alcuna del concetto di “constatazione”. Il fideismo è rafforzato dalla metafora della caduta. «La definirei una specie di caduta da cavallo» dice il convertito. «Potremmo dire che è stato fulminato sulla via di Damasco, come San Paolo?» chiede l’intervistatore. Interessante notare che Saulo, prima di diventare Paolo, era un persecutore dei cristiani.

L’intervistato sposta l’attenzione sull’aspetto professionale: «Quello che tengo a precisare è l’enorme professionalità di tutto il reparto dell’ospedale». Implicitamente ci racconta l’enorme differenza tra l’assistenza medica professionale e la rabbia cieca del popolino: «Mi ha veramente commosso la loro estrema dedizione». Questo, secondo me, poteva e doveva essere il focus di tutta la narrazione. Non solo in un’ottica umanitaria ma anche per tentare di recuperare un rapporto positivo con le persone sfiduciate nelle istituzioni che oggi vacillano rispetto ai vaccini.

L’intervistatore invece insiste: «La vita le ha giocato una specie di scherzo facendole contrarre il virus» e rischia di apparire strambamente simile ai predicatori che spacciano il Covid come una nemesi soprannaturale. Il che da all’intervistato il destro per ribadire che bisogna «credere nella scienza» senza mancare di accompagnare l’idea con la metafora biblica della via stretta (Matteo 7:13,14).

L’intervistatore chiede all’ex novax se vorrebbe diventare un testimonial della campagna vaccinale.  E il convertito risponde: «Certamente. Vorrei poter essere considerato un ambasciatore di pace». Se ancora non bastasse il clima religioso che permea l’articolo, l’intervistatore chiede ancora al convertito a chi vorrebbe chiedere perdono. E puntualmente l’intervistato risponde: «Al Santo Padre».

Ed eccoci al clou. L’intervistatore chiede: «Che messaggio si sente di dare a coloro che la pensavano come lei?». E dopo il rinnovato appello alla pace l’intervistato non manca di sottolineare: «Le confesso che avevo chiesto nelle mie preghiere, durante il mio viaggio a Medjugorje, che se avessi dovuto morire sarebbe stato bello che succedesse proprio in quel luogo. Quello che è successo, contrarre il virus proprio li per me è stato un segnale fortissimo di riconsiderare le mie posizioni, e l’ho fatto. Non è stato facile ma la fede mi ha portato qui e oggi la mia posizione è cambiata».

Ecco, il miracolo è compiuto. L’unico spunto dialettico significativo per una strategia sociale degna di tale nome, non è stato nemmeno intercettato, è andato perduto come lacrime nella pioggia.

Jake ha visto la luce. Ricostituiranno la banda, suoneranno di nuovo insieme, troveranno i soldi per salvare l’orfanotrofio e magari faranno anche saltare giù dal ponte i maledetti nazisti dell’Illinois (cit.). Ma io pensavo solo di vaccinarmi e invece sono andare a farmi fare l’iniezione senza nemmeno confessarmi prima.

Ovviamente sto scherzando. Mi sento di chiarirlo perché ho visto gente seriamente infuriata per quella totale idiozia del vaccinando col braccio di silicone. È evidente che è diventato tutto talmente serio e violento che esistono solo due possibilità: o cominciamo a stemperare il clima o scendiamo in strada e cominciamo a menarci. E io, francamente, ho perso troppe lezioni di Tai chi per esserne all’altezza.

https://www.ilmessaggero.it/salute/storie/lorenzo_damiano_come_sta_conegliano_casa_cure_no_vax_news-6365060.html

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Nelle scarpe degli altri, tra chiusuristi e vaccinisti

Sembrerebbe proprio che lo scontro politico attualmente in corso consista in un tiro alla fune tra i sostenitori del vaccino e i sostenitori dei lockdown.

Gli uni affermano che senza il vaccino a oltranza si ritorna in lockdown. Gli altri affermano che il vaccino non basta quindi si deve ritornare in lockdown. Se si fa un po’ d’attenzione lo si può leggere in trasparenza nei vari articoli e nelle interviste.

Tutto questo genera uno stato di frizione costante. Stato di frizione che si riverbera sulla popolazione generando ulteriori conflitti e sempre nuove tensioni che continuano a strappare pezzo dopo pezzo l’intera trama del tessuto sociale. È questo un fatto molto grave di cui però non viene mai tenuto il dovuto conto.

Non tener conto dell’onda lunga dei conflitti è un classico errore di auto sabotaggio perché è proprio così che si ingenerano le reazioni oppositive e si accresce il sentimento di sfiducia – e intendo proprio di sfiducia nei vaccini – dando vita all’insensato circolo vizioso in cui siamo precipitati.

Tale sentimento di sfiducia, a ben guardare, non è mirato nei confronti della scienza, di cui i più hanno una percezione quanto mai vaga (gli esperti in televisione non sono tutta “la Scienza”) bensì nei confronti delle istituzioni che propinano soluzioni attraverso i singoli provvedimenti avanzati dagli scienziati e presentati come certi e onnicomprensivi.

A volte questo avviene anche in contraddizione con gli stessi principi generali enunciati preventivamente ai cittadini, ai quali è stata spiegata la necessità di un approccio basato su vari comportamenti preventivi combinati (vaccino + mascherina + distanziamento fisico, etc.).

In tutto questo non possiamo non mettere in conto che la popolazione reagisca alle sollecitazioni in vari modi, dalle proteste alla sfiducia, dagli odi incrociati tra novax e ultravax alla spaccature interne dentro alle stesse famiglie.

Perché la realtà sta fuori dai social e una cosa è ostracizzare attraverso uno schermo gli avversari che non si conoscono; un’altra cosa è gestire i rapporti coi figli, coi genitori, con gli amici, con i colleghi.

Facile dire che i novax vanno isolati. Bisogna però provare a dirlo se quelli che devono essere isolati sono tuo figlio o tua figlia, tua madre o tuo padre, il tuo o la tua migliore amica, tuo fratello o tua sorella. Davvero è una buona idea di chiedere ai cittadini di spaccare le proprie famiglie e le proprie relazioni?

E così i lockdown. Facile dire che va di nuovo chiuso tutto se hai uno stipendio certo, se hai qualcuno che ti bada ai figli mentre lavori in smart working, se hai un computer per ogni componente della famiglia, se hai una casa grande, se sei ricco, se non sei una partita IVA che guadagna solo se lavora ma gli anticipi li paga lo stesso.

A questo scontro politico possiamo solo assistere, anche se saremo noi a pagarne il prezzo. Ma finiamola di scaricare tutte le responsabilità sempre e solo addosso ai cittadini.

Nelle scarpe degli altri, dicono gli anglofoni: «put yourself in someone else’s shoes». Ma troppo spesso la maggior parte di noi, di quelle scarpe non prova nemmeno a immaginarne il numero.

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E se smettessimo di spingere?

Giorni fa riflettevo su mia madre che è morta di cancro al polmone da fumatrice. Non so bene perché, a volte mi capita per semplice associazione di idee. Lei ha iniziato a fumare a 15 anni e a conti fatti ha fumato per 65. È così tanto tempo che per un certo periodo mi sono stupita che non si fosse ammalata.

Poi è arrivato il cancro e non è stata una sorpresa. La sorpresa è stata che avendo lei avuto un infarto ed essendo nefropatica, non era operabile né candidabile alla chemio. O meglio, si potevano fare entrambe le cose ma i rischi erano così alti da sconsigliarlo. Il rapporto costi benefici era del tutto a sfavore.

Lei ha vissuto comunque per altri due anni conservando una qualità di vita migliore di quella prospettata. L’unica cosa che rimprovero al SSN è di non averle dato il supporto necessario di cure palliative e terapia del dolore nella fase terminale. Ma a parte questo – che comunque non è un discorso marginale – è stato fatto il meglio che si poteva.

A mia madre abbiamo chiesto tutti di smettere di fumare, tante volte negli anni. Non l’ha mai fatto. Ogni tanto stava senza fumare per lunghi periodi ma poi riprendeva sempre. Conosceva i rischi che correva ma non ha mai smesso. Avendo fumato io stessa so bene che è del tutto inutile chiedere a qualcuno di smettere. Non smetterà. Perché il rischio di tumore sembra lontano e pare non riguardarti mai. Nessuno può sostenere che il fumo faccia bene ma diciamoci la verità: ha un buon sapore, aiuta a controllare l’ansia e rappresenta del tempo preso per sé. Se non si capisce questo è inutile parlare dei fumatori perché non se ne conosce la pulsione.

Quando mia madre è morta ho continuato a fumare. Ho deciso di smettere anni dopo e ho deciso del tutto da sola, quando ormai nessuno me lo chiedeva più e senza alcuna pressione addosso. Perché è così che si smette. La probabilità di smettere di fumare è inversamente proporzionale alle pressioni che si ricevono per smettere.

Credo che questo sia un paragone appropriato per il comportamento dei novax di principio, quelli che seguono percorsi ai nostri occhi irrazionali e nel rifiutare il vaccino rifiutano in realtà l’autorità che glielo impone. Se non c’è più un’autorità contro cui lottare, come i fumatori a cui non si chiede più di smettere, si apre una fase nuova. Una fase in cui sei padrone delle tue scelte.

Da fumatrice mi sono ritrovata in una situazione simile. Non avevo più nessuno contro cui difendere la mia volontà di fumare. Eravamo solo io, le tracheiti e il fumo. E il fumo, come dicevo, abbatte l’ansia e ha un buon sapore. Molti al mio posto hanno continuato a fumare. Poi ci sono io, ci sono quelli che come me hanno smesso perché nessuno gli diceva più di smettere.

Credo che questo si possa applicare anche a quei novax antiscientifici che sono oggetto di scherno da parte di chiunque. Non c’è niente che li farà capitolare, bisogna solo prenderne atto e smettere di fargli la guerra. Non è una questione di giusto o ingiusto ma di puro e semplice pragmatismo perché non serve a niente dargli una ragione per resistere una volta dopo l’altra.

A volte cerco a immaginare cosa succederebbe se smettessimo di spingere. nell’immediato, probabilmente, andrebbero avanti ma poi si troverebbero senza una forza contro cui spingere. Per quanto la loro opinione ci sembri irrazionale, bisognerebbe chiedersi se ha senso insistere all’infinito per fargliela cambiare con qualsiasi mezzo a disposizione. Perché così facendo continuiamo a fornire loro la forza contraria contro cui possono spingere. Per quanto sia controintuitivo, forse dovremmo fermarci. E invece di spingere, riflettere su possibili strategie. Cominciando a ragionare in modo diverso per interrompere il loop in cui siamo finiti. Mettendo in discussione questa guerra autodistruttiva contro i novax che non fa altro che rafforzarli. Partendo dall’idea che non li avremo mai dalla nostra parte.

Se si ammalano sarà giusto curarli, come impongono l’etica, la morale, i diritti umani e la Costituzione. Ma forse dovremmo lasciare che vadano incontro alle conseguenze delle loro scelte. Pur augurandogli di non ammalarsi e nella consapevolezza che potrà succedere, questa è la loro scelta, non la nostra. E anche se la loro scelta ci riguarda, noi non possiamo sostituirci a loro, possiamo solo limitare i danni.

Dalla mia prospettiva di pro vax – o smart vax come preferisce definirsi qualcuno – mi chiedo spesso se non bisognerebbe lasciare che sbaglino, che si ammalino, pur intervenendo per quanto possibile sulle conseguenze.

Forse dovremmo prendere atto una volta per tutte che non possiamo cambiarli. Forse dovremmo lasciargli spazio e sperare che facciano scelte più vicine alle nostre. Ma soprattutto dovremmo comprendere che nel tentativo estremo di cambiarli riusciamo solo a renderli più oppositivi.

Non mi si venga a spiegare che il vaccino non riguarda solo le scelte individuali ma anche il benessere collettivo. Lo so bene. L’ho ben presente fin dall’inizio. Ce lo siamo siamo detti fino allo sfinimento. Ma qui è questione di capire quale strategia.

Sono convinta che non servano a niente le polemiche e le criminalizzazioni. E quello che sta accadendo lo conferma. Servono molto di più l’esempio e la coerenza. Per quanto mi riguarda non solo mi sono vaccinata ma ho lottato, con l’aiuto di amiche e di medici, per far vaccinare gli anziani della mia zona, rimasti bloccati da ottusi meccanismi burocratici. Questa è la mia testimonianza. Pratica, oggettiva, concreta.

C’è una cosa che mi ha sempre colpita del libero arbitrio: l’idea che la sua forma più piena è lasciare che le persone sbaglino. È una situazione asimmetrica. Ma a volte si può solo stare pronti a limitare i danni, se ce ne sarà bisogno, senza poter impedire che le persone vadano incontro alle conseguenze delle scelte che fanno.

Nei confronti di chi adotta posizioni irrazionali – cioè antiscientifiche – in genere mi metto a osservarne i meccanismi comportamentali. Non mi interessa discuterci, lo trovo inutile. Per me la questione è una sola: quanti sono? L’importante è che queste persone siano sufficientemente poche da non mettere in crisi il sistema. E a quanto pare lo sono.

Tutto sta a decidere cosa conviene di più. Se vale la pena continuare a comprimere quel tot di renitenti sapendo di alimentare uno scontro che porta alle stelle la spinta oppositiva. Oppure smettere di spingere. È una questione di rapporto costi benefici.

Per me la questione è tutta lì.

23 luglio 2021

8 novembre 2021

Aggiornamento della discussione:

Roberta Villa su Facebook

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Alcune buone ragioni per guardare Squid Game

È montata in questi giorni la polemica su Squid game, la serie coreana distribuita da Netflix a partire dal 17 settembre 2021. Serie che ha il suo bel disclaimer “vietato ai minori di 14”. Sarebbe una buona idea quella di attivare il parental control. C’è infatti la possibilità di proteggere con un PIN ogni profilo utente in modo che ogni bambino potrà accedere al proprio profilo senza riuscire a modificare le restrizioni. Ma non è questo l’argomento del mio post.

La serie racconta la storia di persone diventate povere o indebitate, a causa delle dinamiche socioeconomiche del loro paese, che scelgono di partecipare a una serie di giochi che culmina con la vittoria di un solo partecipante. Chi perde durante le prove non viene eliminato ma viene ucciso sul posto e i cadaveri vengono cremati. Alcuni di essi, morenti ma non ancora morti, vengono usati per l’espianto di organi di nascosto dall’organizzazione che ha indetti i giochi.

Il tutto è raccontato dal punto di vista di Seon Gi-hun, i futuro giocatore 456, che fa da cicerone nelle due puntate prelimari all’interno delle contraddizioni della società coereana dove, si scopre, gli indebitati e i poveri si vendono gli organi per far fronte ai bisogni economici.

Seon Gi-hun è un ludopatico indebitato, che decide di partecipare al gioco per riscattarsi. Durante una prima fase, quando i giocatori capiscono la vera natura delle prove, decidono secondo le regole del gioco di sottoporre a votazione la sua continuazione. Infatti la regola numero 3 prevede che se la maggioranza dei giocatori vota di smettere, tutti se ne vanno a casa senza ricevere nessun premio. Il premio aumenta per ogni giocatore morto, valutato per una cifra fissa. Di fronte a questa prospettiva, terribile e allettante, la maggioranza decide per smettere. Tutti ritornano alle gramaglie della loro vita. Salvo poi essere convocati una seconda volta e riprendere il gioco fino alle estreme conseguenze,

Seon Gi-hun (n. 456) non rappresenta solo il punto di vista da cui è narrata la storia ma è anche uno dei personaggi in controtendenza. Pur spinto dal desiderio/bisogno di denaro rifiuta però di agire violenza. La serie rappresenta aspetti reali della società sudcoreana dove ci si indebita facilmente con conseguenze disastrose. Il personaggio di Seon Gi-hun (n. 456), pur difendendosi dalle aggressioni, non uccide mai nessuno anzi protegge i deboli e aiuta gli altri a sopravvivere. L’unica volta che vince contro il vecchio Oh Il-nam (n. 001) è il vecchio stesso, malato terminale, che decide di perdere e quindi di lasciarsi uccidere.

Fa riflette il fatto che, come riferisce la reporter LIM Yun Suk, durante una manifestazione per indurre il governo a migliorare i diritti dei lavoratori, diversi lavoratori sindacalizzati si siano vestiti con i costumi di Squid Game. E fa riflettere anche in relazione al gruppo di personaggio scelti. Squid game è la rappresentazione della catena alimentare sociale. I giocatori sono tenuti sotto controllo da alcune guardie vestite di rosso, sotto la sovrintendenza di un presentatore o front man. Il front man sta sopra le guardie ed è a sua volta sottoposto ai vip, gli ospiti ricchi che assistono al gioco organizzato da un personaggio occulto che si rivela solo alla fine. Le guardie hanno un gerarchia al loro interno segnalato dal simbolo che hanno sopra la maschera: il quadrato sta sopra il cerchio, il cerchio sta sopra il triangolo. Al tempo stesso comandano i concorrenti che sono la parte più bassa della catena alimentare perché hanno perso tutto e possono solo combattere tra di loro. Ma nessuno è al sicuro. Chiunque sgarra, delle guardie e dei concorrenti, può essere ucciso oppure premiato a seconda dei desiderata di chi comanda il gioco. I manifestanti hanno scelto i costumi delle guardie, non dei concorrenti. Sono sottoposti a chi comanda ma non si identificano nella condizione di chi ha perso tutto come i concorrenti di Squid game.

Sono molti gli episodi in cui la serie porta in luce le contraddizioni di una società ipercompetitiva. Gli amici si trovano a dover scegliere di tradire gli amici ma, appunto, nelle situazioni di gioco sono rappresentate le scelte opposte. Cho Sang-woo (n. 218), capo di una società di investimenti sommerso di debiti che ha truffato i clienti, decide di sacrificare Abdul Ali (n. 199), un immigrato pakistano incapace di provvedere alla famiglia perché il proprietario della fabbrica in cui lavorava non lo paga. Kang Sae-byeok (n. 067), profuga nordcoreana che vuole far emigrare sua madre, viene salvata da Ji-yeong (n. 240), una ragazza appena uscita di prigione per aver ucciso suo padre che aveva assassinato sua madre. Ji-yeong (n. 240) sceglie di perdere e di essere uccisa, Cho Sang-woo (n. 218) sceglie di tradire l’amico, che ha vinto al gioco delle biglie contro di lui. E poi di uccidere a tradimento la stessa Kang Sae-byeok (n. 067) per non doversi misurare con lei nel gioco.

Squid game racconta che la vera ricchezza non sono i soldi ma il potere che con essi si acquisisce. Infatti Seon Gi-hun, che vincendo ha acquisito il potere di influire sulle vite degli altri, non usa i soldi per sé ma per provvedere alla madre di Cho Sang-woo, che lui stesso ha sconfitto nello scontro finale. Nemmeno in questo caso Seon Gi-hun uccide l’avversario: è lo stesso Cho Sang-woo che si suicida in una sorta di redenzione finale. E Seon Gi-hun, che ha vinto il gioco, usa i soldi secondo la sua etica. Affida il fratellino di Kang Sae-byeok alla madre di Cho Sang-woo dando loro una vaglia di soldi e senza rivelare alla madre della crudeltà spietata del figlio.

Seon Gi-hun rompe il determinismo violenza – denaro – potere – violenza che è la struttura della dinamica non solo del gioco ma anche della società in cui il gioco è inserito. Pur dentro i meccanismi violenti della società che il gioco rappresenta, pur responsabile di negligenze ed errori, sceglie deliberatamente di non fare del male agli altri. E quando ottiene i soldi decide di non usarli in modo egoistico.

La serie è piena di questi riferimenti talmente messi in chiaro da essere didascalici. Atti di ribellione al darwinismo socioeconomico che sono metafore semplici, come nello stile coreano, ma efficaci per rappresentare anche la nostra società occidentale falsamente meritocratica, competitiva, spietata con i più fragili e con chi non si adatta o rifiuta le spavalde e aggressive regole del gioco. Gioco a cui alcuni partecipano per prevalere e altri semplicemente per sopravvivere.

È questo che racconta la serie. Con immagini violente sì, ma mai gratuite, mai indugiate sul dettaglio morboso. Le morti sono scioccanti, ma riprese da lontano. Il sangue è mostrato ma diventa simbolo. E poi c’è il dettaglio assurdamente edulcorato dei cadaveri portati via dal campo di gioco dentro delle bare nere che somigliano a scatole da regalo nere con uno smaccante fiocco rosa a sminuire l’esistenza stessa delle persone uccise in questo assurdo gioco il cui unico scopo è di trastullare il gruppo di ricchissimi vip che assiste al suo svolgimento.

Lo stesso fiocco rosa, dichiara il regista Hwang Dong-hyuk, è da intendersi come regalo da parte dell’ideatore dei giochi ai concorrenti. Come se l’ideatore dei giochi dicesse ai giocatori: “questo è il mio dono per voi. Anche il fatto che i vostri corpi siano stati gettati nell’inceneritore è una dimostrazione della mia misericordia”. La possibilità di liberarsi di una vita di miseria e abiezione, la misericordia manifestata con la distruzione stessa del corpo dei poveri attraverso l’inceneritore dentro una bara da lui regalata.

Ora, che i bambini non colgano tutti questi significati è normale. Il vero, gravissimo, problema è che non li colgono nemmeno gli adulti che chiedono la censura della serie.

Questa è la cosa che dovrebbe interrogarci.

Perché degli adulti capaci di intende e di volere guardano la rappresentazione del darwinismo sociale di matrice ultra liberista e non lo vedono affatto?

IS

(un ringraziamento a Giuseppe d’Elia e David Bonaventuri per le segnalazioni)

fonte: https://www.ilpost.it/2021/10/18/squid-game-debiti-corea-del-sud/

fonte: https://www.scmp.com/news/asia/east-asia/article/3153213/south-korean-protesters-squid-game-outfits-defy-coronavirus?module=perpetual_scroll&pgtype=article&campaign=3153213

fact checking: https://www.newsweek.com/fact-check-south-korea-protesters-squid-game-1641624

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Luana morta in fabbrica. Il corpo, il femminismo e la politica.

Natalia Aspesi ha scritto un pezzo di confronto tra la morte in fabbrica di Luana D’Orazio e alcuni temi del femminismo contemporaneo. Gli argomento continuavano a risuonarmi in testa così mi sono riletta in dettaglio il pezzo in cui parlava di Luana, dell’operaia a cui è stato strappato lo scalpo in un calzaturificio di Asolo e dell’operaio morto schiacciato in una fabbrica di materie plastiche a Busto Arsizio.

La cosa mi ha colpito soprattutto per il clamore che sollevato sui media e sui social in merito alla questione, questione che alla fine si è messa a ruotare intorno alla Aspesi invece che a Luana. Se non nomino tutti quelli che sono intervenuti è solo perché c’è stata una tale serie di rimbalzi polemici che non ho voglia di ricostruirli.

Comunque per capire ho cercato le notizie di cronaca e ho letto una frase su una delle altre morti non mediatizzate di cui parla la Aspesi, che mi è arrivata come un cazzotto nello stomaco: “La donna si è presentata davanti all’azienda in compagnia della suocera per chiedere gli effetti personali del marito”. È una scena che conosco. Lo dico senza un briciolo di autocommiserazione. Anni fa un amico bussò a casa mia a notte fonda per dirmi di uscire con lui perché suo padre stava morendo. Non feci discussioni e nel tragitto per l’ospedale mi spiegò dell’incidente sul lavoro.

Arrivammo che suo padre era già morto e quel sacchetto di plastica con gli effetti personali glielo consegnarono in mano. Il giorno dopo avevo un compito di storia che il mio senso del dovere idiota mi impose di non disertare. Durante la ricreazione guardai quel giornale che avrei evitato se fossi rimasta a casa. Il bidello lo teneva aperto sulla pagina locale: c’era un infimo trafiletto che dava la notizia, a segnalare la normalizzazione di questi eventi proprio nella sua evasiva brevità. E questa cosa continua a succedere ancora oggi per gli incidenti sul lavoro, anche nei casi letali. Difficilmente i morti sul lavoro passano dalla cronaca locale alle testate nazionali.

Solo Luana D’Orazio è salita agli onori dei quotidiani di tutto il paese occupando brevemente l’intera scena. Per un momento Luana ha percorso gli infiniti capillari dei canali media e social con tutto il nero splendore della sua storia. Talmente pop, nell’immaginario di tutti, da arrivare ad essere ritratta in un murale. La santa laica, la madre dell’orfano, la bambina uccisa. Ogni volta che scrivo e ritocco il testo le mani mi diventano gelide com’è gelido quello che provo verso tutta la vicenda.

Qual è la differenza tra gli schieramenti contrapposti e quale il legame? Qual è la cosa che non riescono a vedere? È questa: il ruolo del corpo nel successo della notizia. “Immaginate il bel corpo giovane di Luana, un corpo come il vostro, straziato da una cieca macchina” scrive la Aspesi che coglie, ma senza approfondirlo, il punto centrale della narrazione. La notiziabilità del corpo di Luana, così bello, così giovane, così narrativamente adatto a farne una mini epopea popolare. Notiziabilità che nel rovescio della propria medaglia significa la scarsa, scarsissima, spendibilità mediatica di quello che come Luana non è. Di quello che non è bello e non è giovane, come nel caso degli altri operai feriti e uccisi.

Percentualmente parlando, la maggior parte della copertura mediatica per Luana D’Orazio non riguarda gli incidenti sul lavoro né le cause della sua morte. Riguarda la sua bellezza, la sua giovinezza, la sua maternità precoce, la sua comparsata nel film di Pieraccioni, i suoi video spensierati.

Alla fine tutto questo ha finito per divorare l’unica realtà: Luana non è morta per ragioni minimamente legate a questa narrativa, non serve evocarle; Luana è morta sul posto di lavoro. Il suo corpo bello, il suo viso giovane sono finiti dentro una macchina tessile. La macchina non fa differenza. Ma di questa storia sarebbe importato molto meno se la sua immagine non fosse stata così appetibile per la narrativa dei media.

E forse è proprio questo il punto di rottura ma anche di contatto che non si riesce a trovare tra gli schieramenti opposti, come in fondo in tutta la questione del contrasto tra narrativa e sostanza. L’ossessione del corpo, sempre soggetto alla valutazione e alla misurazione da parte di altri. In funzione della conformità alle attese sociali o al successo della notizia. So che non si capisce da che parte sto, se pro o contro la Aspesi. Ho scelto, ma in questo discorso il mio schieramento non ha alcuna importanza.

Sulla figura di Luana D’Orazio, vittima di un incidente sul lavoro, è stato applicato un filtro Instagram. Il corpo fisico consegnato al racconto orrorifico della macchina che ne fa scempio. L’immagine affidata alla narrazione di una bellezza eterna, celebrata dai media che si sono fatti teca di cristallo. Una teca come quella di Biancaneve che ha dominato il dibattito pubblico di quei giorni in una polemica infiammata ed effimera.

La morte di Luana – così vicina, attuale, drammatica – necessitava di emotività e semplificazione per essere facilmente assimilabile dal pubblico. Così è partito il filone narrativo della bellezza, della giovinezza, della maternità fresca. Ci hanno raccontato un fiore appena sbocciato alla vita e subito spezzato dalla macchina crudele. E sarebbe una favola perfetta non fosse che la questione non è affatto romantica ma crudamente pragmatica, economica, contrattuale, politica.

Esiste un modo per silenziare la questione sindacale? La rivendicazione della sicurezza? Il tema delle responsabilità e delle cause? Sì, raccontare una favola. Raccontare l’archetipo della bella giovane falciata dalla crudele macchina. Adesso sì che il tema del corpo ritorna – “il bel corpo giovane di Luana” – nel suo significato di oggetto di attenzione. Ma torna per occupare tutta la scena e cancellare con la sua presenza ogni altra istanza. E Luana viene masticata per la seconda volta da questa narrazione che sostituisce il panegirico del corpo alla politica ma il corpo in sé non lo rispetta affatto.

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L’ansiolitico in borsetta. L’infodemia e la nevrosi che ci frena

Quando calano i contagi nei periodi di zona gialla, capita che si possa andare a pranzo fuori. Abbiamo trascorso quattordici mesi di isolamento dagli amici, di rinuncia ai rapporti stretti con i familiari, di perdita dei contatti con i parenti. E no, le videocall non bastano, non sono mai bastate. Hanno aiutato all’inizio, quando tutti eravamo pieni di energia e pensavamo di poter reggere a qualsiasi cosa. Ma alla lunga abbiamo tutti più o meno smesso di farle. Perché i rapporti umani sono un’altra cosa e non c’è niente di eversivo nell’ammetterlo.

Durante la zona gialla, capita anche che ti metti d’accordo con alcuni amici fidati, di quelli che sai che stanno attenti perché hanno genitori anziani anche loro. E sai che portano la mascherina, stanno distanti, si lavano le mani. Sai che hanno anche ridotto i contatti all’essenziale per precauzione. Allora fai una valutazione di rischio e il rischio è così basso che puoi permettertelo.

Hai scelto un ristorante poco frequentato, con le sale ampie e i tavoli distanziati. Hai chiesto proprio il posto vicino alla finestra. E così aspetti con trepidazione che arrivi il giorno, assaporando il gusto di ritrovare delle persone in carne ed ossa, non solo la loro immagine tradotta nei pixel dello schermo di uno smartphone.

Ti prepari, esci di casa ed è proprio lì, quando stai per chiuderti la porta alle spalle, che arriva quella maledetta sensazione di vuoto esattamente nel punto del plesso solare. Ti paralizzi. Riconosci che stai avendo una crisi d’ansia. Ne hai avuta solo una in vita tua ma è stato tanti anni fa, non era mai più successo. Adesso invece è tornata, è lì e ti tiene bloccata sulla soglia.

Ma hai fiducia nella forza della tua mente, non ti lasci sopraffare. Rientri in casa, prendi la boccetta dell’ansiolitico e te la infili in borsa. Non vuoi arrenderti al farmaco ma sai che potresti non controllare la crisi. Così scendi a patti: proverai a vedere se riesci a dominare la tua ansia e se capisci che non ce la fai, c’è sempre l’ansiolitico per aiutarti a porre un freno.

Esci di nuovo, chiudi la porta misurando i movimenti, sali in macchina, incontri gli amici e succede quello che non ti aspettavi. Loro non lo sanno nemmeno ma ti curano. Parlano e tu ti dimentichi della tua ansia. Vedi la loro faccia così concretamente umana. Parli, ridi, mangi qualcosa. Che bello questo posto, siamo anche vicini alla finestra. Solo quando vai a lavarti le mani ti ricordi di avere l’ansiolitico in borsa. Sei quasi felice. Vedi la tua faccia riflessa nella loro con tutte le espressioni quasi all’insù.

Fai perfino una passeggiata. Piccola, in sicurezza, senza azzardare. Certo, ti stordisce il pensiero che poco prima della pandemia tu desiderassi soltanto scendere da uno dei tanti treni, fermarti da uno dei tanti spostamenti della tua vita frenetica. Avere il sedere su una poltrona invece che sul sedile della macchina. È come mettere i piedi nella piscina gonfiabile dopo aver nuotato nel mare aperto. Ma si deve fare e si fa.

Poi arrivano la zona arancione, la zona rossa e poi ancora gialla. Come ora che nella mia regione, la Toscana, possiamo oltrepassare i confini comunali e andare a pranzo fuori. Per resistere alle chiusure abbiamo imparato a fare la pizza e il sushi. Ma solo per resistere. Non è che ci venga bene, ce lo facciamo piacere. Ma alla fine ci siamo accorti che era solo cibo e non bastava. Che la farina, il riso e il lievito non possono sostituire le persone.

Quando sei in zona gialla, come ora, provi a pensare di uscire di nuovo. Uscire-uscire, intendo, con gli amici a fare qualcosa di conviviale, fosse anche all’esterno, fosse anche con il cappotto, dato che è una primavera maledettamente fredda. Ci pensi, ci ripensi ma poi ti rendi conto che non riesci più a farlo. Che la tua mente, non il tuo corpo, si è rinchiusa. Con l’unica finestra dei social sempre più isterica, sempre più polarizzata.

Così a un certo punto ti ritrovi letteralmente divisa, con il tuo corpo che può e vuole uscire, ma la tua mente è ferma sulla soglia di casa come in quell’attacco d’ansia che ti aveva congelato i passi due mesi fa. Già, due mesi fa. O forse erano quattro? Quanto tempo è passato? Era Natale? No, a Natale non si poteva. Pasqua? Quando era? Non lo sai più. Perché la realtà è che è stato troppo il tempo trascorso con una sola occasione conviviale esterna. Semplicemente troppo.

Non è più questione di paura del virus. Abbiamo imparato a conviverci, nonostante i media abbiano fatto di tutto per esasperare le paure e le istituzioni abbiano dato indicazioni confuse. Per non sapere né leggere né scrivere, io faccio riferimento all’OMS. Quello che stiamo sperimentando in tanti – in troppi direi – è nevrosi, non paura. Siamo vivendo nella carne gli effetti di questa condizione che no, non è dovuta al virus ma alla pessima comunicazione fatta colpevolizzando ogni nostro atto fino all’inevitabile patologizzazione dei comportamenti normali e perfino di quelli corretti. Non è la paura che ci danneggia, è la pressione.

In tanti stiamo adottando tutte le forme di prevenzione che ci sono state indicate. Non abbiamo paura del virus, abbiamo capito bene come proteggerci. In tanti siamo già vaccinati. Sappiamo che il vaccino non ci impedisce di contagiarci ma ci protegge dagli esiti più gravi della malattia ed è quello che conta. Non sappiamo se possiamo contagiare gli altri, se ci contagiamo da vaccinati, ed è per quello che continuiamo ad applicare tutte le forme di prevenzione.

Pratichiamo la prevenzione e non abbiamo paura del virus ma abbiamo difficoltà a uscire. E siamo tanti. Basta fermarsi a parlare per trovare qualcuno disposto a confrontarsi. Non è scientifico, d’accordo, ma è completamente umano. Siamo talmente deprivati di rapporti sociali che lì fuori le persone non aspettano altro se non di parlare. Con chiunque, che lo conoscano oppure no, a prescindere da tutto. Ed è così che si raccolgono le storie di gente comune presa dal panico per il semplice fatto di uscire all’esterno. Gente che appena può rientra a casa dato che fuori si sente male. Gente che grida nel sonno, ha incubi notturni. Gente che ha cominciato a soffrire di tachicardia, di attacchi di panico, di ansia. E altra gente che ha ripreso a bere. Oppure è ossessionata ogni giorno dalla voglia di una sigaretta dopo sette anni da ex fumatrice, come succede a me. Gente che ha smesso di dormire.

Comincio a essere una di loro. Non riesco ad addormentarmi. La mattina mi sveglio di botto senza essere riposata. E il brutto è che me ne rendo perfettamente conto. Non ho paura ma ho sviluppato reazioni che vanno oltre il mio livello conscio. Io non ero così, non ha mai avuto paura di affrontare le situazioni complesse. Ora non dormo, se esco ho l’ansia, se sto in casa ho il senso di soffocamento. Non ho vie di fuga.

E ogni santissimo giorno che l’universo imbastisce, c’è un nuovo titolo di giornale che intesse colpevolizzazione a destra e a manca, di sotto e di sopra.. Senza mediazione, senza riflessione, senza quasi più razionalità. Livello di polarizzazione estremo. Aperturisti contro chiusuristi. Tu da che parti stai? E come se non bastasse devi anche tener conto se vuoi essere riconosciuto nello schieramento di sinistra o di destra. Chiusure a sinistra, aperture a destra.

Quanto tempo ci vorrà per capire che è la cosa più stupida inventata dall’inizio dalla pandemia? Quando ci renderemo conto di quanto è pericoloso valutare l’efficacia dei provvedimenti appiattendo la risposta sulla necessità di collocarsi a destra o a sinistra? Non lo dico io, lo dice Giulio Cavalli parlando – giustamente – di una polarizzazione che è riuscita a inquinare il dibattito trasformando ogni riflessione in un esercizio di appartenenza politica.

Siamo in molti che stiamo attenti, osserviamo le distanze, pratichiamo la prevenzione, facciamo il vaccino. E non possiamo andare avanti così. Non ce la si può fare. Perché abbiamo smesso di dormire, perché abbiamo incubi, perché ci svegliamo nel sonno, soffriamo di tachicardia e abbiamo gli attacchi di panico sulla soglia di casa. Stanno creando una generazione traumatizzata per una pulciosissima questione di clickbait.

Non a caso l’OMS ha coniato il neologismo Infodemia, proprio in riferimento all’attuale pandemia, a indicare l’eccesso di informazioni dei media, informazioni a contenuto angosciante, terrorizzante e quasi sempre contraddittorio.

Molti di noi sono vaccinati perché sì, abbiamo fiducia nella scienza. Fiducia, non fede, perché ci siamo informati, abbiamo capito, abbiamo consapevolmente scelto. Ma per certi personaggi non basta mai. Devi entrare in uno stato di paura cronica. Non contano più la sicurezza, il vaccino, il rispetto di tutte le forme di prevenzione. Conta la paura. Se non hai paura, non c’è niente che sia sufficiente.

In tutto questo, il discorso razionale sulla prevenzione ha perso qualsiasi importanza. Ha perso di importanza se porti la mascherina, se stai distante, se ti lavi le mani, se stai all’aperto. Non è più solo prevenzione. È proprio che devi avere paura sennò niente ha valore. E nessuno riflette sul fatto che è la paura stessa a costituire un rischio perché è quella che ti fa fare le scelte irrazionali mettendo in pericolo noi stessi e gli altri.

Basta, smettetela con le fobie a titoli cubitali. Lasciateci affrontare la situazione in razionalità e sicurezza. Lasciateci vincere la paura.

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CoViD-19 e stress da pandemia: “l’integrità mentale non ha alcun rapporto con la statistica”

Il trauma da pandemia può lasciare segni sulla psiche fino a 30 mesi.

Conseguenze psicologiche del Coronavirus

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La vaccinazione dei più fragili

«I vaccini Pfizer infatti sono stati dati a centinaia di migliaia di studenti di medicina, amministrativi e iscritti a vari ordini professionali, indipendentemente dal fatto che avessero contatto con i pazienti, e soprattutto indipendentemente dal loro rischio personale, che sotto i trenta-quarant’anni è minimo. Ancora oggi si continuano a vaccinare studenti universitari e professionisti trentenni che lavorano a distanza, per i quali essere vaccinati o no cambia ben poco, sprecando questa risorsa così preziosa, che per tanta gente più anziana può invece fare la differenza tra la vita e la morte. Questo per inseguire la chimera dell'”immunità di gregge”, che è molto improbabile poter raggiungere in questo caso, tanto meno in una condizione di carenza di vaccini, come saremo a lungo. La vaccinazione doveva servire sì a mettere in sicurezza gli ospedali, nel senso di mantenerli in funzione – quindi ok vaccinare il personale, così come altri liberi professionisti ad alto rischio (penso a dentisti e assistenti) -, ma subito dopo, l’obiettivo della campagna vaccinale doveva essere quello di proteggere i più fragili, per ridurre il carico sugli ospedali stessi».

Il problema dell’approvvigionamento dei vaccini preoccupa tutti i Paesi, ma più del numero assoluto delle dosi…

Pubblicato da Roberta Villa su Lunedì 22 febbraio 2021

I dati vengono dal report del Governo italiano sui vaccini anticovid
 
 
 
situazione al 22 febbraio 2021
situazione al 25 febbraio 2021
23 febbraio 2021

Vaccini, il giallo delle 800 mila dosi in più (distribuite agli uffici e non agli anziani)

di Federico Fubini e Simona Ravizza
25 feb 2021

«Tra due giorni, i Paesi europei conteranno due mesi esatti dall’inizio della campagna vaccinale più complessa della loro storia. E pur nel ritardo complessivo di tutto il continente, non è andata nello stesso modo per tutti. L’Italia nelle prime tre settimane è partita più veloce della media europea, ma da allora ha iniziato a rimanere un po’ indietro. La Francia è partita piano, mentre dalla terza settimana ha recuperato. Oggi Italia e Francia viaggiano quasi appaiate: la prima ha vaccinato almeno con una dose il 6% della popolazione, la seconda il 5,9%.

Questi dati non rispondono però a una domanda essenziale, vista la capacità di Covid-19 di discriminare in base all’anno di nascita dei contagiati: chi ha già ricevuto le somministrazioni? Saperlo è utile, perché in Italia l’86% delle vittime del virus aveva 70 anni o oltre. Quante dosi sono state date agli anziani, visto che il Paese anche di recente ha continuato a perderne oltre diecimila al mese? E quante ai giovani?

La distribuzione del vaccino per età
Pochissimi Paesi europei informano sulla scomposizionedei vaccini in base all’età. Il ministero della Salute tedesco, a ripetute richieste del Corriere della Sera in proposito, non ha mai risposto. Italia e Francia invece sono molto trasparenti, ma proprio la ricchezza dei loro dati — del ministero della Salute e di Geodès Santé Publique — fa emergere differenze radicali nell’approccio fra i due Paesi. A ieri, la Francia aveva vaccinato un esercito di anziani in più rispetto all’Italia: con almeno una dose, ne aveva messi un po’ meglio al sicuro quasi 900 mila settantenni o oltre in più. In realtà probabilmente lo scarto è maggiore, perché il ministero della Salute di Roma informa solo sul totale di dosi somministrate per età e molti anziani nelle case di riposo ne hanno ricevute già due. Ne ha coperti almeno 485 mila in più nella fascia dei settantenni (70-79) e almeno 406 in più fra chi ha 80 anni e oltre, pur con dimensioni della popolazione quasi uguali in queste fasce d’età. Dato che quasi nove vittime su dieci di Covid fanno parte di quelle generazioni, la differenza può avere implicazioni serie.

Anziani trascurati dalla campagna di vaccinazione
Ma davvero è tutto qua? Lo squilibrio nella distribuzione dei vaccini in Italia per ora è davvero importante. I settantenni (70-79 anni) in Italia hanno ricevuto appena il 3,7% delle dosi anche se sono il 10% della popolazione e uno su dieci fra loro, se contagiato, muore. In Italia anche i ventenni (20-29) sono il 10% della popolazione, eppure hanno ricevuto il 10% delle dosi benché fra loro muoia appena un contagiato su mille. Quanto agli ottantenni, fra i quali i decessi avvengono in due casi di contagio su dieci, a lunedì avevano avuto molte meno dosi dei trentenni (che pure muoiono in sei casi su mille)».

https://www.corriere.it/economia/lavoro/21_febbraio_25/vaccini-covid-uffici-d8a3b3d8-76d9-11eb-843a-1237b4657d5e.shtml


Intervista di Radio1 a Claudio Cricelli, presidente della Società italiana di medicina generale (Simg)

«La signora Livia, 86 anni, pur di non perdere la prenotazione per il vaccino, fa 4 km a piedi. Regioni e colori, la mappa aggiornata e le norme in vigore in attesa dei cambi che ci saranno domani. Prenotazioni per i vaccini e somministrazioni, ogni Regione ha il suo metodo ma si crea il caos. Il giallo delle dosi scomparse, a chi sono state somministrate? Mascherine cinesi, scattano un arresto e misure interdittive, l’accusa è traffico di influenze illecite. Di che si tratta? Queste le notizie principali ‘sotto inchiesta’ nella puntata di oggi. Sono intervenuti: Claudio Cricelli, presidente della Società italiana di medicina generale (Simg), Bruno Sokolowicz, inviato del Giornale Radio Rai, Diodato Pirone, giornalista de Il Messaggero, Federico Fubini del Corriere della Sera e Federico Vianelli, avvocato cassazionista e docente di Diritto Pubblico all’Università di Padova.

Link alla puntata


Piano vaccinale, le Raccomandazioni per la Fase 2 un insulto alle persone con disabilità

di Lisa Noja

 23 febbraio 2021

Il j’accuse di Lisa Noja: «Sfuggono a qualsiasi logica i requisiti individuati per identificare le “persone estremamente vulnerabili”, che avranno diritto ad accedere alla vaccinazione subito dopo il completamento della copertura di tutti gli over 80. Solo per fare alcuni esempi, non sono incluse altre malattie neuromuscolari, come la SMA o le le distrofie muscolari di Duchenne e Becker, malattie metaboliche e lisosomiali e molte altre. Scelte discriminatorie e illogiche»

È passato un anno dalla notizia della positività al Covid19 del paziente 1 di Codogno. Dodici lunghi mesi in cui i malati rari, come me, i pazienti affetti da altre gravi cronicità e, in generale, tutte le persone con disabilità hanno vissuto paura e fatica, tantissima fatica. Ogni singolo giorno. Una fatica che ha messo a durissima prova la resilienza di chi pure ha fatto di tale qualità un esercizio esistenziale.

Ebbene, dopo un anno come quello passato, non posso nascondere che leggere le Raccomandazioni sulle priorità della Fase 2 della campagna di vaccinazioni anti-SARS-CoV- 2/COVID-19, pubblicate dal Ministero della Salute l’8 febbraio scorso, è stato un pugno nello stomacoSfuggono, infatti, a qualsiasi logica i requisiti individuati per identificare le “persone estremamente vulnerabili”, che avranno diritto ad accedere alla vaccinazione subito dopo il completamento della copertura di tutti gli over 80.

L’esempio più eclatante di questa illogicità emerge con riferimento ai soggetti con “condizioni neurologiche e disabilità (fisica, sensoriale, intellettiva, psichica)”, in quanto tali condizioni sono definite dalle Raccomandazioni come “sclerosi laterale amiotrofica, sclerosi multipla, paralisi cerebrali infantili, pazienti in trattamento con farmaci biologici o terapie immunodepressive e conviventi, miastenia gravis, patologie neurologiche disimmuni”.
Inspiegabilmente, non sono elencate numerose altre malattie rare che comportano comorbilità del tutto equivalenti e disabilità altrettanto gravi. E così, solo per fare alcuni esempi, non sono incluse altre malattie neuromuscolari, come la SMA o le le distrofie muscolari di Duchenne e Becker, malattie metaboliche e lisosomiali e molte altre.

Qualcuno potrà sostenere che l’elenco sia solo esemplificativo, ma questo non è precisato in nessun passaggio delle Raccomandazioni. Tanto che molte associazioni hanno ritenuto doveroso scrivere al Ministero della Salute per chiedere un immediato chiarimento. Analoghe incongruenze emergono anche con riferimento alle malattie respiratorie, dove si fa riferimento alla fibrosi polmonare idiopatica e ad “altre patologie che necessitino di ossigenoterapia”, omettendo di menzionare la fragilità delle tante persone che utilizzano il ventilatore polmonare, senza necessità di ossigeno. E ancora, per le patologie oncologiche, si indicano i “pazienti onco-ematologici in trattamento con farmaci immunosoppressivi, mielosoppressivi o a meno di 6 mesi dalla sospensione delle cure e conviventi. Genitori di pazienti sotto i 16 anni di età. Pazienti affetti da talassemia”. Rientrano nella priorità gli altri malati oncologici? Non è dato saperlo con certezza.

Queste lacune e contraddizioni a livello nazionale non potranno che indurre le Regioni a determinare in via autonoma, e spesso differenziata, le modalità di individuazione delle categorie delle persone “estremamente vulnerabili”, con il conseguente rischio che un paziente lombardo sia trattato diversamente da uno che risiede nel Lazio. Una discriminazione territoriale insopportabile tra cittadini che si trovano in condizioni di rischio del tutto analoghe. Del resto, questo è il risultato di un approccio che, adottando esclusivamente criteri medico- nosografici, rischia di tradursi in elenchi di patologie sempre incompleti, perché sfuggirà sempre qualcuno con rischio clinico assolutamente equivalente.

Non solo, questo approccio ha espunto dall’analisi tutte quelle criticità ambientali e relazionali di cui si dovrebbe necessariamente tenere conto nella definizione delle priorità. Nessuna rilevanza è data, infatti, alle difficoltà per molte persone con disabilità non autosufficienti o non collaboranti di praticare le misure di distanziamento, alle criticità di diagnosi (per molti effettuare un tampone è difficilissimo) o a quelle legate alle esigenze di isolamento e quarantena domiciliare o di gestione di un eventuale ricovero, né tanto meno si considera il rischio di un ulteriore isolamento sociale e
regressione cognitiva legato al contagio. Non è un caso, quindi, che le Raccomandazioni abbiano di fatto escluso dalla precedenza tutte le persone con disabilità intellettive e psichiche, salvo chi ha la sindrome di Down (inclusa solo per la frequente presenza di cardiopatie congenite che essa comporta).

Così come non avranno precedenza vaccinale persone con condizioni invalidanti, anche ove in possesso del riconoscimento di disabilità con connotazione di gravità ai sensi dell’articolo 3, comma 3, della legge n. 104/1992. Una certificazione chiara, rilasciata da INPS dopo una serie di accertamenti che danno assoluta certezza sulla condizione di fragilità di chi ne è titolare. Né sarà accordata una priorità ai caregiver delle persone con disabilità, e ciò nonostante si tratti di soggetti per i quali siano riscontrabili criticità analoghe a quelle individuate per il personale sociosanitario e per quello delle RSA. Nelle Raccomandazioni, infatti, solo con riferimento ad alcune specifiche patologie è indicata come prioritaria anche la vaccinazione dei conviventi della persona malata, mentre in tutti gli altri casi questa raccomandazione non è presente.

Qualcuno può pensare che queste considerazioni lascino il tempo che trovano perché comunque oggi le dosi vaccinali sono poche, insufficienti a coprire tutti i fragili e, quando ne avremo molte, il problema sarà automaticamente superato. E’ un osservazione che non tiene conto del livello di frustrazione che questa situazione di incertezza, questa impossibilità di avere anche solo una prospettiva temporale sta generando in chi da mesi combatte una battaglia silenziosa e costante per sfuggire al virus, cercando di continuare a lavorare e a vivere, almeno un pochino, seppur in uno stato di sostanziale isolamento sociale.

Le persone vulnerabili, come ho detto, sono capaci di prove straordinarie di resilienza, ma non esiste possibilità alcuna di adattarsi a scelte sanitarie illogiche, discriminatorie, in ultima analisi eticamente inaccettabili. Questo la politica non può e non deve ignorarlo.

http://www.vita.it/it/article/2021/02/23/piano-vaccinale-le-raccomandazioni-per-la-fase-2-un-insulto-alle-perso/158432/?fbclid=IwAR3d2kizOu7ztWvW95HDl6OT6bv9kLKoYn31rLkyqVusAAtRFUTaBdbImBQ


Il flop dei vaccini dell’Europa e dell’Italia

di Alberto Negri

Quello dei vaccini è un maledetto imbroglio. Sul Covid, la più grave emergenza globale del dopoguerra, l’Europa e l’Italia stanno consumando il peggiore fallimento della loro storia. Non è un caso che nella Ue si chiudano le frontiere in barba alle regole di Schengen: nessuno qui crede più a nessuno.Anche per questo il nostro governo dovrebbe svegliarsi e tentare di procurarsi le dosi necessarie di vaccino senza badare troppo al politically correct e alle favolette che racconta da Bruxelles Ursula von der Leyen: ognuno sta andando per conto suo. Siamo in stato di emergenza da un anno ma ci comportiamo come se la pandemia del secolo si potesse affrontare con mezzi e metodi normali. Se si vuole uscire da questa situazione in estate serve vaccinare, secondo gli esperti, almeno 25-30 milioni di persone e al più presto possibile le fasce anziane più vulnerabili per evitare mettere sotto stress il sistema sanitario nazionale e le terapie intensive.Ci sono soltanto 3,6 milioni di persone vaccinate con 5 milioni di dosi disponibili non ancora utilizzate per una serie di inefficienze nel sistema. Nelle previsioni iniziali le dosi che dovevano essere già arrivate in Italia erano più del doppio: 28 milioni, cinque volte di più. Un risultato assai scoraggiante. Fino a poco meno di un mese fa l’Italia era il secondo paese in Europa per numero di vaccinazioni. Oggi, invece, siamo scivolati verso il fondo della classifica.La notizia che AstraZeneca dimezzerà in Italia le consegne di vaccini nel secondo trimestre _ un crollo da 24 a 12 milioni di dosi _ non aiuta, anzi rende le cose più drammatiche. Non esiste infatti un piano vaccinale nazionale e proprio AstraZeneca ha contribuito ad aumentare la confusione. L’arrivo di AstraZeneca con la prima indicazione da parte di Aifa di un suo utilizzo solo per gli under 55, poi passata a 65, ha portato a uno stravolgimento del Piano vaccini con un’apertura anticipata della fase della vaccinazione di massa. In funzione di questa nuova necessità, il Piano è stato modificato con la previsione di due percorsi paralleli: da una parte le regioni proseguono la prima fase con la vaccinazione degli operatori sanitari, ospiti delle Rsa ed over 80 con i vaccini di Pfizer e Moderna; nel contempo si è iniziato ad usare il vaccino di AstraZeneca su alcune categorie ben definite, a partire dalle Forze armate e di Polizia, fino al personale scolastico.Ma non esiste un piano vaccinale nazionale. Questo perché il piano contro il Covid è quasi totalmente demandato alle Regioni. Quindi quando il governo parla di vaccinazioni di massa in realtà non ha un controllo del processo: in poche parole non sa quello che dice. Bocciato definitivamente con l’arrivo di Draghi il progetto ‘Primule’, ovvero quei padiglioni “evocativi” temporanei da costruire nelle piazze delle città sponsorizzati a metà dicembre dal commissario Arcuri, nel Piano si spiega che sono le regioni a dover stabilire la localizzazione dei punti vaccinali, il coordinamento operativo degli addetti, nonché il controllo sull’esecuzione delle attività. Al livello centrale, invece, compete la definizione delle procedure, degli standard operativi e dei lay-out degli spazi che dovranno essere utilizzati per l’accettazione, la somministrazione e la sorveglianza degli eventuali effetti a breve termine delle vaccinazioni.Insomma il governo non governa il piano vaccini, è solo un supervisore. In sintesi si conferma, a causa della nostra struttura politico-amministrativa, e delle sue inevitabili inefficienze, che l’Italia è una sorta di espressione geografica costituita da entità che agiscono in autonomia e senza un effettivo controllo. Per questo governare l’Italia è quasi inutile in quanto non esiste come entità unitaria. Inutile anche appellarsi alle Forze Armate, ai carabinieri o alla polizia: sono una parte dello stato, ne condividono le contraddizioni, e non sono in grado, se non in minima parte, di sopperire alle deficienze locali e centrali.L’Unione europea questa volta però non ci può dare lezioni. E questo è ancora più grave. La presidente della commissione ci ha appena confermato che Pfizer, Moderna e AstraZeneca consegnano meno dosi di quelle previste e che Bruxelles ha in mano dei contratti che sono poco più che dichiarazioni di intenti da parte delle aziende coinvolte. “Una lezione che abbiamo imparato dalla pandemia è la nostra dipendenza da alcune materie prime provenienti solo da una manciata di produttori. A volte questi produttori provengono esclusivamente dall’estero”, ha appena dichiarato la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. Ora la signora Von der Leyen sarà anche una bravissima persona ma appare un po’ ingenua e impreparata: dice cose ovvie e non ha, al momento, soluzioni alternative da offrire. Per questo ci dobbiamo dare una mossa, e anche alla svelta.

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Questo maledetto Natale

Di questo post potete farne quel che volete, a questo punto non mi interessa. Leggetelo, buttatelo, ridetene. Non ha importanza. A volte ci sono cose che ti stanno lì. Non le dici per pudore, per rispetto, perché non sei l’unica ad avere diritto di essere ascoltata: non esisti solo tu. Poi però succede che il tuo malessere, la tua sofferenza vengono minimizzati, ridicolizzati, buttati via e allora quel che avevi trattenuto esce tutto in una volta.

Fatene quel che volete di questo post ma fermatevi qui se non vi interessano i contenuti personali e dolorosi. Perché questo è il motivo per cui tengo a questo maledetto Natale.

Si chiamava Roberto, aveva otto anni era il mio migliore amico, è morto di cancro. Continuo ad andarlo a trovare al cimitero anche adesso. Il primo grande mistero della mia vita. I miei non mi fecero partecipare ai funerali per paura che stessi male.

Si chiamava Gino, era mio zio, Si suicidò senza lasciare spiegazioni. Avevo dodici anni. La mia famiglia e la loro erano una cosa sola. Suo figlio grande, mio cugino, era l’altra metà di me. L’impatto fu talmente violento che saltò tutto. Mia zia non volle festeggiare il Natale quell’anno. Da allora niente più Natale insieme, niente Pasqua, niente pic nic. Quell’anno è finita la mia infanzia.

Si chiamava Raffaella, era una mia compagna di classe, un’amica. Morì all’improvviso non ho mai capito perché. Quando sua sorella mi ha chiesto l’amicizia su FB la cosa mi ha stordito. Tutte le volte che vedo la sua foto sorrido perché le assomiglia. Si chiamavano Francesca e Fabrizio, tumore, erano poco più grandi di me. Un altro punto interrogativo della mia adolescenza. Lei faceva le magistrali, lui suonava la batteria.

Si chiamava Giordano, era il padre di un amico. Incidente sul lavoro, morte bianca. Quell’amico mi venne a cercare la notte dell’incidente e mi disse che suo padre stava crepando, letterale, che dovevo accompagnarlo. Vagammo tutta la notte finché tornammo a farci dire che non ce l’aveva fatta. Quel ragazzo a mala pena maggiorenne entrò a lavorare in catena di montaggio per sostenere la famiglia: una madre e una nonna entrambe vedove. Quel ragazzo è mio marito.

Si chiamava Marco, aveva 26 anni. Si era tolto la cannula della tracheotomia da poco. Festeggiavamo a casa nostra. Salì per andare al bagno e si accasciò. Chiamammo il medico, che è un nostro vicino di casa. Arresto cardio circolatorio. Il medico lo fece partire in ambulanza per non lasciarlo lì e dare alla sorella, che era con lui, un po’ tempo. Il medico mi disse che se ne era già andato, di non rischiare andando troppo veloci. Fui io a telefonare alla madre, mentendo. In Pronto Soccorso, alla notizia impazzirono tutti. E io mi sentivo in colpa perché era morto a casa nostra. Temevo che suo padre mi incolpasse.

Si chiamava Tarcisio, era mio padre. Non avevo un buon rapporto con lui, per quello ero andata via di casa. Ma quando si era aggravato ero ritornata e aiutavo mia madre ad accudirlo. Metà settimana stavo a casa mia, metà settimana stavo a casa con mia madre. Pancreatite. Non si poteva operare. Gli ultimi tempi nelle allucinazioni vedeva sua madre, sembrava sereno. Quando è morto mi sono zavorrata di ansiolitici e ho consolato tutti, specie mia madre, perché pensavo che qualcuno lo doveva pur fare. Non ho potuto abbracciarlo perché abbiamo dato l’assenso all’espianto di cornee. Per le procedure di espianto il corpo va tenuto monitorato per 24 ore. Quando ho firmato per l’espianto mi tremava la mano. Al funerale, venne il padre di Marco, il ragazzo che era morto un mese prima, e mi abbracciò. Capii così che non mi attribuiva colpe per la morte del figlio.

Si chiamava Marco, era il relatore della mia tesi. Era stata una sua iniziativa di chiedermi di laurearmi con lui. Per me come un secondo padre. Era dializzato come mio padre. Complicazioni per una iniezione di antibiotico. Se ne è andato sette giorni esatti prima della mia discussione. Nessuno mi voleva dire che era morto. Lo seppi solo la sera una volta rientata a casa. Quando il mio fidanzato me lo disse mi crollò il mondo addosso. Perdevo un mentore, un amico, un maestro e molto di più. La mattina dopo sono tornata in biblioteca. Ho passato le nottate dicendo il Padre nostro e confondendomi a pensare che il padre nostro, minuscolo, era lui.

Si chiamava Alda, era la nonna del mio compagno. È morta per consunzione, non si sa bene la causa. Ha smesso di mangiare e di bere. Il medico disse che tenendola a casa avrebbe fatto prima. Ma sua figlia, la madre del mio compagno, ebbe paura. Il mio compagno rispettò la volontà di sua madre e la fecero ricoverare. Fu un mese di cure inutili e dolorose. Quel mese io stavo finendo la tesi. Per potermi concentrare mi proibirono di fare i turni. Io studiai e studiai e arrivai in fondo. Alla fine mi laureai. Potei andarla a trovare finalmente. Lei mi riconobbe. Non parlava più. Dopo poco se ne andò. Sono contenta di averla potuta rivedere.

Si chiamava Alberto, 42 anni. L’amico geniale che tutti dovrebbero avere. Al mio matrimonio riempì le due pile di arenaria di vino bianco e rosso. Pur non essendo laureato arrivò nella terzina per il ruolo di tecnico informatico alla Scuola Normale. Mi regalò una penna souvenir da Cluny, poi si accorse che non c’entrava nulla ma andava bene lo stesso. Era ipocondriaco. Ebbe un’emorragia cerebrale, non riuscì a chiamare i soccorsi. Sua madre che abitava al piano di sopra non si accorse di niente. Del resto era Alberto che accudiva lei perché era senile. Di lui se ne accorsero i colleghi per via dell’assenza. Quando fu soccorso era già in coma. Noi sapevamo che non voleva rimanere in quello stato. L’unica persona che poteva decidere decise di non lasciarlo andare. È rimasto così per undici mesi, li ho contati. Non si è mai ripreso.

Michela aveva 42 anni, seppi della sua morte dal manifesto funebre. Capii che era lei quando lessi che era una postina. Tumore. Mi capitò di vedere il manifesto mentre andavo a trovare mia madre che era già malata, a casa di mia sorella. Lei era una compagna di liceo, eravamo nella stessa associazione. Cantava bene e sapeva suonare la chitarra. Al suo funerale c’erano pochi amici e il prete alluse al fatto che era lesbica ma senza dirlo e senza rispetto. Uscii a metà funzione. Lei meritava di meglio. Il padre mi confidò che forse il suo bipolarismo dipendeva dalla posizione del tumore nel cervello. Io non ne avevo idea, però mi andava bene che questo lo consolasse e gli dissi che forse era vero.

Loretta, mia madre. Tumore al polmone. Aveva avuto un infarto ed era nefropatica. La chemio l’avrebbe costretta alla dialisi, l’operazione implicava un alto rischio che morisse sotto i ferri. Abbiamo deciso per la rinuncia alle cure. Per un caso di mala sanità non ha avuto terapie palliative. Ho deciso io la sedazione profonda mentre lei gridava che le facessero qualcosa perché sentiva dei cani che la mangiavano da dentro. Le sue grida le ha sentite anche il mio compagno da fuori. Quando l’oncologa ha saputo che era la prima volta che vedevamo un oncologo e che lei non seguiva alcun protocollo per le cure palliative, non ha detto parola, bastava la sua faccia. Mi ha chiesto se capivo che con la sedazione profonda dovevo salutare mia madre “qui e ora”. Ho detto che lo capivo. Mi ha chiesto se davo l’assenso per la sedazione profonda. Ho detto di si. Ho provato sollievo quando lei si è addormentata. Le ho tenuto la mano tutte le volte che era il mio turno. Il giorno che è morta avevo lezione di inglese. Non so perché non ci sono voluta andare. Sono andata da lei, invece. Studiavo al suo tavolino. Lei ha avuto delle apnee. Quando l’infermiere mi ha detto che c’eravamo le ho tenuto la mano. L’ho vista smettere di respirare. Ho visto salirle sulle labbra una schiuma rosa di sangue e mucosa. Ho capito. Ho ricordato i cani. Non l’ho detto a nessuno perché era troppo crudele. Lo dico ora perché serve a capire. Ho sentito la sua mano farsi fredda e solo allora ho lasciato che mi allontanassero per sistemarla. Sono andata fuori e ho fumato una sigaretta alla sua salute. Ho smesso di fumare solo diversi anni dopo.

Manuela era mia zia, la vedova del mio zio, quello suicida. Anche lei tumore, al pancreas. Confesso che un po’ di pensieri ce l’ho, dato che mamma, nonna e zia se ne sono andate tutte per tumore. Un’infermiera gentile mi ha messa nel protocollo di prevenzione prima che avessi l’età per entrarci. La zia Mèla era la persona più gentile che io abbia conosciuto. Aveva sposato lo zio Piero, il fratello del marito morto. Due persone che insieme si reggevano in piedi e tiravano su i miei due cugini come brave persone e uomini affidabili. Mèla pensava che ce l’avrebbe fatta. Anch’io lo pensavo. Per il semplice fatto che era impossibile che morisse. Piero era morto poco prima. Aveva avuto un malore, l’ape su cui viaggiava era finita in mezzo a un incrocio. Era stata colpita da un altro mezzo. Il malore gli aveva provocato un danno cerebrale, il trauma lo aveva reso inoperabile. Era in un centro di riabilitazione in attesa di essere guarito abbastanza per l’operazione. È ripartita l’emorragia e se ne è andato così. Mèla gli ultimi giorni, piena di morfina, chiedeva se Piero era già arrivato. E io le dicevo di sì perché in fondo era vero.

Giac era un artista. Giacomo Verde, detto i’vverde. Uno che ha contato molto nelle nostre vite. Lo conobbi per via di Genova 2001. Da lui ho imparato a relazionarmi con la comunicazione. Per lui il mio compagno si avvicinò al video. Con lui abbiamo vissuto l’avventura del collettivo, la terza parte delle mia vita. Quando ci sposammo non volevamo fronzoli. Sarebbe stato un matrimonio civile poi tutti a prendere l’aperitivo al bar davanti al comune e fine della storia. Giacomo si oppose. Il mio compagno lo sfidò: allora organizzala tu la cena di matrimonio. Lo fece davvero. Mi ricordo di gente che arrivava con pentole piene e casse di vino. Mi ricordo di quando portarono le parti della torta nuziale e la montarono nel nostro tinello. Mi ricordo dell’amica che ci regalò le bomboniere con quell’errore di data che le rende uniche. Mi ricordo di Giacomo che ci fece il video del matrimonio mentre noi sudavamo come non mai. Mi ricordo anche quando si sentì male la prima volta e non venne al Primo Maggio, allora gli portammo il gelato. Mi ricordo quando mandò a mio marito la foto della diagnosi. Carcinoma livello 9, che vuol dire? Eh, come glielo dici cosa significa livello 9? Come lo racconti a te stesso? Ricordo che mi chiese di fargli alcune iniezioni per la cura ormonale. Ridendo e scherzando gli foravo la natica mentre mi tremavano le mani e mi congelavo dalla rabbia. È andato nello stesso hospice della mia mamma e di Alberto. Era convinto che fosse per bilanciargli il livello della morfina. Non potevamo vederlo. Era già iniziata la pandemia di Covid. L’ha potuto incontrare una volta solo un’amica infermiera poi suo fratello. L’abbiamo sentito al telefono, poi per whatsapp, poi sempre meno, alla fine solo fiorellini e cuoricini. Per il Primo Maggio ha detto che ci saremmo rivisti a festeggiare l’anno dopo. Ho sperato con tutte le mie forze che vedesse almeno la riapertura, il momento in cui la pandemia mollava la presa. È morto la notte tra l’1 e il 2 maggio. Hanno riaperto il 3, mi sono arrabbiata. Aveva dato disposizioni per il suo funerale posticipato. Siamo stati tutti al gioco. Ho aspettato il giorno del funerale ma c’era allerta meteo e non si è fatto. Sto ancora aspettando di poterlo salutare insieme a tutti gli altri, come si deve.

I miei nonni non li ho mai conosciuti, sono figlia tardiva. Ricordo a malapena i nomi, Alaide e Ugo, che fu registrato a Ellis Island come emigrante, Giuseppe e Aladina, detta dal nonno la marescialla. Lei ha salvato un po’ di gente durante la guerra: uno che aveva trovato un tracciante al fosforo scambiandolo per caffè e gli era esploso in mano e anche mia madre, che aveva smesso si respirare per il richiamo d’aria di una bomba troppo vicina. Aladina faceva partorire le donne, è stata l’unica nonna a vedermi appena nata, poco prima di morire. Io spero sempre di assomigliare a lei. Di tutti loro ho solo fotografie, non ricordi.

Ho scritto tutto questo per due motivi che come al solito sono diventati tre.

1) Sono stanca di sentirmi minacciare con le intubazioni, le pronazioni e i racconti di dolore. Il dolore lo conosco molto da vicino. Fin da piccola. Direi che è stato il compagno di tutta una vita. Un compagno con cui ho  convissuto. Come con la perdita del resto. Conosco l’abitudine alle nottate in corsia. Conosco il momento in cui ti dicono che non ce l’ha fatta. Conosco l’attesa e l’esito incerto. Sia da parente che da paziente. Quindi non usate i morti di Covid per piegare la loro scomparsa alla vostra argomentazione.

2) Ho tralasciato molte cose ma ho scritto quel che basta per dire che i racconti di dolore smisurato li ho anch’io nel mio carnet. Ce li abbiamo tutti. Solo che ho deciso di non usarli contro nessuno. Non sono sassi da scagliare, sono il mio bagaglio, parte della mia identità. Se oggi li ho esposti è solo per mostrare che esistono. Come dice la mia amica Annalisa Strada, i morti non si celebrano con la penitenza, il vuoto della loro mancanza si colma solo con lo scambio d’affetto tra chi li ha amati e conosciuti. Per questo la retorica sui morti per zittire chi si lamenta del Natale solitario è inutile.

3) Ho scritto tutto questo senza pensare che la mia sia una storia eccezionale. L’ho scritto perché quando hai passato qualcosa del genere, ogni maledetto Natale diventa prezioso. Non importa se hai litigato con tua sorella, se non riesci a vedere spesso i parenti, se hai rapporti monchi e frammentari. Natale è una possibilità, un’ipotesi. Magari stavolta riesco a vedere la cugina che ho ritrovato. O sento l’altro mio cugino che ho perso di vista. O riesco a dire a quell’altra il bene che le voglio. Chi lo sa. Natale è una delle poche cose importanti che mi rimangono e vedermelo sottrarre è una delle cose peggiori che potesse succedermi in questo momento. Non pretendo che tutti capiscano. Ma è un dolore mio che necessita di rispetto e di spazio. Ho scritto tutto questo perché sento la mia sofferenza minimizzata, strumentalizzata, irrisa. Ci dicono di adattarci, di sopportare. Senza però mai scordarci di consumare. Ma a questo giro non ci rimane altro che quello: comprare, comprare, comprare senza nessuno a cui poter regalare un accidente di niente.



Avvertenza:

A chi mi vuole accollare i sensi di colpa dei 900 morti, rispondo così

Per chi mi ammonisce di stare attenta a non dare ragione a Salvini dico questo. Per quanto sia molto improbabile che accada, diffido qualsiasi personaggio politico dall’usare strumentalmente questo post. Non ho scritto questo per nessun altro se non per gli amici.

Questo post è dedicato a Giuliana e Francesca

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Basta la responsabilità dei cittadini ?

Ieri sera, 9 novembre 2020, è andata in onda una puntata di Report che chiariva chi ha fatto pressione politica affinché aprissero le discoteche in Sardegna quest’estate e perché. Si è parlato anche della partita di champions da 36.000 presenze che si è disputata a Bergamo il 19 febbraio tra Atalanta e Valencia, poco prima che precipitasse la situazione sanitaria. Si sono affrontati altri fatti di grossa portata come il motivo per cui i medici a Bergamo e in Val Seriana erano privi delle protezioni anti Covid benché le protezioni nella Regione ci fossero. Ne consiglio vivamente la visione. La sera prima è andata in onda un’intervista sulla titolarità della gestione del piano emergenza in Calabria, che ora è zona rossa.

Una persona mi ha detto che molti sono stanchi anche di sentirsi ripetere che non bisogna accusare le altre persone, i cittadini. Ho preso la cosa sul serio e ci ho pensato sopra per capire cosa mi ha spinto a sottolinearlo più volte. In effetti ho capito. Do per appurato il fatto che la responsabilità personale sia irrinunciabile, su questo non c’è alcun dubbio. Capita che ci siano persone che trascurano i necessari comportamenti protettivi e questo provoca reazioni di rabbia. Ma i comportamenti personali virtuosi da soli non bastano. Sono indispensabili ma non sono sufficienti.

Per frenare le pandemie occorrono scelte politiche fatte nell’ottica della collettività: non basta e non potrà mai bastare il senso di responsabilità dei singoli cittadini. È per questo che non posso fare a meno di notare che l’accusa verso altri cittadini, spesso coincide con la distrazione dell’attenzione da chi ha scelto di tenere le discoteche aperte in Sardegna, da chi ha fatto disputare la partita di champions a Bergamo, da chi è responsabile del piano di emergenza in Calabria o da chi ha gestito la distribuzione dei presidi sanitari anti Covid in Lombardia.

La responsabilità del singolo cittadino c’è ed è importante, consiste nel decidere se andare o non andare alla partita. La responsabilità della politica consiste nello scegliere se far disputare una partita da 36.000 presenze oppure no. Alla fine la differenza sta tutta lì, nel rendersi conto o meno delle proporzioni nelle rispettive responsabilità.


A questo link puntata di Report Balla con me, che tratta delle discoteche in Sardegna e della partita di Bergamo

La notizia sulla procura che avvia un’inchiesta sulle discoteche aperte in Sardegna

Il caso Calabria, prima intervista al commissario Cotticelli

Il caso Calabria, seconda intervista al commissario Cotticelli

L’impatto della riduzione dei contatti al 50% e al 75% nella diffusione del virus a 5 e 30 giorni (Ministero della salute del Lussemburgo)
L’impatto del Covid sui tifosi bergamaschi presenti alla partita (Agenzia Intwig)
The Hula, “COVID-19 wrecking everything”, Miami

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Covid: gli sceriffi del web e la risposta dei carrozzieri di Rimini

Se per una volta potessi avere un microfono per comunicare a tutta la Nazione direi una cosa sola: «I carrozzieri di Rimini. Guardate i carrozzieri di Rimini. E prendete nota». Le auto del personale sanitario dell’ospedale Infermi di Rimini sono state danneggiate. Non si capisce bene perché ma è successo. Di fronte a questo evento qualcuno avrebbe fotografato le immagini delle auto danneggiate per postarle su qualche social facendo il solito pieno di like. Signora mia, che cose: oggi come oggi non c’è niente che vende meglio dell’indignazione. D’altronde un po’ d’indignazione non si nega a nessuno. Poco importa il motivo, l’importante è fare numero, anche a costo d’inflazionare un sentimento così politicamente fondamentale come l’indignazione.

L’indignazione va di pari passo con la ribellione agli atti che offendono il senso di giustizia. Ribellione concreta, fattiva, densa sempre più annacquata e infiacchita dall’uso indifferenziato che se ne fa sui social. «Guardate, o miei degni contatti, quanto sono indignato»: per qualunque cosa, non importa di quale gravità, di quale ordine di grandezza, di quale diffusione. Sono indignato e quindi esisto, conto qualcosa in un mondo disincarnato come quello dei social che si basa sull’autorappresentazione. Il problema però sono sempre i tempi. L’indignazione aveva un peso dieci e più anni fa quando si diffusero Facebook e Twitter. Da allora è passata così tanta indignazione dai nostri schermi da renderla un richiamo inflazionato, un po’ come l’amore nei palinsesti pomeridiani. E come l’amore, l’indignazione smette di essere una metafora astratta quando ritorna a essere ribellione fattiva, assumendo spessore e credibilità.


In questo periodo, con la pandemia in corso, c’è tutta una mobilitazione indignata contro quelli che vengono definiti no mask e negazionisti. Talmente tanto indignata che rischia l’effetto paradossale di dare alle loro istanze una visibilità sproporzionata rispetto al loro numero. Non passa giorno che non veniamo aggiornati su un nuovo tema negazionista da parte di chi crede di combatterli con l’indignazione social. Un’indignazione non pensata come atto strutturato per centrare l’obiettivo ma come sfogo buttato là, che colpisce chiunque si trovi a passare, quasi mai quelli a cui è rivolto. Ci sono persone che sono state prudenti in tutto ma si trovano sbattuti in faccia i penitenziagite degli autonominati sceriffi anticovid. E se provano a replicare che sono sempre state attente allora è anche peggio perché non basta un comportamento corretto, bisogna mantenere vivo il senso di colpa. Solo perché qualcuno ha il prurito di fare il ganzo sui social a spese delle persone per bene.

E poi c’è l’inutile rabbia delle invettive un tanto al chilo che alimentano la conflittualità senza nessun beneficio di ritorno. «Fossi in Conte, adotterei le stesse misure anticovid della Svezia e farei selezione negli ospedali come la Svizzera. Poi, mi preparerei 20 kg di popcorn e 10 casse di birra e mi godrei lo spettacolo di vedervi morire come mosche». A parte la disinformazione, non sono «parole dure ma giuste», sono solo parole superficiali e ciniche che alimentano la rabbia senza ottenere nessun effetto utile. Sfoghi cattivi e superflui di cui fa le spese solo chi ha rispettato tutte le regole e nonostante questo si trova investito dalle ondate di parole violente. Parole deboli, non forti, perché raccontano la violenza della forza invece che la forza del confronto. Non messaggi di prevenzione ma atti di bullismo mediatico da isolare come si isola tutta la violenza.

Anch’io ho delle convinzioni solide rispetto all’esistenza del virus e all’irrinunciabilità delle misure di prevenzione. Spero però che chi non ha le mie convinzioni non si infetti. Spero che non si infetti chi è esposto a rischio dal suo lavoro o dalle condizioni inadeguate del trasporto pubblico. Spero che non si infetti chi si sente a disagio con la mascherina. Perché Covid non è una punizione per i cattivi, è un’epidemia a cui siamo esposti tutti. E noi non siamo giustizieri, siamo solo persone preoccupate dalla situazione sanitaria. Invece di salire su un podio ad arringare con astio gli ignoranti, sarebbe già tanto se provassimo a evitare il crollo delle relazioni umane e della coesione sociale sotto i colpi delle affermazioni violente. Affermazioni che vengono anche da chi sta dalla mia parte. Se quelli dall’altra parte mi ascoltessero direi loro le stesse cose. Ma quando si tratta di proteggere la salute delle persone, non voglio sapere niente di come la pensano. Perché ci sono momenti in cui c’è bisogno rompere la catena della rabbia, non di rafforzarla.

Poi c’è quella curiosa forma di indignazione che induce i soggetti più svariati a raccontare le cure mediche come una sorta di punizione che attende le persone qualora non si siano comportate bene. «Se non ti metti la mascherina ti intubano e ti mettono pronato» e giù di descrizioni cruente tutte tese a esaltare il dolore della carne viva divorata dalle procedure mediche. Con la conseguenza paradossale di far passare i medici come gli esecutori di crudeli punizioni degne delle ossessioni di Kafka. E dunque l’intubazione non più concepita come procedura emergenziale per salvare la vita alle persone ma come la macchina con la quale viene incisa sul corpo del condannato la norma che ha infranto. Qualsiasi malato di Covid, in questa rappresentazione orrorifica, diventa giocoforza colpevole perché, nonostante i rischi a cui tutti siamo esposti, si finisce per affermare che non si sarebbe contagiato se non avesse commesso qualche leggerezza. Le persone che si ammaleranno di Covid non si troveranno solo a combattere la malattia ma dovranno anche far fronte a questo tipo di immaginario.

Ho accompagnato mia madre nel suo percorso terminale di malata oncologica. Sedazione profonda, hospice e piano piano fino alla fine. Ho ricordi che sono squarci della coscienza. Eppure non mi è mai venuto in mente che fosse utile mostrarla nella sua sofferenza o raccontare i dettagli peggiori per sensibilizzare alla prevenzione. Piuttosto, quando mi è capitato qualcuno che mi diceva di avere il suo stesso tipo di cancro sono rimasta in silenzio, consapevole del male che potevo fargli. Capisco il racconto delle persone che hanno vissuto un’esperienza traumatica. Ma non mi capacito di come si possa credere veramente che mostrare i malati in sofferenza serva a indurre alla prevenzione. I meccanismi d’assuefazione e di rimozione sono un elemento di cui si dovrebbe tenere più conto.

E quando sembra che non rimanga nulla da fare se non assistere impotenti, arrivano i carrozzieri di Rimini che si offrono di riparare gratis le auto vandalizzate dei medici. Sì, quelle automobili danneggiate di cui si parlava all’inizio. Alcuni hanno preso di mira il personale sanitario. Altri, invece di far partire l’ennesima campagna di indignazione con immancabilmente contorno di rabbia, frustrazione e conflitto, hanno fatto un gesto di ribellione, uno di quelli veri, concreti, che si toccano. Hanno deciso di mettere a disposizione gratis i propri impianti e le proprie competenze per le riparazioni delle auto danneggiate.

Così hanno dato una risposta non solo a coloro che hanno fatto il danno ma anche a noi che perdiamo troppo tempo in indignazioni autoreferenziali senza mai fare altro che quello. Perché se vogliamo essere sinceri, i cattivi ci servono, eccome se ci servono. Senza di loro come faremmo a sentirci dalla parte dei giusti e dei buoni con il modico impegno di qualche post sui social?

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Un nuovo modello di bellezza da copertina?

Alla fine mi decido a dire cosa penso sulla questione della copertina di Vanity Fair con Vanessa Incontrada che posa nuda. Non che la mia opinione cambi qualcosa ma la verità è che questo argomento mi tocca da vicino. Lei è bella ma credo sia superfluo sottolinearlo anche perché non mi pare sia questo il problema. Il suo è un legittimo percorso personale: aveva un fisico di un certo tipo, è cambiata, è stata bullizzata e la risolve così. Urrah per lei, ci mancherebbe. Ma in realtà è tutto un po’ sfasato.

Io sono stata molti corpi, da sottopeso a sovrappeso a normopeso con varie oscillazioni. È la storia di tante e di tanti. Credo che l’errore di fondo sia stato quello di considerarmi bella solo con un certo tipo di corpo. Che poi manco era vero che mi consideravo bella, tanto che non mi è bastato arrivare al mio peso forma sono voluta diminuire ancora. L’alimentarista da cui ero seguita mi disse che non era bene farlo così smisi di andarci. Lo feci perché continuavo a vedermi brutta. A riguardare le foto di quel periodo è evidente che non ero in grado di vedermi davvero.

Ero più magra della Incontrada ma nello specchio mi giudicavo grassa. Ora però che vorrei essere come lei e non lo sono, vedere quella copertina mi lascia indifferente. Non mi comunica alcun senso di incoraggiamento. Vedo solo la sua bellezza e non capisco come tutto questo abbia a che fare con un’operazione di body positivity. Se vi basta l’obiezione che «non siamo mai contenti» potete anche fermarvi qui.

Stanno cambiando i parametri estetici, forse. E forse era anche l’ora. Se Incontrada per la moda è grassa, come qualcuno mi ricorda, a me francamente non importa né tanto né poco. È la moda che finora ha avuto un’estetica limitata. Non lo dico per moralismo né perché «le modelle sono troppo magre» ma semplicemente perché i corpi presenti nella moda hanno seguito finora un’estetica uniformante, non differenziata, tendente solo alla magrezza. Con qualche rara eccezione, quello sì, che però rimane isolata. Qualche ragazza con sindrome di down, qualche donna normopeso, pochissime donne obese. Uomini non pervenuti.

A me della moda interessa un aspetto in particolare: che permetta a chi la indossa di vestirsi in modo da esprimere la propria personalità. Quindi è scontato che si debba rivolgere anche alle persone obese. Ma non lo fa, a parte alcuni marchi dedicati, e questo è un problema. Non un problema etico, intendiamoci, ma proprio un problema pratico perché significa che le persone obese, il più delle volte, possono solo vestirsi di merda. E nessuno dovrebbe essere costretto a vestirsi di merda. Un corpo obeso non è una colpa e se non è una colpa non merita nemmeno di scontare una penitenza estetica per essere quello che è. Un corpo obeso può essere ben vestito e apparire gradevole

La qual cosa non c’entra nulla con il discorso banalizzante che «le modelle grasse costituiscono un esempio negativo», perché il peso è una condizione mica una scelta di campo. Dunque non si capisce in che modo volersi vestire bene quando si è grassi dovrebbe essere una cosa insalubre per gli altri che ti guardano. Se i grassi vogliono vestirsi bene, non è forse logico che ci siano anche abiti che rappresentano il loro tipo fisico?

Detto ciò, quello che mi interessa capire è se l’operazione messa in atto con quella copertina ha effettivamente un significato in relazione alla body positivity. Su questo mi sento di dire qualcosa avendo un corpo che ha combattuto e sta combattendo con il bisogno di sentirsi accettato. Guardando la copertina di Vanity Fair cosa stiamo vedendo? Un corpo bello, un corpo brutto, un corpo grasso, un corpo magro, un corpo normale o un corpo da normalizzare?
Non saremo mai tutti d’accordo su come leggere quell’immagine. Il punto è proprio questo: stiamo vedendo un corpo, uno solo. E fin qui andrebbe bene. Poi però su un solo corpo si cerca di costruire un discorso di accettazione universale che per sua stessa natura è l’affermazione di modelli fisico-estetici plurali, non unici. Se molti di noi sentono il bisogno di spostate il limite un po’ più in là è proprio perché spostare il limite è l’essenza del cambiamento. Con questa copertina si sta cercando di stabilire un nuovo standard di normalità e bellezza. Ma il punto è, nell’ottica della body positivity, che non esiste uno standard di normalità e bellezza.

Si sta mostrando un modello unico, quando bellezza e normalità non sono rappresentate da un modello unico. Incontrada ha bisogno di essere normalizzata? Forse sì, forse no, non lo so. Non credo sia questo il problema. Un messaggio efficace di accettazione del corpo è stato quello per cui il corpo di Adele andava bene prima e va bene dopo il dimagrimento. Non perché «la bellezza è quella interiore» ma per il semplice fatto che Adele era bella prima ed è bella ora, da grassa e da magra.

Credo sia questo il punto su cui ci stiamo arenando. Qualsiasi corpo da copertina è uno e uno solo. Bello, brutto, grasso, magro, normale, fuori norma non ha importanza nell’ambito di un discorso sulla body positivity. Perché un solo corpo non potrà mai incarnare il principio della molteplicità della bellezza. Il concetto della body positivity è per sua stessa natura plurale proprio per questo, nella sua ottica, un corpo è tanto più significativo quanto più ci si allontana da quella che, per l’opinione comune, è la media dell’accettabilità estetica. Body positivity non è cambiare il modello di riferimento ma buttarselo alle spalle, liberare il corpo da un dovere esterno al corpo.

Alcuni mirano all’affermazione di un nuovo modello ma altri guardano alla necessità di sbaragliare ogni modello. Fare questo discorso non è come criticare Incontrada, non è nemmeno come criticare la sua bellezza. Il suo percorso personale è senza dubbio positivo. Il problema non è l’immagine, è la didascalia, il messaggio che se trae. Perché sta di fatto che la copertina vuole rappresentare una nuova “normalità”, “una nuova bellezza” che viene comunque cristalizzata in un modello. Ed è una cosa che va in direzione opposta all’idea della body positivity che non si preoccupa tanto dell’alternativa tra bello e brutto quanto di quella tra univoco e plurale.

 

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Ancora indignatia

Mi ha colpito molto il caso del raccontino di Lucia Tumiati Barbieri accusato di razzismo.
Allora ho provato a ricostruirne la vicenda editoriale perché c’era qualcosa che non mi quadrava. Ecco la storia di questo racconto.

48 anni fa Lucia Tumiati Barbieri lo pubblicava in Caro librino mio, Giunti, 1972. Nel 1996 ancora Giunti pubblicava il racconto in una raccolta per la scuola (24 anni fa). Nel 1997 usciva un articolo su Repubblica in cui Tumiati si difendeva dalla accuse di razzismo per il racconto contenuto nella raccolta di Giunti. Tra le altre cose, dall’articolo sembra che l’autrice non sia stata consultata per l’inserimento del suo racconto nella raccolta del 1996, su cui probabilmente non aveva esercitato alcuna opzione.

Ardea Editore (non più Giunti) pubblicava il racconto in una raccolta dal titolo Rossofuoco nel 2015, ovvero 5 anni fa. Ardea aveva ristampato il libro di Giunti del 1996, che aveva preso un racconto scritto nel 1972. Allora forse è bene fare un passo indietro.

Mi pare ovvio che quel racconto sia del tutto inadeguato alla sensibilità attuale anche perché nel frattempo si è sviluppata una riflessione sul linguaggio che prima non era ancora avvenuta.

Che sia un racconto inadeguato alla consapevolezza attuale mi pare ovvio: è un testo scritto 48 anni fa, sarebbe miracoloso il contrario. Già, perché i concetti evolvono ed evolve anche il linguaggio in relazione alla sensibilità delle varie epoche che è costantemente in trasformazione.

Il libro della Ardea del 2015 da cui è tratto il racconto è la ristampa di un libro della Giunti del 1996, quindi parliamo di un testo recente. O forse no. Possiamo davvero definire recente la ristampa del 2015 di un libro del 1996 che a sua volta usa un racconto del 1972, scritto con la sensibilità politica al linguaggio di 48 anni fa?

Il problema non è il racconto di Lucia Tumiati Barbieri ma il fatto che un libro per bambini non trovi di meglio che andare a ripescare un racconto inattuale di 48 anni fa, ripubblicato 24 anni fa in un libro di lettura e, a quanto pare, a prescindere dalla volontà dell’autrice.

È evidente che il problema è legato all’editoria scolastica, al modo di pensarla e di costruirla. È evidente che va fatta una riflessione seria su questo aspetto e che vanno prese decisioni in direzione di un rinnovamento.

Fin qui ci siamo? Fin qui si è capito che quel racconto, usato oggi, mi sembra stonato? Fin qui è chiaro che sono un’alleata e non una nemica?

Ora però si pone un altro problema. Lucia Tumiati Barbieri, classe 1926, ebrea, vittima con la sua famiglia delle leggi razziali, staffetta partigiana per il gruppo “Giustizia e Libertà”, che ha lavorato con Mario Lodi ed è stata amica di Gianni Rodari, oggi viene accusata di razzismo e a forza di alzare il tiro qualcuno arriva a paragonarla a Hitler.

Oggi Lucia Tumiati Barbieri ha 96 anni ed è accusata per un racconto scritto 48 anni fa, quando la sensibilità linguistica sul razzismo era completamente diversa. Nel 1997 Tumiati spiegava: “scrivere quel che scrivevo era un modo per essere esclusa da certi circuiti catto-ministeriali”.

La domanda è: ma ritenete davvero necessaria, per ottenere un cambiamento, la violenza innescata da queste ondate di indignazione? Non pensate che ci potrebbero essere delle ripercussioni negative? E no, non è una domanda retorica.

Mi pare ovvio che questo racconto non sia più utilizzabile se non, al limite, aggiornandolo. Però da qui a trasformare un testo vecchio in un testo razzista ce ne corre. Sono andata a vedere cosa succedeva all’epoca: Michael Jackson sarebbe entrato, primo autore nero, nella classifica per bianchi solo 7 anni dopo, nel 1979. È da quella data che le classifiche sono diventate unificate. È di questo periodo che stiamo parlando.

Viene giudicando un testo del 1972 con parametri del 2020 senza alcun tentativo di contestualizzazione. E questo, in storiografia, è un errore di anacronismo. Il che non significa che il testo va riproposto ma semplicemente avverte dei rischi che comporta il voler giudicare il passato coi parametri del presente.

Tempo fa, di fronte alla riflessione sui ruoli e sulla sensibilità linguistica proposta da figure afrodiscendenti, una persona mi introdusse al concetto di ally, alleato. Sii un buon alleato, non sottrarre soggettività, non parlare al posto degli altri e accetta di poter sbagliare. La trovai una cosa molto condivisibile tanto che ho continuato a fare attenzione e a mantenere le antenne in posizione di ascolto.

Da allora continuo a pensare che sia un principio illuminante: «siate buoni alleati e accettate di poter sbagliare». Del resto è naturale essere d’accordo, sapendo che tutti dobbiamo misurarci coi nostri limiti e che abbiamo ancora molto, se non tutto, da imparare.

Ma se accettiamo di poter sbagliare dobbiamo anche avere la possibilità di farlo.

Avere la possibilità di sbagliare significa sapere che se ti succede di sbagliare mentre stai cercando di fare la cosa giusta, non sarai messo alla gogna, non verrai buttato in pasto ai social, non sarai condannato senza appello. E potrai pensare di fare un percorso condiviso.

Se tutte le volte che uno sbaglia provandoci viene consegnato alla gogna social non siamo più ally, siamo concorrenti di un gioco al massacro e prima o poi le persone sceglieranno il silenzio, per non avere problemi. Smetteranno di provarci. Perché un conto è accettare di sbagliare e un conto è sapere di essere destinati al tritacarne social mediatico se succede.

Oggi, nel 2020, stiamo accusando di razzismo Lucia Tumiati Barbieri, 96 anni, per un racconto che ha scritto 48 anni fa. Non stiamo parlando del necessario aggiornamento dei libri di testo, non stiamo parlando dello sviluppo di una maggiore sensibilità linguistica, non stiamo parlando della necessità di mettere i soggetti interessati nei ruoli chiave delle campagne di sensibilizzazione.

Ci urge bollare di razzismo Lucia Tumiati Barbieri col suo racconto di mezzo secolo fa, senza aver focalizzato la questione dell’aggiornamento dei libri di testo e senza capire quella dimensione diacronica dei concetti per cui la sensibilità linguistica cambia nel tempo.

Francamente non è molto chiaro a cosa serva il fatto di cercare a tutti i costi un nemico da abbattere (pur che sia) invece di mirare al cambiamento.


 

Per avere un termine di paragone, questo è il catalogo della mostra «La menzogna della razza: documenti e immagini del razzismo e dell’antisemitismo fascista» a cura del centro Furio Jesi; scritti di David Bidussa e altri, Grafis, Casalecchio di Reno, edito nel 1994

Come essere razzisti senza volerlo – la Repubblica.it

Sei sporca o sei tutta nera__ la frase razzista su un libro per le scuole elementari

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Indignatia

Ragazzi frenate un attimo. Ho visto anch’io il disegno del bimbo che parla male italiano.

Per una serie di ragioni casuali ci ho messo due giorni prima di capire tutta la vicenda. Ed è stata una fortuna perché l’emotività iniziale (leggi: stupore, rabbia, fastidio) è sfumata completamente. Questo mi ha fatto capire diverse cose di me stessa, dei miei automatismi, ma soprattutto del meccanismo virale dei social e dei media.

Mi ha fatto pensare che è bene prendersi del tempo prima di aderire all’ennesima ondata di indignatia capace di travolgere qualunque cosa senza alcun distinguo. E che non c’è bisogno di far la corsa a condividere una cosa quando ci sono così pochi elementi. Poi magari ci si indigna lo stesso, ma non perché il post è diventato virale o perché lo scrive il tal giornale a titoli cubitali.

«Mi piace l’illustrazione?». No. Però devo ammettere che vedendo solo il pezzo estrapolato non avevo capito niente. Ma proprio niente. Quindi devo riformulare la domanda: «Mi piace l’illustrazione “da sola“»? Perché vedendo il contesto del libro anche il senso della singola illustrazione cambia.

La cosa che mi ha fatto capire ciò che stava succedendo è il post di una madre che ha letto il libro, in adozione alla classe di sua figlia, e ha raccontato cosa c’è intorno a quella illustrazione.

Mi sono fermata, ho cercato di capire, ho letto cose diverse. L’illustrazione può non piacermi lo stesso ma “non mi piace” in un modo diverso, che non è il medesimo di prima, quando non avevo visto ancora il contesto. C’è intorno un racconto, un libro, un lavoro di narrazione complessivo che è sempre attento all’inclusione. Basta poterlo leggere, che è esattamente ciò che viene impedito dall’indignatia nel corso di una viralizzazione. Ecco qual è il rischio dell’indignatia. Che non si capisca il senso complessivo di una cosa. Che se ne percepisca solo una parte. Che però si pensi di poter giudicare il tutto da quella singola parte. Perché la viralizzazione da indignatia è per sua stessa natura un processo di semplificazione, che lavora per appiattimento non per comprensione e analisi. È proprio su questo che si basa altrimenti non sarebbe così facilmente digeribile.

Anche la mamma che ha preso il libro di sua figlia e ha letto il contesto, ha usato i social. Solo che gioca a suo sfavore la complessità del discorso che sta facendo. Forse è proprio il modo in cui funzionano i social che privilegia messaggi brevi e semplificati. Oppure la viralizzazione ha a che fare anche coi nostri bias: trovi una cosa che conferma la tua idea e aderisci senza farti domande. Molto probabilmente lo avrei fatto anch’io se non ci avessi messo due giorni a capire.

Il punto però è: vale la pena il danno che farà alla casa editrice – a questa casa editrice – il fatto di approdare sulle testate nazionale con la nomea di razzista? Visto com’è il libro nel suo complesso, visto il modo in cui tratta gli argomenti, magari chi si è indignato poteva scrivere alla casa editrice o agli autori. Sarebbe stato un confronto interessante. Magari avrebbe contribuito ad aprire un dibattito sull’editoria scolastica. Così invece è stato solo uno sbattere il mostro sui social e dopo i social è diventato l’ennesimo “sbatti il mostro in prima pagina”.


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L’omicidio di Colleferro e la (in)capacità di ascoltare

Sto continuando a leggere molto sul caso di Willy Monteiro. Cominciano ad esserci diversi articoli e interventi che si distaccano nettamente dalla narrazione mainstream. Ne ho fatto una piccola raccolta che si può leggere qua sotto. Parlano tutti di una realtà diversa, molto più articolata e complessa di quella che troppo spesso è stata raccontata. Ora la narrazione è esausta e comincia a filtrare dalle crepe qualcosa di nuovo.

I dettagli si chiariranno col tempo ma la prima cosa che si nota è la convergenza generale con il senso del tweet di Zerocalcare. Chi pensa che sia solo un fumettista si sbaglia. È uno che vive immerso in una realtà che molti di noi non conoscono. Io stessa ho scelto di vivere in provincia ma è una provincia molto diversa. E poi provincia non è sinonimo di periferia.

Zerocalcare col suo tweet, Renzi e Coltré su Fanpage, ciascuno di loro separatamente, fanno quello che dovrebbero fare tutti coloro che si occupano di commentare sociologicamente un fenomeno: ascoltare e solo dopo riferire. Se si inverte l’ordine non si sta più parlando della realtà che si vuole descrivere ma di cosa ci proiettiamo sopra noi. Con l’effetto di sembrare lontani da tutto quello che succede li. Il che ci allontana ancora di più da quelle persone.

Pasolini, tanto amato negli ambienti progressisti, non ha solo raccontato un mondo, ci è stato immerso, non lo ha respinto, ed è questo che ha fatto la differenza. Scrive Mirella Bocchini sul tema pasolinianano omologazione e morte del popolo:

«In una tale società dunque, come più volte egli ha denunciato in forte polemica con tutta la sinistra italiana, le distinzioni “fascista”, “borghese”, “progressista”, persino “comunista”, sono in gran parte o totalmente formali: anzi vengono usate in continuazione come ingiurie astratte, puri strumenti di violenza e di esclusioni reciproche, all’interno di una logica di vita borghese generalizzata».

Ho ascoltato i discorsi degli amici di Willy Monteiro in occasione della fiaccolata e dei ragazzi delle associazioni. Loro erano lì, accanto al ragazzo ucciso e alla sua vita. Loro sono ancora lì, vivono ancora quella condizione, quella periferia, quegli ambienti sociali. E se ci vivono ce lo possono raccontare. Anzi sono gli unici che ce lo possono raccontare E lo stanno già facendo in modo esplicito (minuto 55 e ss.).

 

 

Solo che non li stiamo ascoltando. Discutiamo d’altro. Andiamo dritti per la nostra strada e ancora una volta li stiamo ignorando. Interveniamo al posto loro credendo di conoscere la loro realtà meglio di chi la vive. Gli rubiamo la scena, gli parliamo addosso. Se si trattasse di femminismo lo chiameremmo mansplayning.

La cosa più politicamente rivoluzionaria che potremmo fare sarebbe starli a sentire. So che sembra più risolutivo classificare tutto e subito nell’ur-fascismo. Ci aiuta a dare ordine al caos, lo capisco.

Ma se vogliamo parlarci con queste persone, se vogliamo capire questa periferia, è fondamentale lasciare a loro tutta la soggettività, tutta la centralità.

Perché questo potrebbe non essere solo un fatto di cronaca. Potrebbe essere l’occasione per capire una situazione con cui abbiamo perso ogni contatto politico. E la chiave non c’è l’abbiamo noi, ce l’hanno le persone che ci vivono dentro.

 


 

Michele Rech (Zerocalcare) scrive

Ciao uno su twitter ha scritto che il mio silenzio su questa vicenda era assordante quindi aggiungo le mie 7 banalità al rumore di fondo.

1) Il razzismo in questa storia ci sta, perché il razzismo in sto paese è sistemico, è in dotazione di serie, non a caso 9 persone su 10 se litigano co un bianco nel traffico je dicono vaffanculo, se litigano con un nero je dicono negrodimerda, quindi che il fatto che sto pischello fosse nero abbia determinato un accanimento particolare me pare quasi scontato.

2) La lente del fascismo/antifascismo è quella su cui siamo rodati e ste storie ce richiamano copioni dolorosi che conosciamo, ma me pare che non basta a leggere la complessità di sto mosaico, perché se uno alza la cornetta e prova a sentire colleferrini e arteniesi che in quelle zone ci abitano e ste persone le conoscono, compresi compagni/e, associazioni e singoli che fanno politica sul territorio, te dicono che questi so pezzi di merda che campano de prepotenze e che da anni menano tutti indistintamente, tanto che l’obbiettivo della spedizione stessa era uno bianco.

3) Qualsiasi ragionamento che non tiene dentro anche la marginalità culturale (che non se sovrappone necessariamente a quella economica, anzi, alcuni questi stavano impaccati), l’abbandono scolastico, la cocaina che è il copilota di quasi tutto quello che atterra in cronaca di roma, l’ubriacatura de malavita per cui ognuno vuole fa scarface ma colle sopracciglia spinzettate, un’idea de virilità piena de machismo e testosterone che non se trova solo nei gruppi di estrema destra, è un ragionamento monco.

4) Qualcuno de zona m’ha detto che questi se avessero potuto avrebbero votato gue pequeno o anna tatangelo, più che qualche partitucolo de estrema destra, me pare una sintesi plausibile che non esclude il punto 1.

5) Comunque il fatto che quando un nazista militante e inserito in qualche struttura de destra radicale compie qualche efferatezza, tutto il mainstream lo spoliticizza e lo chiama “ultrà” o “balordo”, e poi quando invece la stessa cosa la fa uno che non ha mai fatto politica in vita sua, lo stesso mainstream non ha problemi a chiamarlo “fascista”, forse un po’ ci dovrebbe fare riflettere.

6) Nessuna di ste cose è un’attenuante, questi so pezzi de merda e de sicuro non se ascrivono al radioso e frastagliato campo del progressismo, ma se non restituiamo la complessità delle situazioni quando raccontiamo ste storie, i territori che ste storie le conoscono poi ce ridono in faccia.

7) I mitomani so mitomani anche quando dicono una cosa giusta o che ci piace.
 
 

Valero Renzi (giornalista) scrive

Continuo a pensare che sull’omicidio di Willy ci si incaponisce a non voler sentire le persone coinvolte nel leggere quanto accaduto. Una delle questioni poste è sulla “bianchezza” di chi pensa che non si possa leggere con il prima “fascismo/antifascismo” e “razzismo/antirazzismo” i fatti, e quindi non è in grado di riconoscere il razzismo insito nel movente dell’aggressione, un argomento che non tiene conto che le persone coinvolte non sono tutte ‘bianche’. Le principali testimoni che accusano i quattro arrestati, a cui Willy è morto letteralmente tra le braccia, non sono di origine italiana e una delle due non è bianca e non parlano di razzismo.Ciò non toglie che come dice Michele Rech che “il razzismo in sto paese è sistemico, è in dotazione di serie”


Alessandro Coltré (giornalista) scrive

«Sto male da giorni, chiunque vive in zona sta male ed è difficile dare letture o risposte su quanto accaduto sabato scorso a Colleferro. Mi rendo soltanto conto che ragazzi e ragazze (poco più che ventenni) stanno mantenendo una postura e una forza formidabile. Sono in silenzio quando omaggiano Willy con un fiore a Piazza Italia, parlano con coraggio quando devono testimoniare. Le loro storie instragram allontanano automatisimi e inutili fenomenologie sulla provincia. Comprendere e raccontare quanto accaduto è complicato (…). Essere del posto può aiutare ma non spiega tutto. Sguardi differenti e prospettive diverse sono sempre un valore aggiunto. Le comunità di Colleferro, Paliano e Artena sono scosse e disorientante. La fiaccolata dell’altra sera a Paliano, gli appuntamenti dei cittadini a Colleferro sul luogo dell’omicidio per regalare un fiore e un saluto a Willy sono stati i primi momenti collettivi in cui le persone hanno iniziato a confrontarsi. Oggi ad Artena ci sarà il primo appuntamento politico, un consiglio comunale per commemorare Willy Monteiro Duarte. Il comunicato titola così: “Questa città non è mai stata razzista. Segue poi una serie di ricordi su episodi degli anni ’80 e ‘90 che hanno visto Artena come punto di accoglienza per profughi, rifugiati e migranti. Desideriamo ricordare – si legge nel comunicato – che Artena è stato il primo Paese italiano ad ospitare i profughi provenienti dal Corno d’Africa alla metà degli anni ottanta, che fuggivano dal regime di Menghistu. Artena ha ospitato oltre duemila profughi etiopi, eritrei e somali che hanno vissuto nel nostro paese di comune accordo con la popolazione residente. I primi migranti dall’Albania vennero in Italia, a marzo del 1992, molti di loro furono accolti ad Artena e qui hanno trovato famiglia”. L’Italia ha scoperto che fuori il raccordo anulare c’è vita e che Artena non è solo il “paese a passo di mulo” – così c’è scritto nel cartello sull’autostrada A1 – e che il suo borgo, biglietto da visita di questo Comune, non è un luogo “dove si vive fuori la modernità” con “le donne ancora con il fazzoletto in testa”, come riportato in alcune guide e recensioni turistiche. Ma Artena non è neanche il paese dei briganti, denominazione ormai famosa che viene fuori dal folclore e da un trattato dell’Ottocento a firma di un discepolo di Cesare Lombroso. E quello che le associazioni stanno facendo è allontanare cliché e facili semplificazione dove – come direbbe Zerocalcare per le periferie – o si vive in zone degradate e violente o tutto al contrario c’è la narrazione del mito del buon selvaggio. Artena vive una condizione simile alle aree interne e decentrate dell’Italia. Le abitazioni in pietra del borgo medioevale fanno il paio con la speculazione edilizia nelle contrade di campagna, con le case condonate e con palazzoni mai terminati. Poco prima di entrare in paese, a pochi passi dalla rotonda con la statua del mulo, c’è un bene confiscato al clan dei Casamonica che dall’anno scorso è sede di una rete di associazioni culturali, sportive e di assistenza. A Piana Civita c’è un’area archeologica in cui, nonostante la mancanza di fondi e di manutenzione ordinaria, da quarant’anni sono attive campagne di scavo internazionali con centri di ricerca grazie all’aiuto dei volontari del gruppo archeologico artenese. Don Christian e Don Daniele hanno costruito nel tempo una serie di iniziative importanti per ascoltare la comunità. In paese ci sono tre gruppi teatrali che coinvolgono un centinaio di persone e il gruppo Scout ha numerosi iscritti. È delle intercapedini che bisogna parlare, dello spazio che separa un ragazzo 20enne di Artena dalle possibilità di realizzazione personale e dall’idea che abitare un territorio non significa viverlo con la prepotenza e la brutalità verso chi incontri.La brutta nomina, la nomèa non si risolve parlando di mele marce o attaccando chi abita i territori, non è proprio il tempo e il luogo. Bisogna parlare dei fallimenti, affrontarli e capire come attraversare i nostri paesi. Bisognerebbe non esser soli, unire le forze tra territori, senza buttarci sul campanilismo. Bisognerebbe chiedere aiuto e ascoltare.


Emanuele Macaluso (giornalista) scrive

Cosa ci dice la ferocia di Colleferro

Colleferro è un grosso Comune non lontano da Roma, inserito nella Città Metropolitana. In questo centro, ieri l’altro, un ragazzo di 21 anni, originario di Capo Verde ma italianissimo, Willy Monteiro Duarte, che faceva il cameriere ma aspirava a diventare cuoco, aveva trascorso la serata in un locale in compagnia di altri amici. Ad un certo punto ha notato che un suo ex compagno di scuola stava litigando con un altro giovane, molto prestante, e ha cercato di separarli. Proprio il tipo, grosso e palestrato, non ha gradito l’intervento di Willy e ha chiamato a raccolta i suoi amici, anch’essi grossi e palestrati. Il gruppetto dei tre, sopraggiunti a bordo di un Suv, ha aggredito Willy ed altri presenti. Tanti sono fuggiti per ripararsi dalla furia del branco ma Willy è rimasto solo ed è stato pestato, con pugni e calci, nello sterno e al volto, sin quando ha finito di respirare. I quattro assassini sono stati arrestati. Ma noi ci poniamo una domanda: qual è la vita sociale in tanti Comuni, e non solo nel Mezzogiorno? I partiti, come centri di aggregazione politica e culturale, non ci sono più. Anche la Chiesa non svolge nessuna attività sociale. Si avverte una netta regressione, non solo sociale ma anche civile. Il Pd non si pone questi problemi. La vita politica si svolge nell’incontro-scontro dei vertici, senza il concorso politico e umano di masse popolari.In questi anni il livello politico e culturale è scaduto. Quel che è avvenuto a Colleferro dovrebbe fare riflettere, perché non si tratta solo di questo paese. Se qualcuno pensa che queste mie parole esprimono solo nostalgia per un vecchio modo di fare politica si sbaglia. E sbaglia chi su questi gravi fatti, che sembrano di cronaca, non apre una riflessione politica.(7 settembre 2020)

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Roxanne D. Costa L’aggravante razziale (forse)

 

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Cos’è la proposta di legge Zan contro l’omotransfobia

Probabilmente, a breve, si aprirà una forte discussione sulla proposta di legge Zan contro l’omotransfobia e come spesso succede molti non capiranno di cosa si sta parlando o, peggio ancora, rischieranno di essere portati fuori strada dalle polemiche e dalle approssimazioni.

La proposta di legge Zan è questa. Nello specchietto sottostante sono riportate le modifiche proposte: da un lato ci sono i testi e le iniziative della legge Zan e dall’altro lato ci sono gli attuali riferimenti legislativi.

In calce allego anche un PDF con lo specchietto completo che riassume tutto il progetto. Il dibattito si sta svolgendo sui primi due articoli della proposta che riporto in chiaro qui sotto. Sostanzialmente la questione ruota intorno all’eventualità di aggiungere la formula «oppure fondati sul genere, sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere» alla già esistente parte «per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi».

Ognuno farà le sue valutazioni ma è fondamentale che tutti possano giudicare in base ai fatti e a ciò che effettivamente è scritto, non alle approssimazioni.

 

Disegno di legge n.

 

(Modifiche agli articoli 604-bis e 604-ter del codice penale e misure di prevenzione e

contrasto della violenza e della discriminazione per motivi legati al genere,

all’orientamento sessuale e all’identità di genere)

 

Proposta di legge Legge precedente
Articolo 1

(Modifiche all’articolo 604-bis del codice penale)

1. All’articolo 604-bis del codice penale sono apportate le seguenti modificazioni:

a) alle lettere a) e b) del primo comma sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: «oppure fondati sul genere, sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere»;

b) al primo periodo del secondo comma sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: «oppure fondati sul genere, sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere»;

c) la rubrica è sostituita dalla seguente: «Propaganda o istigazione a delinquere e atti discriminatori e violenti per motivi razziali, etnici, religiosi o fondati sul genere, sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Articolo 604 bis Codice penale (R.D. 19 ottobre 1930, n. 1398)

Propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa

Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito:

a) con la reclusione fino ad un anno e sei mesi o con la multa fino a 6.000 euro chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi;

b) con la reclusione da sei mesi a quattro anni chi, in qualsiasi modo, istiga a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.

È vietata ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.

Chi partecipa a tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi, o presta assistenza alla loro attività, è punito, per il solo fatto della partecipazione o dell’assistenza, con la reclusione da sei mesi a quattro anni. Coloro che promuovono o dirigono tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da uno a sei anni. Si applica la pena della reclusione da due a sei anni se la propaganda ovvero l’istigazione e l’incitamento, commessi in modo che derivi concreto pericolo di diffusione, si fondano in tutto o in parte sulla negazione, sulla minimizzazione in modo grave o sull’apologia della Shoah o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra, come definiti dagli articoli 6, 7 e 8 dello statuto della Corte penale internazionale.

 

Articolo 2

(Modifica all’articolo 604-ter del codice penale)

1. Al primo comma dell’articolo 604-ter del codice penale, dopo le parole: «o religioso,» sono inserite le seguenti: «oppure fondati sul genere, sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere».

 

 

 

 

Articolo 604 ter Codice penale (R.D. 19 ottobre 1930, n. 1398)

Circostanza aggravante

Per i reati punibili con pena diversa da quella dell’ergastolo commessi per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso, ovvero al fine di agevolare l’attività di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi che hanno tra i loro scopi le medesime finalità la pena è aumentata fino alla metà. Le circostanze attenuanti, diverse da quella prevista dall’articolo 98, concorrenti con l’aggravante di cui al primo comma, non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a questa e le diminuzioni di pena si operano sulla quantità di pena risultante dall’aumento conseguente alla predetta aggravante.

 

A questi link potete scaricare:

 

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Ciao Silvia, come stai?

Oggi ho impastato ed è una cosa che non avrei mai potuto prevedere. Credo di averla sempre considerata un’attività legata a rigide separazioni di ruoli. Poi ho incontrato qualcuno che mi ha fatto riflettere su come ci siano le cuoche e gli chef e ho capito che il problema non era il pane ma il tipo di riconoscimento che ti viene dato per farlo. Può essere il trionfo della casalinghitudine o un nuovo modo di intendere il tempo e la convivenza: è tutto da giocare. Ho iniziato a fare il pane perché nel primo periodo della quarantena non potevamo averlo fresco. Semplicemente per bisogno. Poi ho scoperto che un mio compagno di università, panificava anche lui e tutto è diventato molto meno schematico. Non era più questione di uomini o donne ma di prendersi cura.

Mia madre creava canali di comunicazione attraverso il cibo. Ogni tanto prendeva delle olive e del pane buono, mi aspettava e li tirava fuori come una sorpresa. Non si mangiava altro. Il pane e le olive, la chiacchierata, il caffè e la sigaretta. Dopo che è morta l’ho cercata nelle sue ricette e nei suoi gusti. Non sapevo quasi niente di quello che cucinava, ho imparato ogni piatto come un pezzo di memoria riconquistata. Per ultimo il pane. Mia madre aveva una fornaia di fiducia. Nel suo negozio c’era sempre un odore particolare. Era l’odore del lievito che cuoce e riempie l’aria dell’attesa di pane caldo. L’ho sentito di nuovo in casa mia. So che non continuerò a panificare ma mi ricorderà sempre la faccia dei miei alla prima pagnotta ben fatta. Li ho nutriti e in questi giorni mi interessava solo quello. Del resto non potevo fare altro.

Così, quando è arrivata la notizia della liberazione di Silvia Romano, ho pensato alla stessa cosa. Avrà mangiato? Avrà potuto riposarsi? Chissà se l’hanno trattata male. È istintivo, non riguarda l’essere donne o uomini, riguarda l’essere animali sociali. Mangi, dormi, come ti senti? È la prima cosa che si chiede a un figlio, a un amico, a una sorella. Il resto viene dopo, con i tempi e i modi di Silvia. Se vorrà. Se non vorrà andrà bene lo stesso. Lei non ci deve niente, questo deve essere chiaro. Non ci deve spiegazioni su come si veste e se si è convertita. Del resto buona parte di noi, giornalisti compresi, non sono in grado di fare diagnosi dato che non sono psicologi. E nessuno è in grado di fare valutazioni a partire da una dichiarazione o da una fotografia. Quindi aspettiamo.

Sindrome di Stoccolma o libera scelta: non lo sappiamo. È stata costretta sennò la uccidevano: non lo sappiamo. Si è convertita per la condizione in cui era: non lo sappiamo. Si è messa con i suoi carcerieri: non lo sappiamo. Gli abiti tradizionali somali: non lo sappiamo. Perché ha le sopracciglia così in ordine? Ma è ingrassata? Perché sta così bene? Perché non piange? In fondo è sempre la solita storia. Elucubrazioni. Niente che abbia, al momento, altro fondamento se non le proiezioni di ciascuno di noi. La martire, la sciacquina, la ragazza facile, il simbolo, la venduta, l’eroina. È di noi che stiamo parlando, di quello che ci interessa dimostrare, non di lei. L’abitudine consolidata di parlare di una persona – di una donna – come se lei non ci fosse, rendendola oggetto non più soggetto.

In questa pandemia, per gli stigmi che l’opportunismo del momento ci ha appiccicato addosso, ho riscoperto di essere italiana. Bene, come italiana, sono contenta che sia stata riportata a casa. Se si è trattato per il suo rilascio, se si è pagato, se si è collaborato con i servizi di un altro paese non lo considero un fatto eccezionale: è parte di una dinamica politica.

Equilibri di potere, mediazioni, rapporti che riguardano anche quelle realtà che ci fanno paura. Si può far finta che non esistano ma questo non le farà sparire. Io ho bisogno di sapere che il mio Paese non mi abbandona e questo è quello che dice la liberazione di Silvia. Ho anche bisogno di sottrarmi a queste logiche ricorsive che ci inchiodano a una disputa mediocre e sempre uguale. Ogni volta la stessa identica polemica: sfilacciata, noiosa, inutile.

Ancora e sempre la stessa pruderie da harem: l’hanno presa con la forza, si è concessa, l’hanno messa incinta, si è sposata in segreto, dando per scontato che l’abbiano marchiata con il possesso sessuale. Chi vi da il diritto di parlare del corpo di una donna in questo modo? Come se fosse roba vostra e non sua? Chi vi da il diritto di annullarla come se lei, la sua vita, la sua storia, le sue stesse parole fossero solo funzione del maschio di turno? E se anche fosse, perché dovrebbe raccontarlo a voi? C’è una differenza enorme tra il preoccuparsi di chi potrebbe aver subito costrizioni o violenze e la pretesa delle pubblica prova di illibatezza. La stessa differenza che c’è tra il saper ascoltare e lo spiare.

Una delle poche eccezioni è un articolo di Alberto Negri che fa uno scarto concettuale rispetto alla solita polemica stantia. Ribaltando la prospettiva parte da una domanda molto semplice: «Come mai da noi in Italia non ci sono stati in questi anni gli attentati jihadisti»? Beh mi pare una domanda sensata. Forse, dico forse, Silvia Romano è stata protetta per proteggere tutti noi. E l’unica cosa che dovremmo chiederle è proprio quello di cui nessuno si è preoccupato.

Se ha fame, se ha sete, se vuole riposare. Se vuole silenzio.

 

Sequestro Romano, ecco perchè trattiamo con i jihadisti

Silvia Romano è tornata, la cultura di voler tenere le donne a casa non se n’è mai andata

La conversione di Silvia – Famiglia Cristiana

Dobbiamo un favore a Erdogan

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L’odio degli altri

Parliamo di hate speech degli utenti social poi in televisione la prassi dell’aggressività per fare audience è talmente sdoganata che manco la si nota più. Ci sono persone che quotidiamente litigano, urlano, si offendono, compiono gesti violenti davanti alle telecamere dei più svariati programmi e non ci scomponiamo di una virgola. Raccontano bugie, inventano cose in diretta e tornano sempre dopo la pubblicità ma tutto ciò è considerato accettabile. La violenza del presentatore mentre fracassa le zucche di Halloween è riconosciuta da tutti. Ci scrivono tanto di articolesse e di spiegoni giusto per ribadire l’ovvio. Ma la violenza di decine di trasmissioni che sembrano innocue perché non parlano direttamente di politica non rappresenta un problema. Può sembrare che ci siamo desensibilizzati ma è illusorio pensare che quella violenza non penetri dentro di noi e non diventi agita. Eppure il problema è sempre attribuito alla rete mai alla televisione, mai ai media.

Riguardo i social, poi, sono stata bannata da una conoscente a cui avevo detto: “scusa se ti ho disturbato”. Disamicata da un’altra perché “entrava in risonanza con me” (e provo gratitudine per quella spiegazione a cui non era obbligata). Sono stata bloccata da uno perché avevo moderato una conversazione sulla mia stessa bacheca. Bannata da altri, di punto in bianco, senza motivi palesi e senza nemmeno il riguardo di rispondermi quando ho chiesto perché. Gente che conoscevo, di cui mi fidavo, che stimavo. Gente che non ho mai offeso, con cui ho sempre parlato normalmente. Gente che si sente dalla parte dei buoni e dei tolleranti. Non è una mia esperienza esclusiva, è l’esperienza di tanti di noi. Chissà quanti potrebbero raccontare storie simili. Però si attribuisce il problema sempre agli altri, mai a noi, mai ai buoni. I buoni possono bannarti senza motivo, aggredirti sulla tua bacheca, fare insinuazioni maligne, dirti cose feroci: loro sono buoni, sono moralmente giustificati.

Penso che l’hate speech si debba combattere alle radici, da dove parte per espandersi: nel linguaggio e nelle forme dei media, di tutti i media, di tutte le trasmissioni. Penso che serva una riflessione profonda perché l’odio è un processo in cui siamo coinvolti tutti, pure io che scrivo, pure noi che ne parliamo e il difficile è proprio rendersi conto che ne siamo coinvolti. Penso che vada rifiutato come approccio relazionale, come metodo di interazione, riconoscendolo in noi stessi e nelle nostre stesse fila. Perché non c’è una differenza di qualità ma solo di intensità. Noi non siamo su un percorso diverso da chi travalica i limiti della civile convivenza, siamo solo a un grado differente. L’hate speech non è un problema di parole ma di disposizione interiore, di intolleranze incrociate, di bandi pregiudiziali. Odiamo ugualmente ma ci sentiamo in diritto di farlo. E quotidianamente c’è qualcuno che annuncia di voler abbandonare i social perché gli altri sono intolleranti, senza accorgersi che gli altri siamo noi.

Disarmare il linguaggio è un percorso che ha senso solo se ci osserviamo nelle nostre interazioni, se ci mettiamo in discussione per primi. Altrimenti è come chiedere agli altri di deporre le armi mentre noi ce le teniamo saldamente strette al fianco.

Alcune delle mie letture:

Laura Occhini, Rabbia. Dalla difesa all’ostilità, Franco Angeli, 2018.

Federica Sgaggio, Il paese dei buoni e dei cattivi, Minimum fax, 2011.

Jennifer Guerra, Perché dobbiamo recuperare il senso politico e radicale dell’amore, The vision

Come disarmare i conflitti verbali, Comunicazione efficace, 2011

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Sharp objects. Una lettura di genere

! Contiene spoiler !

Ringrazio chi mi ha consigliato di vedere Sharp objects perché finalmente si tratta di un poliziesco cupo e intenso tutto al femminile. Non nel senso che ci sono poliziotti donna, quello lo avevamo già visto nel bellissimo Fargo, una vera pietra miliare. Piuttosto perché lo sguardo è femminile e riguarda un mondo femminile. La cittadina di Wind Gap, Missouri, diventa il teatro di uno scontro in cui l’elemento di genere risulta decisivo per le sorti della vicenda e per tutto il suo svolgimento.

La madre ossessiva, Adora Crellin, risulta affetta da un disturbo psicologico che la porta ad avvelenare le figlie, una dopo l’altra, solo per potersene prendere cura durante la malattia. È un’immagine potentissima che scardina profondamente il ruolo in cui Adora è stata congelata come madre dalle convenzioni sociali. Una donna è veramente donna quando sente il feto nel proprio grembo dice una delle amiche di Adora. E Adora è talmente madre che per svolgere il ruolo di accudimento verso le figlie le avvelena lei stessa pur di prendersene cura.

La protagonista, Camille Preaker, è figlia di Adora e scopre di essersi salvata solo perché ha rifiutato le cure materne. Si è ribellata, a differenza della dolce sorella Mariam, non volendo prendere le medicine che le da la madre e questo ha significato la sua salvezza. Una metafora potentissima che fa esplodere dall’interno i luoghi comuni in cui sono costrette molte donne,  compresse tra il ruolo di figlia fedele e madre devota. Non sei figlia se non obbedisci, non donna se non partorisci, non sei madre se non accudisci. Eppure obbedire e accudire diventano la chiave di un empasse mortale.

Gli uomini in questa grande affresco sono rappresentati nella stessa chiave di genere andando ben al di là di una schematizzazione sessista. Ancora una volta la sceneggiatura fa saltare il banco quando John Keene, il fratello di una delle vittime adolescenti, viene considerato colpevole perché piange la morte della sorella. John si dispera, non nasconde il dolore della perdita e la comunità lo considera ambiguo, anormale perché un uomo deve limitare le manifestazioni emotive. E alla fine diventa il capro espiatorio perfetto. Viceversa Bob Nash, il padre dell’altra vittima, viene considerato colpevole perché burbero, solitario. In tutta questa complessa vicenda, che va guardata nei dettagli per essere apprezzata pienamente, si intrecciano storie di abusi, iniziazioni violente, ruoli sociali. E alla fine il gioco di rovesciamento arriva al punto di indicare come assassino la creatura da proteggere per eccellenza, quella più fragile, quella più bella, quella più femminile. Il gioco è fatto, il capolavoro è pronto, ed è un capolavoro in chiave di genere.

Romanzo: Sharp Objects, Gillian Flynn, 20016.
Sceneggiatura: Marti Noxon, 2018
Regia: Jean-Marc Vallée.

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Joker ovvero la possibilità del male

! Contiene spoiler !

La sera in cui ho visto il film avrei voluto rinunciare perché ero troppo stanca. Ma mio marito è venuto a riferirmi che secondo il telegiornale forse ci sarebbero stati dei presidi di polizia fuori dai cinema. Quella è stata la molla che mi ha spinta a uscire: se davvero fosse successa una cosa del genere, io avrei voluto vederla. Invece no, non c’era alcun presidio. La circostanza si è verificata negli USA e in forza della notiziabilità dell’evento è stata applicata all’Italia. Impropriamente. Così mi sono ritrovata in una sala piena di adolescenti delusi che si aspettavano un film diverso. Infatti non era Batman.

Ho contato le scene di violenza: sono cinque, di cui tre quelle cruente. Le scene dei riot sono poco più che coreografie sullo sfondo. Se questa era la preoccupazione, dopo Taxi driver, Fight club, V per vendetta e la quantità di film che hanno inscenato la violenza sociale negli ultimi decenni, il mondo occidentale dovrebbe essere estinto. Il film è accusato di razzismo ma gli operatori che assistono Arthur Fleck impedendogli di diventare violento sono tutti neri. Semmai c’è da chiedersi perché gli assistenti sociali e gli psicologi della parte disagiata di Gotham siano tutti rappresentati come afroamericani. Si parla di un film misogino ma l’unica relazione affettiva di Arthur è il rapporto immaginario con la vicina afroamericana. Quando entra per la prima volta nella casa di lei e capisce di aver avuto un’allucinazione, esce senza protestare. E se Arthur uccide ferocemente il collega Randall, causa del suo licenziamento, verso l’altro, Gary, è del tutto amichevole. Gary è un uomo con nanismo che rimane chiuso nell’appartemento di Arthur perché non arriva a sbloccare la porta. Arthur, ormai fuori controllo dopo l’uccisione di Randall, potrebbe sopraffare Gary facilmente. Eppure lo libera dicendogli che è stato l’unico ad essere gentile. Paradossalmente questo film è perfino politically correct. Sì, certo, sono schemi di interazione semplificati ma proprio per questo è impossibile fraintenderli. Arthur incontra le prime tre vittime nella metro mentre stalkerano una donna sola. Quando si accorgono dei problemi di Arthur si accaniscono su di lui e in questo modo la passeggera riesce a scappare. Solo allora Arthur tira fuori la pistola per difendersi e spara. È così che inizia la sua metamorfosi in assassino.

La storia alla fine è lineare, semplice. È ispirata a un supereroe dei fumetti ma incastonata nella vita reale. Non ci sono superpoteri ed effetti speciali. C’è chi trova che Joaquin Phoenix sia sopra le righe ma è ovvio che lo sia: questo è il suo superpotere. Il superpotere di un antieroe che è stato privato degli effetti speciali, a cui resta solo sé stesso e il suo tragico gigantismo pop. Questa storia, che non è nemmeno un film d’azione, è pensata per un pubblico vasto, non per la saletta d’essai. Il fatto di ruotare intorno al personaggio di Joker lo fa sembrare un film su Batman. In questo modo il protagonista diventa una metafora popolare, attingendo dall’immagine di uno dei villain più famosi del nostro tempo. Questa scelta mi pare forse la cosa più interessante perché è deliberatamente collegata al tipo di pubblico a cui si rivolge. Questo film è un’operazione umanistica piuttosto che politica: lo dice Arianna Finos nell’intervista a Todd Phillips. Se si esce dalla visione di Fight club esaltati per l’esplosione finale, Joker lascia addosso una tristezza senza soluzione.

La prima cosa che colpisce è l’impressionante cambiamento fisico di Joaquin Phoenix. Non è semplicemente dimagrito, è dimagrito al punto da mostrare ogni singolo osso. Di conseguenza colpisce tutta la fisicità di Arthur Fleck che provoca disagio in ogni sua espressione. La storia non parla di un criminale vincente ma di un emarginato sconfitto che rimane sconfitto anche quando si prende la rivincita sulle vite degli altri. Arthur Fleck non vince mai. È e rimane quello a cui vengono sottratti uno dopo l’altro l’assistenza, i farmaci, il lavoro, l’identità, il rispetto, le relazioni sociali. Al punto che non gli rimane nulla da perdere. E in questo sì che c’è un rischio di identificazione reale. Non nella violenza che segue un percorso tutto diverso, non nella rivolta a cui Arthur è estraneo. L’omicidio non implica alcun riscatto, nessuna affermazione di potere. Arthur era un perdente e lo rimane sempre. L’identificazione è nella sottrazione di diritti, nell’ipocrisia con cui viene giudicato dopo che gli è stato tolto tutto. Arriva ad uccidere alla fine di un concatenamento di eventi alla cui origine c’è una colpa sociale. Arthur è stato abbandonato dalla società, gli hanno tolto ogni cosa ma gli hanno dato in mano un’arma. E lui diventa un assassino per difendere dai tre yuppie che lo colpiscono con gratuita ferocia. Curiosamente – ma non troppo – il film è politicamente corretto verso le donne, gli afroamericani, le persone con disabilità. Non è un film sulla follia, è un film che parla del pericolo costituito dal non prendersi carico dei problemi. Non si può non pensare agli autori dei mass shooting che hanno squassato l’America contemporanea. È un film che smaschera quell’approccio moralistico che porta alla difesa dei diritti individuali e alla negazione dei diritti collettivi*. Un film che parla di un mondo dove si deve essere corretti verso le minoranze ma si possono tagliare i fondi ai servizi sociali e all’assistenza sanitaria. E quel mondo è facilmente identificabile con il nostro. Forse per questo è considerato un film da prendere con cautela. Non perché inciti realmente alla violenza ma perché in qualche modo parla di cose che ci mettono in discussione tutti.

L’articolo su Cultura Commestibile 326, p.12

 

Intervista a Todd Phillips (grazie a Francesca Sand per la segnalazione)

* Mi chiedo il perché della scelta di titolo così inusuale per la programmazione al cinema che si intravede durante la fuga di Arthur. Il riferimento a Zorro, il film in proiezione quando sono morti i genitori di Bruce, è chiaro. Qui però diventa “Zorro, the gay blade” (1981) ed esiste veramente.

Scrive Francesca Papasergi:

«“Cosa ottieni se metti insieme un malato di mente solitario e una società che lo abbandona? Ottieni quello che ti meriti.”

Se vi stavate domandando il perché della nettissima dicotomia tra molta della critica cinematografica statunitense e quella del resto del mondo a proposito di Joker, la risposta sta in questa battuta. Quello che li disturba profondamente, a mio avviso, è il tema del fallimento sociale visto come innesco di violenza e malvagità senza possibilità di controllo o di redenzione. Si scoprono potenzialmente cattivi, possibili artefici di un male più grande di loro, e questo li fa star male. La responsabilità penale è personale; poi c’è la natura, l’essere deviati di per sé; gli americani che non hanno gradito hanno guardato il film e si sono sentiti i mandanti morali delle cose brutte che avrebbero potuto evitare facendo scelte diverse (leggi: sparatorie nelle scuole, per esempio), che è la terza possibilità. La storiella che gira da anni su Gesù di Nazareth clonato e cresciuto, che so, dal capo di una banda nelle favelas di Rio riassume il tutto. Per dirla proprio all’americana, “it takes a village”.

Joker è una conseguenza di Gotham».

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Greta Thunberg non è l’argomento

I più se la prendono con i comuni cittadini che contraddicono Greta Thumberg, specie se questi si collocano tra le fila dei loro avversari. Io lo trovo un fatto irrilevante. Mi preoccupa invece la reazione di Macron, mi preoccupano le risatine che hanno accolto l’inizio del discorso della Thumberg all’ONU. Come se fosse buffa quando dice: “Il mio messaggio è che vi stiamo tenendo d’occhio“. Mi preoccupa se coloro che hanno un peso politico la citano alla bisogna ma quando lei parla di cose concrete la ignorano. Greta Thunberg ha chiamato in causa la “favola dell’eterna crescita economica”. Eppure pare che il suo non sia un discorso politico compiuto. È questo che mi fa paura. Non il mio vicino di FB o di Twitter che formula idee balzane ma il potente che disinnesca il messaggio di questa attivista.

A forza di discutere di “Greta sì”, “Greta no”, nessuno parla della “favola della eterna crescita economica“. Sì, sono proprio le parole della Thunberg. Curioso che tutti notino le trecce, l’asperger, l’età, la simpatia o l’antipatia e praticamente nessuno faccia caso ai dettagli politici del suo discorso. Che poi tanto “dettagli” non sono. Moltissimo tempo è stato perso a parlare di lei. Poco è stato speso sulle domande e sulle risposte necessarie. È forse lei stessa il messaggio? Perché quello che dice non è mai al centro dell’attenzione. Noi la osanniamo come un santa laica, una Giovanna D’Arco, eppure non è da sola, fa parte di un movimento ampio a cui appartengono molti soggetti tra cui gli Heart Guardians. Curioso: il movimento ambientalista giovanile esisteva prima di lei. È troppo difficile guardare veramente oltre? Perché ci aspettiamo che lo facciano gli altri, quelli che non credono nell’ecologismo, e non lo facciamo noi per primi? Perché pretendiamo gli altri non parlino delle treccine e invece ne parliamo noi? Ci interessa Greta Thunberg o ci interessa il suo messaggio nell’ambito di un ampio movimento ecologista che vede protagonisti i giovani? Continueremo a difenderla da chi ironizza sulle sue treccine o prenderemo finalmente in considerazione il suo discorso politico? Oppure è solo scomodo prendere atto che un discorso politico sull’ecologismo esiste. E magari è più facile ridurre tutto un movimento a un personaggio carino piuttosto che considerare veramente i cambiamenti che insieme chiedono. Non so, ipotizzo. E osservo con attenzione quelli che contro ogni evidenza continuano a chiamarla “bambina” .

Capisco che chi non ne condivide le opinioni sposti l’attenzione sulle trecce e sull’antipatia. Ma mi chiedo come sia possibile che chi appoggia il suo messaggio ambientalista si limiti a dire che è (solo) una ragazzina che parla davanti ai potenti (poverina). Delle due l’una: o decidiamo che è un soggetto politico a tutti gli effetti o ci limitiamo a dire che è una bambina tanto brava.

Per quanto mi riguarda Greta Thunberg è un soggetto politico. Non è una bambina, è una giovane donna. Non mi interessa se la attaccano e non farò niente per discutere delle treccine, dell’età, dell’espressione e degli altri elementi marginali. Non la chiamerò solo per nome perché non è una mascotte e neanche la figlia dei vicini di casa. Userò sempre il nome e cognome per non essere riduttiva e per rispettare pienamente il suo essere soggetto politico. Cercherò di non parlare di lei ma del movimento che ha alle spalle e di cui fa fa parte. Non mi interessa il mito di Davide e Golia, dunque non la considererò un’eroina che va avanti da sola contro i giganti ma un soggetto politico che fa parte di una mobilitazione ampia con cui ci dobbiamo misurare.

Vogliamo fare un discorso serio? Parliamo degli argomenti. Parliamo dell’ecologia, Parliamo dell’ambiente. Parliamo delle cose di cui parla il movimento mondiale ecologista di cui Greta Thunberg fa parte. Parliamo di ciò che Greta Thunberg propone all’attenzione mondiale. Parliamo dalla luna e non del dito che la indica. Ma non aspettiamoci che lo facciano quelli che nell’ecologismo non credono: facciamolo noi perché fino ad adesso non lo abbiamo fatto. Parliamo dell’ambiente, non parliamo di lei. Non è lei l’argomento. Altrimenti smettiamola di sentirci migliori di quelli che ironizzano sulle treccine e sull’età perché la stiamo trattando con accondiscendenza, come una bambina ingenua e senza potere. Smettiamola di personalizzare l’argomento, vanificando il messaggio di cui si lei stessa sta facendo portatrice.

 

Nell’immagine la Climate March of New York

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Il razzismo e la sirenetta

Giorni fa ho pubblicato due post gemelli con la stessa foto alla stessa ora ma con commenti molto diversi. Il primo esultava del fatto che il ruolo della sirenetta sarà interpretato da Halle Bailey. Il secondo sottolineava che la scelta di Halle Bailey per interpretare quel ruolo ha scatenato commenti razzisti. Non ho mai avuto nessuna intenzione scientifica, era solo una prova. Inoltre so che i miei contatti sono persone in gamba quindi non era nemmeno un discrimine per loro. Mi interessava solo di capire qualcosa sulla comunicazione. 

Bene: il post che sottolineava la gioia per la scelta di Halle Bailey ha raggiunto 9 reazioni e 5 commenti; il post che evidenziava un contrasto tra razzisti e antirazzisti ha raggiunto 25 reazioni e 27 commenti. 

La prima cosa che noto è che quei post attraggono poco interesse: o l’argomento non tira o io non sono stata efficace. La seconda cosa è che comunque la contrapposizione attrae l’attenzione molto più di una notizia data con serenità e senso di positività. 

Non è questione di valori o di intelligenza è che questi meccanismi vanno a intercettare delle inclinazioni profonde di tutti noi. Una rissa in strada cattura la nostra attenzione più di una carezza e non perché siamo cattivi ma probabilmente perché mette in moto dei meccanismi di protezione. 

Credo che questi meccanismi vengano sfruttati per comunicare le notizie col risultato paradossale che non riusciamo più a gioire del fatto che la sirenetta assume il viso di Halle Bailey. Non riusciamo a godercelo NON perché esistono i razzisti che vengono a rovinarci la festa ma perché i media, per catturare la nostra attenzione, usano il trucco di evidenziare un conflitto che ci provoca. Col risultato di farci sentire sempre come se fossimo sotto assedio. 

Qualcuno si è lamentato della sirenetta nera. E quindi? Disney sostituirà Halle Bailey? No. E non perché Disney è buona ma perché Disney è una multinazionale e sa benissimo che il valore dominante in questo momento non è il razzismo: il pubblico pagante che farà guadagnare la sua casa di produzione non è razzista. 

Non sappiamo nemmeno quanti sono quelli che si sono lamentati della sirenetta nera: basta che esistano per fare notizia anche se sono una minoranza. Capite il paradosso? Io credo che dovremmo cominciare a ragionare anche tenendo conto di queste dinamiche perché rischiamo di vivere in un mondo orribile creato appositamente per venderci la notizia. 

Questo non vuol dire che i razzisti non esistono ma semplicemente che l’informazione ha lo scopo di vendere, non solo di informare, e questa premessa condiziona la notizia stessa.

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La pietà che non cede al rancore

Il 26 settembre 1997 è crollata la volta della basilica superiore di Assisi. Ero appena tornata a casa e accendendo la televisione per vedere il TG ero rimasta impietrita davanti alle immagini della nuvola di calcinacci che sommerge le panche. Piansi sentendomi in colpa perché in fondo era solo materia, niente di comparabile alle vite umane perdute. Piansi disperatamente e non sapevo neanche bene perché.

Quell’anno a luglio era morto mio padre, così avevamo deciso di farci un bel viaggio, uno di quelli che piacciono a noi: fare le valigie, caricare la macchina e partire organizzandoci mano a mano che si procede. Andammo verso la Francia, attraversammo il sud come tante volte avevamo fatto e ci ritrovammo a ovest. Fu a quel punto che decidemmo di andare a San Giacomo di Compostela. Sì, lo so, conosco tutte le obiezioni razionali ma è bello viaggiare in questo modo.

Decidemmo che saremmo passati da Carcassonne e così facemmo. Arrivammo di pomeriggio, lasciammo la macchina ed entrammo per prenotare da dormire. Tempo pochi minuti e tornammo indietro a prendere le valigie che però non c’erano più. Il mio compagno viaggiava con uno scatolone pieno di abiti. I calzini di lui sul cruscotto ci avvertirono che qualcosa che non andava, poi vedemmo lo sportello piegato e alla fine ci trovammo a fare il conto di quel che mancava. Salvo il portafogli e i documenti, si erano presi tutto. Io non avevo più nulla.

Quando realizzai che mancavano anche le mie sciocche ciabattine da doccia capii che non volevo continuare. Cambiammo programma e decidemmo, non a caso, di andare in Umbria. Però volevamo vederla questa benedetta Carcassonne. La girammo in lungo e in largo e per la prima volta mi imbattei in un restauro del genere. È una filosofia di intervento molto difficile da digerire per noi, oggi, e mi lasciò un’impressione straniante.

È a quell’impressione che ho collegato gli interventi sgraziati di alcuni commentatori italiani il cui succo era che «tanto la parte distrutta di Notre Dame è quella di Viollet Le Duc». E qui le cose si complicano. Perché è vero che quegli interventi sono criticabili ma questa considerazione va tenuta insieme col fatto che comunque Notre Dame li trascende ed essi, in qualche modo, rientravano nelle stratificazioni della storia dell’edificio. Di Notre Dame piango il significato. Non è bruciata un’attrazione turistica, è bruciata la storia fatta materia, pietra, legno, vetro e colore. Quella di Francia e quella di tutti noi con le sue circonvoluzioni e le sue molte stratificazioni.

Un evento del genere, in un momento storico come quello attuale, ha scatenato una quantità di lettura simboliche, politiche e perfino escatologiche. Ieri sera ho seguito la diretta sui canali francesi in streaming. Da lì ho scoperto che è possibile usare la televisione per respingere i fake e le strumentalizzazioni. Ho scoperto anche questa vignetta che con una umanità profonda, senza pretese, rende omaggio alla Signora in tanti modi.

Leggo e mi scendono le lacrime senza singhiozzi, come mi succedeva davanti ai calcinacci di Assisi. In sottofondo, mentre gli inviati della televisione raccontano la distruzione, alcuni francesi cantano l’Ave Maria davanti a Notre Dame che brucia. Lo speaker si ferma, si sentono le voci lontane. Io non vado in chiesa e prego poco: è lo studio la mia forma di ricerca. Ma non posso ignorare che in queste persone unite nel canto non c’è odio, non c’è rabbia, non c’è strumentalizzazione politica. Non c’è intenzione escatologica o enfasi mistica ma solo una grande, collettiva empatia umana.

È vero, la cattedrale che va a fuoco ha una potenza evocativa dirompente. Feroce direi. Ora però vediamo che l’edificio non è distrutto. Le volte hanno tenuto anche se ieri sembrava tutto crollato. Nella notte, dalla TV Francese, ho sentito i musulmani franco marocchini che pregavano per la grande cattedrale dei cristiani. Sulle veline dei giornali, ho letto degli ebrei francesi che incoraggiavamo la fede dei cristiani nella resurrezione. Leggiamo questo simbolo. Leggiamolo soprattutto adesso che le fiamme sono spente.

 

Ps. Un ateo ha scritto: Nella pietà che non cede al rancore, madre, ho imparato l’amore.

La charpente de Notre-Dame de Paris

Cronaca del rogo di Franco Cardini

Louis Daguerre 1838

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Famiglia tradizionale e non

La famiglia tradizionale esiste e mi pare che nessuno la voglia smantellare. È questa paura che dobbiamo superare se vogliamo vivere in pace. La paura di qualcosa che non esiste. Le paure, non le persone, sono il nostro nemico.

Per esempio io e mio marito, siamo una famiglia tradizionale sposata regolarmente in comune. Il fatto è che non siamo sempre stati così. Dunque siamo anche una famiglia non tradizionale. La condizione è fluida, la nostra come quella di tutti. Provenivamo da altre relazioni, ci siamo messi insieme, abbiamo abitato in case diverse, poi abbiamo convissuto, poi io mi sono trasferita e siamo stati di nuovo in case diverse, poi mi sono trasferita ancora e abbiamo di nuovo convissuto, poi ci siamo sposati e se ci sarà bisogno staremo di nuovo in case diverse.

Alla faccia dei luoghi comuni abbiamo abitato con i genitori e i nonni – casa sotto e casa sopra – perché la nostra è una famiglia solidaristica. I luoghi comuni? Li abbiamo sbriciolati nei fatti. Ci siamo occupati dei genitori e dei nonni. Abbiamo vissuto con sua madre e sua nonna entrambe vedove. Quando mio padre si è ammalato abbiamo vissuto metà tempo in una casa, la nostra, e metà tempo in un’altra casa, quella dei miei genitori, in un altra città.

Abbiamo accolto gli amici, che sentiamo far parte della nostra famiglia, non abbiamo chiesto a nessuno di rendere conto del proprio orientamento. Non per scelta ma perché non ce ne frega niente: non ha importanza se non nella misura che decidono loro. Quello che tu sei non annulla quello che io sono. E se sei suora, frate, sposato, divorziata, single, omo o trans non metti in discussione la mia identità. Per me non cambia un beneamato nulla. Nemmeno la tua appartenenza politica cambia qualcosa purché tu mi rispetti e rispetti gli altri.

Abbiamo ospitato gay di destra e femministe agnostiche, volontari di destra e attiviste di sinistra, lesbiche cattoliche e preti socialisti, coppie omo e divorziati etero, giusto per dire che gli schemi li rompe la vita stessa senza bisogno di aggiungere niente. E single, tanti amici single: famiglie pure loro, nodi che fanno parte delle reti di altre relazioni. E buddisti, ebrei, musulmani, evangelici, atei in combinazioni familiari varie. E separati, risposati, conviventi con figli e senza figli oppure con figli di altri genitori. 

Siamo padrino e madrina di bambini. Abbiamo gatti, tanti gatti: per noi non sono figli, sono gatti e li amiamo lo stesso, moltissimo. Abbiamo terra e alberi e frutta. Un giardino per cenare fuori e un orto per i pomodori. Abbiamo da accudire relazioni sociali fittissime con gli esseri umani. Perché senza gli altri non sopravvivremmo, perché non siamo monadi e nemmeno la nostra famiglia è una monade. La famiglia è un intreccio, un’ipotesi di lavoro. Siamo tradizionali? Sì. Siamo NON tradizionali? Sì. Ma non siamo mai stati una cosa sola alla volta. Chiedersi cosa siamo è un falso problema e onestamente non mi interessa. 

 

«La stessa persona può essere, senza la minima contraddizione, di cittadinanza americana, di origine caraibica, con ascendenze africane, cristiana, progressista, donna, vegetariana, maratoneta, storica, insegnante, romanziera, femminista, eterosessuale, sostenitrice dei diritti dei gay e delle lesbiche, amante del teatro, militante ambientalista, appassionata di tennis, musicista jazz e profondamente convinta che esistano esseri intelligenti nello spazio con cui dobbiamo cercare di comunicare al più presto (preferibilmente in inglese). Ognuna di queste collettività, a cui questa persona appartiene simultaneamente, le conferisce una determinata identità. Nessuna di esse può essere considerata l’unica identità o l’unica categoria di appartenenza della persona». 

Amartya Sen, Identità e violenza, traduzione di Fabio Galimberti, Editori Laterza, 2006.

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Global climate strike e adulti

Quando ho sentito la lista dei luoghi dove si terranno i vari «strike climate» del 10 marzo 2019 ho avuto un flashback. Erano diciassette anni (17) che non si manifestava un movimento transnazionale – globale – di mobilitazione di tutti per il bene di tutti. Diciassette anni pesanti di disastri inauditi, guerre, crisi, conflitti sociali, contraddizioni. Nello stesso momento sarò a parlare di discriminazione di genere ma il mio cuore sarà là, dove si riallacciano i fili delle nostre speranze di tutti noi. Per un futuro migliore e per l’emozione di vedere in campo la generazione successiva di innovatori. Ho la sensazione che qualcuno stia riprendendo il testimone là dove ci era caduto dalle mani. E questo mi emoziona moltissimo.

Eppure, in questi giorni, rifletto molto sull’avvertimento attribuito a un uomo che a suo modo è stato un grande innovatore: “Siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe”. Serve essere entrambi: serpenti e colombe, colombe e serpenti. Senza che l’uno predomini sull’altro. Personalmente evito la mistica della giovinezza, non personalizzo un movimento globale, non lo identifico con un solo personaggio. Sono molto attenta al green washing che si sta già palesando in pompa magna. Oh se si sta palesando. Tengo presente che la causa ambientale non è una causa dei buoni sentimenti ma una causa politica a tutti gli effetti: ovvero di concezione economica della nostra società, di rapporti di potere e pragmatismo. In altre parole non mi piace la differenza tra idea e azione, tanto per citare il poeta. E non mi riferisco agli studenti ma a chi li sostiene da posizioni politiche ambigue, che sembrano voler omologare e quindi dissinescare un movimento in cui le persone credono in buona fede e con argomenti adeguati. Non mi piace quando non si concede neanche un piccolo credito di fiducia alla voglia di cambiare. Hanno il diritto di provarci e hanno ottime ragioni. Non mi piace quando si banalizza un dibattito: per me gli argomenti come il body shaming o il sarcasmo sulla neurodiversità non hanno alcun titolo per esistere nella discussione pubblica. Chi li usa dimostra tutta la propria inadeguatezza politica. Ho capito che voglio lasciare che gli studenti facciano le loro iniziative senza di me. Non ho bisogno di essere presente alle loro manifestazioni e credo abbiano diritto a uno spazio tutto loro, come desideravo io quando ero al liceo. Me le ricordo bene le litigate. Ho però bisogno di dire che li condivido e appoggio il loro movimento. Ho bisogno di essere al loro fianco ma senza sottrargli il centro della scena. Ho bisogno di dire che credo negli stessi principi e sono contenta del loro mettersi in gioco. E vivaddio è primavera.

Riguardo alla polemiche, mi hanno fatto ricordare del 2002, quando si tenne il Social Forum a Firenze con numeri da record. Io ci andai per seguire uno workshop di giornalismo con professionisti di primo piano. Alcuni dissero che avremmo distrutto la città, preannunciarono danni incalcolabili, lanciarono allarmi sul pericolo che devastassimo i negozi e monumenti. Furono due personaggi in particolare ma non importa ormai chiamarli in causa. Molti negozi chiusero a causa del clima di paura indotto. Ma un bar, davanti alla stazione di Santa Maria Novella rimase aperto. Noi eravamo alla Fortezza da Basso, vicinissimi, numerosi e affamati. Non essendoci molte alternative andavamo lì: mi ricordo un continuo via vai di ragazzi in quell’unico bar aperto. Panini, bibite, dolci, caffè, più volte al giorno tutti i giorni che durò il meeting. Qualcuno dopo un po’ riaprì ma ormai ci eravamo affezionati al primo bar che ci aveva accolti. Ricordo di aver provato un sentimento di gratitudine verso quell’unica vetrina rimasta aperta come un gesto di fiducia. E ricordo anche che subito dopo pensai: “spero che guadagnino un sacco di soldi, alla faccia di chi non ci ha dato nemmeno una chance”. Ecco, penso che oggi stia succedendo la stessa cosa. È questione di concedere un piccolo credito di fiducia a chi crede con forza in un cambiamento possibile. Tutte le volte che passo da lì continuo a pensarci e a ridere tra me e me. La città ne uscì arricchita e il bar pure.

Detto questo, secondo me, se è un movimento globale andrà avanti, non saranno le polemiche a fermarlo. È legittimo e perfino sano che ci sia un contraddittorio e non una linea unica e uniforme. Guardiamo piuttosto a come si comportano i governi in merito all’ambiente. Guardiamo alla coerenza di chi si dichiara a favore dell’ecologia. Guardiamo alla prassi perché l’ipertrofia del simbolico troppo spesso ci ha allontanati dalle soluzioni invece di avvicinarci. Perché è possibile formulare ottime teorie che ci proteggono dal dover confrontarci con la realtà che è fatta principalmente di pratiche. Sono quelle che possono condizionare gli eventi non la normale polemica dell’opinione pubblica. Ed è su quelle che i ragazzi ci stanno chiedendo di misurarci.

 

 

#ClimateStrike

#Fridaysforfuture

 

 

 

 

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La donna è cuoca L’uomo è chef

Cuoco dal latino cŏquus o cŏcus, derivato di coquĕre, cuocere

  1. Persona che, per professione o per incarico ricevuto, provvede, in famiglie private o presso esercizi pubblici o in collettività, alla preparazione e cottura dei prodotti alimentari
  2. Più genericamente, chi attende alla cucina: si lamenta di dover fare sempre la cuoca e la bambinaia, mentre le sue amiche hanno un impiego
  3. Gran cuoco: titolo di dignità nel medioevo, lo stesso che gran cuciniere.

Chef dal latino *capus o *capum al posto del classico caput

  1. Capocuoco nei ristoranti, responsabile della parte operativa e di quella creativa.
  2. Per estensione cuoco raffinato e di grande abilità

 

Cuochi nella storia

Marco Gavio Apicio: I sec. a.C. – I sec. d.C. → L’arte culinaria III-IV sec. attribuito

 

 

 

 

 

 

Tacuinum sanitatis casanatensis (XIV secolo)

Maestro Martino da Como o Martino de’ Rossi o Martino de Rubeis: Torre, 1430 ca. – Milano o Roma, fine del XV sec.  → Libro de Arte Coquinaria

PDF scaricabile: Mastro Martino De arte coquinaria

 

 

 

 

 

Bartolomeo Scappi: Dumenza, 1500 – Roma, 1577 → Opera Di M. Bartolomeo Scappi, Cuoco Secreto Di Papa Pio V, 1570

François Vatel: Parigi, 1631 – Chantilly, 1671 controllore generale dei pasti per Luigi II di Borbone-Condé, principe di Condé Chantilly

 

 

 

 

 

Marie-Antonin Carême: Parigi, 1784 – Parigi, 1833 → chef de cuisine per Talleyrand

 

 

 

 

 

 

Jean Anthelm Brillat-Savarin: Belley, 1755 – Parigi, 1826 →   La fisiologia del gusto

Fu intellettuale e gastronomo. Fu eletto membro dell’ Assemblea Costituente del 1789

Pellegrino Artusi: Forlimpopoli, 1820 – Firenze, 1911 → La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene

Auguste Escoffier: Villeneuve-Loubet, 1846 – Monte Carlo, 1935 →  L’Art Culinaire, ancora pubblicata con il nome La Revue culinaire. Lavorò al Savoy di Londra e all’ Hôtel Ritz di Parigi

Gualtiero Marchesi: Milano, 1930 – Milano, 2017 → ALMA, Scuola Internazionale di Cucina Italiana

 

Cuoche nella storia

Katharina Prato nel 1858 pubblica la prima edizione del “Manuale di cucina per principianti e per cuoche già pratiche” tradotto in italiano nel 1893 da Attilia Visconti- Aparnik, maestra di cucina del corso di economia domestica nel Civico liceo femminile di Trieste.

 

Contessa Giulia Ferraris Tamburini →  Come posso mangiar bene? Libro di cucina con oltre 1000 ricette di vivande comuni, facili ed economiche, per gli stomachi sani e per quelli delicati1900

Rivolto alle massaie che dovevano provvedere a molte incombenze, ha un tono pratico e veloce. Avrà un certo successo con 7 edizioni, di volta involta rinnovate fino al 1935.

Amalia Moretti Foggia della Rovere, in arte Petronilla → Rubrica su La domenica del Corriere dal 1925

Eugénie Brazier (1895-1977) → prima donna a ottenere 6 stelle Michelin in due ristoranti di sua proprietà

Julia Child: Pasadena, 1912 – Santa Barbara, 2004 → Mastering the Art of French Cooking

A Julia Child è ispirato il personaggio di Olaf, il cuoco svedese dei Muppets

July 19, 2012 in Berlin, Germany

Una foto di gruppo degli chef di alcuni capi di stato a Berlino. L’unica donna del gruppo è Cristeta Comerford, chef della Casa Bianca, la prima donna ad ricoprire questo incarico, dal 2005

 

Alcune conclusioni

1 differenze biologiche / discriminazioni culturali

2 cucina domestica / ristorazione

3 alto e basso, ricco e popolare, chef e cuoca

1 differenze biologiche / discriminazioni culturali

La differenza di base non è una discriminazione è una differenza, appunto. Su quella differenza (biologica) è stata costruito una discriminazione (culturale).

Gerda Lerner

2 cucina domestica / ristorazione

Io provengo da una famiglia (paterna soprattutto) di cuochi provetti, donne e uomini pari qualità ed entusiasmo. E dato che di famiglia sono e siamo insonni, di notte ho sempre visto e osservato mio padre a tutte le ore della notte, Artusi alla mano, fare il pane, la pasta, le tagliatelle eccetera di cui allego foto appena speditami ora quasi novantenne. In effetti, se ci penso, a mia mamma non piaceva tanto avere come marito un competitor, le “toglieva un ruolo”, anche perché lei era “cuoca” (cucinava tutti i giorni) e lui era “chef” (cucinava per le cene di fronte a un audience, seppur mini mini).

Alessandra (storica)

3 alto e basso, ricco e popolare, chef e cuoca

Poi c’è modo e modo di lavorare: ho degli amici, una coppia con lei in cucina e lui in sala, e un altro, ristoratori di un certo livello. I primi ogni due per tre tolgono un tavolo, hanno 16 posti adesso e hanno scelto di lavorare con meno personale – e spese – possibili continuando a divertirsi e mantenere il livello alto. L’altro ha appena ristrutturato tutta la formula, affanculo le stelle e i clienti vecchi e ricchi, ha aperto un’osteria, si diverte molto di più ed è più rilassato, gli serve meno personale e sovrastrutture, alla fine i profitti restano quelli ma campa meglio

Barbara (enologa)

Altre conclusioni

Esiste un boom di presenze maschili a livello mediatico?

No, gli chef sono sempre stati uomini.

Ilaria (grafica)

C’è stata una scoperta del potere mediatico di una professione che, come tale, ai livelli apicali è maschile anche se la base (mense, trattorie, conduzioni familiari) è femminile.

(Lorenzo, filosofo e ristoratore)

La riflessione sul potere mediatico è particolarmente interessante: fa sembrare la presenza degli uomini sembra un rovesciamento di ruoli ma in realtà non lo è. Quegli uomini non stanno solo cucinando stanno esercitando un ruolo e un potere.

 

Consigliato da Silvia (storica locale)

Le interviste di Michela

 

Rassegna stampa

Barbie per i suoi 60 anni diventa lo chef campano Rosanna Marziale _ Il Mattino

Storia della cucina al femminile, tutte le rivali di Artusi – Il Sole 24 ORE

Perché le donne cucinano e gli uomini diventano chef_ – ilSole24ORE

Perché le donne cucinano da sempre, ma i grandi chef sono uomini_ _ ArtApp

Perché gli chef famosi sono quasi tutti uomini_ – Il Post

Parola di Antonia, donna chef_ _In cucina il sesso non conta_ – Signoresidiventa.com

Parla Cannavacciuolo_ _Vi spiego perché nella mia cucina non ci sono donne_ – Libero Quotidiano

Nasce la Barbie Chef, e ha il volto della cuoca stellata italiana Rosanna Marziale – Repubblica.it

La donna in cucina_ tra i fornelli (di casa) e le stelle Michelin

La donna è cuoca, lo chef è maschio_ basta!

La “cuoca di Savonarola” _ Festival del Medioevo

In Italia il primato mondiale delle cuoche stellate

Il primato italiano delle chef donne

Cracco, Ducasse e le donne in cucina_ ma non erano loro, le regine_ – Il Fatto Quotidiano

Cosa tiene lontane le donne dalle cucine dei grandi ristoranti italiani_ _ Dissapore

Chef stellate (e invisibili) – Corriere.it

https://www.taccuinistorici.it/ita

 

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Apri le cosce chiudi la bocca

Massimiliano Galli, consigliere comunale di Amelia per la Lega è stato espulso dal partito. Ha scritto contro Emma Marrone: “Faresti bene ad aprire le cosce facendoti pagare”, sottintendendo aprire le cosce invece dei porti.

Ora, al netto delle opinioni politiche, questo approccio non è accettabile da nessuna parte venga per nessun motivo. Certamente è sessismo ma non è solo quello. C’è l’idea odiosa di trattare un’avversaria da puttana per nullificare quello che dice e già questo è grave. Ma peggio ancora si indica il pene maschile come uno strumento punitivo per dirimere le controversie politiche. Un manganello-fallo con cui colpire l’avversario nel caso sia una donna. Colpire il suo corpo, la sua vagina, e per sineddoche il suo essere femmina.

L’imperativo di “aprire le cosce” è un tentativo di ridurre l’atto del sesso, che è libero e autodeterminato, a un rapporto di dominio. È escludere la femmina da questo atto come componente attiva. E mentre la si costringe a subire, le si chiude la bocca. Ho sentito raccontare lo stupro subito da persone che sono state colpite per motivi politici e mi sembra che il concetto di sessismo in questo caso sia riduttivo. L’espulsione è necessaria e apprezzabile ma non mi basta. Perché il sessismo di Galli ha preso una forma ambigua e pericolosa.

È fondamentale smascherare la matrice violenta di questo tipo di approccio. Non è solo sessismo, è un riferimento implicito allo stupro punitivo, cioè alla tortura dello stupro, cioè allo stupro di guerra. E no, non credo affatto di esagerare. Perché non dico affatto che Galli abbia stuprato qualcuno: non sono in mala fede. Dico però con tutta la mia lucidità che le implicazioni simboliche sono esattamente quelle. Ed è importate che vengano sanzionati i comportamenti di chi sparge queste affermazioni. Perciò ritengo fondamentale che sia stato espulso dal partito. Ma credo anche che sarebbe opportuno che decadesse anche dal suo ruolo di consigliere.

Il re è nudo: dobbiamo dirlo in giro

 

 

 

 

Consigliere comunale insulta Emma Marrone su Facebook. La Lega si dissocia e annuncia espulsione – Rai News

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Sulla pelle. L’esperimento di Foligno

di Roxanne D. Costa

Il caso di Foligno mi ha dato da pensare. Prima di tutto perché ormai se ne parla citandolo usando il capoluogo dove e’ avvenuto. “Foligno” appunto. Come si fa con casi di cronaca come “Cogne”, “Ustica” e “Columbine”. Il Pd grida “Foligno è colpa di Salvini”, il sociologo da salotto TV risponde “Foligno non è colpa solo di Salvini”. Il caso “Foligno” si fa cronaca e diventa argomento “razzismo”. Questo significa che diventa un problema sociale diverso si va a sfumare col problema immigrazione e accoglienza, e il bullismo, la molestia, il maltrattamento la vessazione che davvero lo caratterizzano sono aspetti secondari che passano in secondo piano perché già implicitamente “contemplate” dall’argomento razzismo. Non si parla di un bambino mortificato umiliato e maltrattato (scatterebbero le manette), ma si parla di razzismo con le conseguenti domande del tipo “sono razzisti gli italiani?”, “É colpa di Salvini?”, “Perché i genitori non sono stati avvertiti?”.

Immaginate vostra figlia vada a scuola e al suo ritorno vi dica che il maestro durante un “esperimento sociale” le abbia dato della troia. O della balena per il suo peso. Immaginate vostro figlio vi racconti di come il maestro si sia preso gioco di lui alludendo sembri più una femmina che un maschio. Stareste li ad aspettare che l’Italia discuta del problema?

 La vostra reazione potrebbe mai essere: “non mi sembra di aver autorizzato questo esperimento”? Non credo. L’Italia si scandalizza ovviamente del trattamento riservato al bambino.

Quello che terrorizza me tuttavia è come questo bambino sia vittima di razzismo due volte. Questo bambino infatti non è considerato vittima di maltrattamenti come lo sarebbe stato se non fosse stato nero ma é considerato semplicemente “vittima di razzismo”. C’è una bella differenza. 
L’accaduto va interpretato diversamente paradossalmente proprio per il suo colore di pelle, diventa razzismo, un altro tipo di problema quindi se ne parla in termini diversi, si punisce in maniera diversa e cinque minuti dopo il bambino ha finito di asciugarsi le lacrime l’Italia cerca di trovare la motivazione in Salvini o il numero di immigrati come se ci fosse una qualche diretta connessione con quello che il bambino ha vissuto.

Il maestro avrebbe pagato di più se invece dell’esperimento sociale avesse proposto un giro di Whisky. Questa é la realtà:  whiskey manette  esperimento sociale con neri come cavie talk show. Parliamone. Quando sono scattate le accuse, il maestro ha pensato bene di accampare una scusa del tipo “era un esperimento sociale”. Probabilmente proprio perché sociologo e in fissa per questi social experiments, ma tant’è. Ora il fatto che questa possa essere considerata una “giustificazione” plausibile, è indice della gravità della situazione. Insomma un “esperimento sociale” con i bambini ricorda molto American Horror Show.

Eppure se si tratta di bambini neri tutto sembra consentito. Insomma, il problema qui non è l’esperimento sociale, ma il fatto che lo stesso non fosse stato approvato. In fondo quante volte abbiamo visto esperimenti sociali di FanPage? Quante volte le teste di cazzo spingono il video dei bambini con la bambola bianca e nera? E quel video in cui dicono a i bambini che loro non sono italiani come i loro compagni? Sempre detto, non si devono usare i bambini come cavie, non solo è ovviamente crudele ma è razzismo di per sé. Ora infatti sembra che il problema sia l’autorizzazione all’esperimento non l’esperimento stesso. Se i genitori avessero dato l’okay non staremmo qui a parlarne e quel bambino si sarebbe vissuto l’umiliazione senza troppi problemi. Perché il problema non è l’esperimento sociale, quello la gente sembra accettarlo a patto sia autorizzato da chi ne fa le veci.

Torniamo all’esempio della bambina. Ora immaginiamo che invece di fare un esperimento sociale sul razzismo il maestro avesse immaginato di fare un esperimento sociale sul maschilismo. Prende una bambina la mette alla finestra e inizia: “Guarda che gonna corta la troietta. Vuoi anche un po’ di rossetto?” “Guardate questa puttanella di una golddigger”. Poi continua con “guarda caso sei esonerata da religione quando gli altri sono tutti maschi” disegnando virgolette in aria quando pronuncia “esonerata”. Pensate che la scusa dell’esperimento sociale sarebbe saltata fuori? Pensate i genitori lo avrebbero permesso? I genitori gli avrebbero strappato la pelle e il resto del paese avrebbe cercato di linciarlo. Questo perché un conto è fare esperimenti sociali con i bambini un altro é fare esperimenti sociali con bambini neri.

Sono convinta che la fuori c’è qualche anti-razzista che magari ci possa anche aver visto un senso nella balla del maestro. Il bambino nero non è fatto di carne ed ossa come la bambina di cui prima, è fatto di carta colorata di nero. Non è un italiano ma un “nuovo” italiano. Ora io non ce l’ho con quel povero cristiano di Mauro Biani ad esempio, ma se la stessa parte anti-razzista continua a disegnare questa immagine, come si può immaginare di sensibilizzare davvero le persone? Non prendiamoci in giro. Il trauma di questo bambino non è percepito come una molestia, come un aggressione come un vero e proprio reato grave. Non permetteremo mai ad un maestro di dare della “troia” ad una bambina.

Stiamo addossando a bambini neri il peso e l’assurdità razzista che è difficile da reggere da adulti. Lo viviamo piuttosto come un problema sociale. La conseguenza di un clima politico. Il caso Foligno. Ma questo non è “razzismo”, non è “Salvini”. È lo stato italiano e ogni cittadino che lo supporta guardando a Foligno come un caso di razzismo e non la scuola degli orrori. Ci si stupisce per i maltrattamenti nella casa di riposo, ma si giustifica tutto sommato l’idea di un esperimento sociale su un bambino nero a patto che sia autorizzato. La prossima volta un supplente chiederà il permesso e non staremo qui a lamentarci. Questa mentalità secondo la quale la “denuncia” o la “sensibilizzazione” al razzismo sia più urgente del provocare attivamente il razzismo stesso, è la stessa che ha fatto pensare al maestro che l’esperimento sociale possa essere tutto sommato una scusa plausibile. Per denuncia o sensibilizzazione si usano persone nere come vere e proprie “cavie” da esperimento. Ora questo supplente viene allontanato o arrestato? Questo è il problema non se fosse autorizzato o meno a fare esperimenti sociali.

Fonte: https://www.facebook.com/profile.php?id=100004142028124

Nota: Io sono Ilaria, ovvero la creatrice del blog Ruminatiolaica. Ogni tanto scrivo, ogni tanto leggo le cose degli altri e quelle che mi sembrano importanti le colleziono per tenerle a mente. Questo è uno di quei casi. Ringrazio Roxanne D. Costa autrice di questo pezzo che secondo me vale la pena di essere letto e meditato.

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I bambini non si toccano

Dividendo i bambini stranieri dai bambini italiani, negando loro lo stesso sostegno economico a parità di bisogno, non si sta solo facendo una cosa che è contro tutti i principi umani, laici o religiosi ma si stanno creando i presupposti di una società divisa. E una società divisa è quella in cui possono meglio fermentare i peggiori incubi. Sarà un miracolo se questi bambini crescendo non svilupperanno sentimenti d’odio. E se accadrà la responsabilità non sarà stata della cultura o della religione ma solo dell’insipienza di simili provvedimenti.

A Lodi fino all’estate del 2017,  la mensa scolastica e l’autobus venivano garantiti in base all’ISEE, un indice che tiene conto dei beni mobili e immobili della famiglia. Per l’anno scolastico 2018-2019, una delibera del comune ha imposto che i genitori nati fuori dall’Unione Europea dovessero presentare anche una dichiarazione di nullatenenza fornita dal paese di origine. Diversi genitori hanno cercato di procurarsi i certificati nei rispettivi paesi di provenienza ma sono difficili o impossibili da ottenere. Il rapporto è di 200 bambini esclusi rispetto a 3 domande con documentazione ritenuta completa o ancora da valutare. Per i bambini tagliati fuori non è stata concessa alcuna agevolazione.

In un commento di questo blog, un lettore abituale ha scritto una cosa che mi ha colpito moltissimo: «Se ci interessa reindirizzare le persone verso qualcosa di diverso dall’infelicità, il dialogo è fondamentale. Recentemente io questo lo considero “essere accomodanti”. Le persone accomodanti non sono lassiste, non si girano e se ne vanno. Accomodano le cose, assecondano un movimento per spingerne un altro».

Non spenderò neanche una parola di odio perché è inutile. Cercherò di essere “accomodante” cioè di aggiustare una cosa rotta: l’amore per i bambini. Non spenderò tempo a guardare quello che è successo. Farò il possibile per cambiarlo aderendo alla campagna Colmiamo la differenza della Caritas di Lodi. Se volete farlo anche voi dovete avere pazienza perché il loro sito è subissato dai contatti, in questo momento è difficile da raggiungere.

Se non riuscite a raggiungerlo provate con la pagina Facebook dell’iniziativa che fornisce informazioni per aiutare i bambini a frequentare la scuola e i suoi servizi – mensa, pre e post scuola, scuolabus – senza essere discriminati.

 

 

 

 

 

Ma aspetta… Il Coordinamento Uguali Doveri  fa sapere che a oggi – domenica 14 ottobre 2018, ore 15 – hanno ricevuto donazioni per un importo superiore ai 60.000 euro. Le domande di accesso agevolato al Comune di Lodi da parte di persone non comunitarie sono state 316: 177 per la mensa, 75 per lo scuolabus, 43 per pre e post scuola, 23 per asilo nido. Per coprire queste richieste 220.000 occorrono euro. L’importo oggi raggiunto garantisce l’accesso ai bambini esclusi dai servizi scolastici almeno fino a fine dicembre 2018. In quella data l’associazione conta sul fatto che il ricorso presentato al Tribunale di Milano avrà annullato il provvedimento che esclude i bambini.

Che sorpresa: una campagna appena aperta e già arrivata allo scopo. Eh già, a dispetto di quello che si racconta siamo tantissimi. La stessa iniziativa è sostenuta dal progetto You Hate We Donate che si propone, come spiega il titolo, di risponde con un gesto concreto e positivo. Molti blogger, utenti social, famiglie stanno sostenendo la campagna che serve a pagare le spese per i bambini esclusi.

Oggi a pranzo ne abbiamo parlato e abbiamo deciso tutti insieme di dare il nostro aiuto concreto in termini di contributo economico a questi bambini e alle loro famiglie. Ci mettiamo anche la faccia: Ilaria Sabbatini, Marcantonio Lunardi e Marisa Bonaldi. Il motivo è semplice e l’ha detto mia suocera: i bambini non si toccano.

Ora le donazioni sono chiuse ma potete tenere d’occhio la campagna Colmiamo la differenza, oppure condividere questo post, farne uno sul vostro blog o sul vostro account social, parlarne con amici, discuterne in famiglia. Potete scrivere al comune di Lodi oppure partecipare alla manifestazione. Non vi fate convincere dall’idea che non possiamo fare niente perché nel momento in cui state leggendo queste parole invece di dedicarvi ad altro, in realtà, voi state già reagendo ❤

Aggiornamento: La raccolta di fondi è sospesa

Il Coordinamento Uguali Doveri  fa sapere che a oggi – domenica 14 ottobre 2018, ore 15 – abbiamo ricevuto donazioni da più di 2.000 persone che hanno contribuito, con bonifici e pagamenti su PayPal, a raccogliere circa 60.000 euro.

Si può contribuire

• partecipando al presidio che si terrà in Piazza Broletto, sotto il municipio di Lodi, martedì 16 ottobre dalle 8.30 alle 20.30 e alle altre iniziative che saranno organizzate
• divulgando le informazioni che pubblicheremo sulla pagina facebook del Coordinamento Uguali Doveri
• scrivendo alla Sindaca sara.casanova@comune.lodi.it, al Vicesindaco lorenzo.maggi@comune.lodi.it, all’Assessore ai servizi sociali sueellen.belloni@comune.lodi.it e all’Assessore all’istruzione giuseppina.molinari@comune.lodi.it per chiedere l’annullamento delle modifiche introdotte sul Regolamento

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Un abbraccio a Cavallogoloso e a Luca.

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Scommettere sulla fiducia

Chi mantiene una vita è come se mantenesse un mondo intero (Talmud)
Chi avrà vivificato una persona sarà come se avesse dato vita all’umanità intera (Corano)
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Oggi volevo ricordare la giornata della vittime dell’immigrazione. Così ho deciso di usare le frasi del Talmud e del Corano che tanto mi avevano colpito associandovi una foto. Volevo solo fare un post su Facebook ma poi ho cominciato a riflettere su cosa mi aveva portato proprio a questa scelta e ho pensato che fosse un processo interessante.

Cercavo un’immagine che rappresentasse il rovescio positivo della medaglia, qualcosa che puntasse su quello che si può fare e che rappresentasse gli effetti concreti ed emozionali di un comportamento aperto. Perché noi siamo ammalati di paura e la paura ci chiude.

Si siamo ammalati di paura e lo siamo tutti. Paura del futuro, paura della povertà, paura dell’altro simile a noi, paura di chi ha un’opinione diversa, paura del dialogo, paura dell’autocritica, paura delle sfumature, paura di chi non è perfettamente allineato, paura dei dubbi, paura delle domande, paura gli uni degli altri, paura del diverso, paura del migrante, paura delle istituzioni, paura in tutte le sue forme. Talmente tanta paura da congelarci nelle nostre posizioni reciproche senza più poterci muovere.

Ho scelto una donna delle istituzioni e non è un caso. Prima di tutto perché le istituzioni possono avere un approccio aperto, non solo sanzionatorio o censorio. Poi perché si tratta di una donna a capo di un istituto importante, per mostrare che questo è possibile, che è già accaduto e accadrà ancora.

Questa è una donna che allatta una bambina, in una questura. Un corto circuito molteplice. Una nativa italiana e una no. Insieme, in un gesto profondamente intimo ma anche doloroso. Favour in questa immagine aveva nove mesi ed era appena rimasta orfana della madre che la accompagnava nella traversata ed era incinta di un altro bambino.

Così è successa la cosa più naturale e umana del mondo: è scattata la reazione di protezione. Un essere umano fragile e in pericolo viene assistito da un altro essere umano che lo protegge, lo nutre e lo consola.

Non è un’esclusiva delle anime buone e tanto meno delle madri: tutta questa roba ce l’abbiamo dentro di noi. La paura ce la fa sotterrare in fondo alle coscienze, sotto uno strato di motivazioni varie, ma ce l’abbiamo. Ce l’abbiamo tutti. E non perché siamo buoni ma perché siamo umani.

Umani, ovvero esseri senzienti dotati di auto-consapevolezza, figli dell’istinto di sopravvivenza e di un flusso di cultura continuo che ci collega alla storia della nostra stessa fragilità. Ecco perché oggi non griderò al razzismo e non userò le foto di morti annegati che pure conosco molto bene.

Voglio provare a cambiare stile di comunicazione. Semplicemente perché la manifestazione dell’empatia umana è già accaduta molte volte. E anche se spesso ce lo dimentichiamo, questo dimostra in modo inequivocabile che accadrà di nuovo e che potrà coinvolgere ciascuno di noi.

Non è stato semplice elaborare questo nuovo approccio e non sono neanche sicura che vada bene. In ogni caso ha significato una lunga riflessione sul modo in cui ci relazioniamo, sul mio stesso modo di comunicare, sul perché è così difficile ascoltare gli altri quando non sono il nostro specchio identico.

Ha significato cambiare non solo linguaggio ma anche stato d’animo e propensione verso gli altri, soprattutto verso coloro che non la pensano come me. Ha significato capire la quota di violenza che mi abita quando presumo che negli altri non ci sia empatia umana. Ecco perché oggi voglio scommettere sul contrario. Scommettere sulla fiducia.

Ilaria Sabbatini

Nella foto: Maria Volpe, capo della questura di Agrigento, che si prende cura della piccola Favour, maggio 2017

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Sul ddl Pillon

Dal blog di Beizauberei un buon punto di partenza per riflettere sul decreto Pillon

bei zauberei

Comincia ora la discussione del ddl Pillon, un disegno di legge teso a riformulare le norme della separazione tra coniugi in particolare in presenza di figli. Il disegno di legge prevede alcuni cambiamenti salienti che qui vorrei sintetizzare

– obbligo della mediazione familiare, in presenza degli avvocati di parte per avviare la separazione
– abolizione dell’assegno di mantenimento, con divisione delle spese fatte in base al riscontro delle prove di pagamento
– divisione rigorosa a metà del tempo passato con i figli.
– Un indennizzo per il genitore che lascia all’altro la casa di proprietà

E nel dettaglio si riscontra:
– cambiamento dell’accordo solo previo accordo della coppia
– nessuna osservazione aggiuntiva o casistica particolare quando i figli in questione dovessero essere molto piccoli, per esempio sotto i tre anni
– nessuna rilevanza rispetto i desideri espressi dai minori
– nessuna possibilità di ricorrere al tribunale di fronte all’inadempienza di…

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Imparerò ad anticipare le sue mosse

“C’è stato un momento in cui ho pensato: “se adesso muoio sono una donna libera”. I momenti felici ci sono stati all’inizio, se no non mi sarei innamorata. Pensavo: “io lo posso cambiare”.

I violenti noi non possiamo cambiarli. Ma tu pensi: “domani sarò brava, non parlerò, cucinerò bene, stirerò bene le camicie. Non risponderò. Imparerò ad anticipare le sue mosse”.

Mi sdoppiavo. La cosa che mi faceva più male era quando gli altri assistevano alla violenza e tacevano.

Poi nel duemila undici, dopo nove anni di silenzio e di violenze contro di me, contro i miei genitori e un tentativo di strangolamento, ho denunciato mio marito.

Io sono una sopravvissuta, un numero in una statistica. Altre meno fortunate di me non ce l’hanno fatta e non ci sono più”.

 

Grazia Biondi

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Il mio (non) nemico

Oggi ho avuto una discussione, la solita di tante altre volte, tutte le volte con le stesse domande e le stesse risposte. «Non possiamo aiutarli a casa loro?» chiede il mio interlocutore. «Lo dico per loro, ci sono tanti bambini che sono qui senza nessuno, restano soli».

Ho fatto esercizio di pazienza. Non mi sento migliore del mio interlocutore perché semplicemente non lo sono, non in questo contesto. Ascolto i suoi dubbi, le sue paure, il suo non arrivare a fine mese. Cose vere, cose che non meritano il mio disprezzo. Se lo disprezzassi snobberei qualcuno che si sente mancare il terreno sotto i piedi e ha paura di perdere gli appigli su cui si è sempre retto. Non rispetterei la sua vita di lavoro e sacrifici. Non terrei conto della sua generosità che invece conosco.

Chiedo cosa lo turba. Mi dice che non lo sa, che non se ne intende. Ipotizza che forse basterebbe raccogliere una decina di euro a testa per aiutarli a casa loro. Non reagisco, non sbraito. Penso in silenzio. Poi gli chiedo dell’ultima spesa che ha fatto, quanto è costata e piano piano si comincia a ragionare di realtà, di numeri, di cose concrete. Riesce a capire le proporzioni. Gli chiedo se ci tiene davvero ai bimbi soli in questo paese straniero. Mi dice di sì e sono certa che ci crede. È una persona normale, come tante altre: né cattiva né buona. È preoccupato, spaventato non capisce come agire né cosa lo aspetta. Ha paura del futuro.

Gli dico che se è preoccupato per i minori soli potrebbe regalare una parte di quello che non gli serve. Chessò, dei vestiti, una piccola cifra, una spesa alimentare. È una strategia per farlo ragionare. Risponde che non gli avanza nulla e anche su questo so che non mente. Gli dico che io aiuto qualcuno “a casa sua”. Mi chiede informazioni.

Mi chiede come si chiama quella persona e io gli dico un nome femminile. Abbiamo voluto sostenere una ragazza, ha 15 anni, va a scuola, la aiutiamo per l’istruzione e per le cose quotidiane di cui ha bisogno. Abbiamo la sua foto: è una spilungona con gli occhi grandi, è nera. Che lo sia è un caso. Non ci siamo fatti tante domande: è capitato che sapessimo di questi ragazzi rimasti orfani e ci siamo proposti così, semplicemente.

Lei sa che ci siamo, ci ha scritto. È una ragazzina. Una ragazzina orfana che sta studiando. È il futuro. Sapere che lei esiste mi rassicura. Lei è una scommessa per i tempi che verranno e che spero siano più clementi con tutti noi.

Non è lei il mio nemico, come non lo sono quelli che inseguono una speranza in un paese straniero. Il mio nemico è la mancanza di lavoro, l’instabilità economica, le pensioni che non arrivano a fine mese, i soldi che non bastano, i servizi che si riducono.

Non è lei il mio nemico, lei è il mio canale di comunicazione col mondo, quello che c’è al di là delle paure di tutti noi. Quello in cui ci si rende conto che le differenze non sono tra bianchi e neri, europei e immigrati, ma solo tra chi può permettersi una vita decente e chi no.

 

Ps.

«Il complottista non interagisce con chi smonta le bufale. In uno studio del 2015 effettuato su 54 milioni di utenti di Facebook, abbiamo dimostrato che solo un utente su dodici interagisce con voci contraddittorie. Chi aderisce a una teoria del complotto entra in una comfort zone in cui nessuno contraddice le mie idee. A quel punto, ogni tentativo di smentire una bufala porta a polarizzare le posizioni, e a radicalizzarle» (…).

«Forse una chiave sta nel dimostrare empatia con l’interlocutore».

Quando le bufale disintegrano il dialogo

Quando le bufale disintegrano il dialogo  PDF

 

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Bullismo: parlarne sì ma seriamente

Quello leggerete qui è il risultato di una sfida. Non troverete impressioni individuali ma solo dati statistici e opinioni di persone professionalmente coinvolte dal tema del bullismo: psicologi, psichiatri, psicoterapeuti, educatori.

Io che scrivo non sono professionalmente qualificata in questo ambito: sono un’umanista stanca di una situazione in cui hanno preso la parola tutti – anche quelli che non avevano niente da dire – mentre gli unici che sono in grado di dire qualcosa di qualificato non sono stati ascoltati o nel migliore dei casi hanno ottenuto spazi risicati. Io non mi accontento più di un commento generalista per questo sono andata alla ricerca di letture utili, in una sorta di esperimento condiviso attuato attraverso il mio blog. Peraltro è un esperimento in evoluzione dunque incoraggio i lettori a lasciare altre eventuali indicazioni nei commenti.

Ruminatiolaica è un piccolo blog ma grazie all’aiuto dei miei contatti social sto provando a mettere insieme una rassegna che entri più addentro al problema e lo faccia in modo appropriato. Perché quella del bullismo non è una questione da opinionisti tuttologi ma ha implicazioni talmente profonde da sviluppare conseguenze a lungo termine che ci riguardano tutti.

Una volta tanto, invece di intervistare il personaggio mediatico di turno, si potrebbe dare la priorità a una/o psicoterapeuta, se non altro per avere un punto di vista che esuli dai luoghi comuni e dalle impressioni individuali. Se il problema del bullismo è sentito in modo così urgente sarebbe opportuno privilegiare opinioni qualificate. E visto che per ora non viene fatto proviamo a farlo noi, senza alcuna pretesa di esaustività.

Di seguito riporterò articoli e interviste che mi sono state segnalate da persone che lavorano nell’ambito di competenza della psicologia, della psicoterapia e dell’educazione.

Dati statistici, Fonte CENSIS

«Processi formativi» del 50° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese/2016

Roma, 2 dicembre 2016 – Bullismo e cyberbullismo, fenomeni diffusi nella parziale consapevolezza di giovani e famiglie. Il 52,7% degli 11-17enni nel corso dell’anno ha subito comportamenti offensivi, non riguardosi o violenti da parte dei coetanei. La percentuale sale al 55,6% tra le femmine e al 53,3% tra i ragazzi più giovani, di 11-13 anni. Quasi un ragazzo su cinque (19,8%) è oggetto di questo tipo di soprusi almeno una volta al mese, eventualità più ricorrente tra i giovanissimi (22,5%). Su internet sono le ragazze a essere oggetto in misura maggiore degli attacchi dei coetanei cybernauti (24,9%). Il 47,5% degli oltre 1.800 dirigenti scolastici interpellati dal Censis indica i luoghi di aggregazione giovanile come quelli in cui si verificano più frequentemente episodi di bullismo, poi il tragitto casa-scuola (34,6%) e le scuole (24,4%). Ma è in internet che il bullismo trova ormai terreno fertile, secondo il 76,6%. Nel corso della propria carriera il 75,8% dei dirigenti scolastici si è trovato a gestire più casi di bullismo: il 65,1% di bullismo tradizionale e il 52,8% di cyberbullismo. Per l’80,7% dei dirigenti, quando i loro figli sono coinvolti in episodi di bullismo, i genitori tendono a minimizzare, qualificandoli come scherzi tra ragazzi, e solo l’11,8% segnala atteggiamenti collaborativi da parte delle famiglie, attraverso la richiesta di aiuto della scuola e degli insegnanti. Il 51,8% dei dirigenti ha organizzato incontri sulle insidie di internet con i genitori, avvalendosi prevalentemente del supporto delle Forze dell’ordine (69,4%) e di psicologi o operatori delle Asl (49,9%). All’attivismo delle scuole non ha corrisposto però un’equivalente partecipazione delle famiglie, che è stata bassa nel 58,9% dei casi, media nel 36% e alta solo in un marginale 5,2% di scuole.

L’iniezione digitale nella scuola italiana. Il Piano nazionale scuola digitale (Pnsd) sta entrando nel suo secondo anno di operatività, ma emergono alcune criticità. Il principale rischio, segnalato dal 77,2% dei 1.221 dirigenti scolastici interpellati nell’ambito di una indagine Hewlett-Packard-Censis, è quello di un’offerta formativa inadeguata o insufficiente. Al secondo posto (70,9%) si colloca il rischio che l’entusiasmo tecnologico metta in ombra la rivisitazione dei modelli pedagogici, ovvero che le tecnologie siano utilizzate nelle scuole con un approccio didattico tradizionale. Quasi la metà dei dirigenti (47,6%) esprime il dubbio che il Piano accentuerà le disparità tra le scuole «forti», con esperienze pregresse, buona dotazione tecnologica e docenti formati all’uso delle nuove tecnologie, e le scuole che si affacciano ora al mondo digitale. Il 40% dei dirigenti delle scuole del Mezzogiorno fa riferimento a una «scuola digitale a due velocità».

La capacità inclusiva dell’Iefp degli allievi con disabilità. Il sistema dell’istruzione e formazione professionale (Iefp) si rivolge ai giovani che per l’assolvimento dell’obbligo d’istruzione-diritto/dovere all’istruzione e alla formazione optano per percorsi di breve durata e professionalizzanti. In soli tre anni, a partire dal 2011-2012 gli iscritti al triennio sono cresciuti del 56,5%, e nel 2013-2014 sono in totale 316.000. Tra il 2012 e il 2014 gli iscritti con disabilità ai percorsi triennali risultano essere tendenzialmente in crescita, essendo passati dai 14.340 del 2012-2013 ai 17.117 del 2014-2015. Cresce anche la loro incidenza sul totale degli iscritti, passata dal 5,2% al 6,5%: valori significativamente più elevati di quelli rilevabili nel primo triennio di scuola superiore, dove nel 2012-2013 e nel 2013-2014 la presenza di alunni con disabilità è stata pari rispettivamente al 2,1% e al 2,2%. Sono i corsi per operatore della ristorazione quelli che riscuotono il maggiore gradimento (32%), seguiti a distanza da quelli per operatore del benessere (8,8%) e operatore amministrativo-segretariale (7,1%). Sono soprattutto le istituzioni formative ad accogliere questa tipologia di allievi (7,5% degli iscritti), mentre nei percorsi Iefp attivati nelle scuole la quota si attesta al 6%. Le istituzioni formative svolgono nei confronti dei disabili una preziosa funzione di inclusione. Ma l’approccio formativo serve anche per l’acquisizione di competenze di base e specialistiche in grado di fornire professionalizzazione e occupabilità.

L’attrattività dell’Alta formazione artistica e musicale, nonostante l’attesa della riforma. Successo per l’Alta formazione artistica, musicale e coreutica (Afam): considerando sia i corsi pre-accademici, sia i corsi di livello terziario, si è passati dai 54.984 iscritti del 1999-2000 agli 87.003 del 2015-2016 (+58,2%). Un incremento conseguente all’attivazione dei corsi accademici riformati: tra il 2008-2009 e il 2015-2016 gli iscritti a corsi di livello terziario sono passati da 48.281 a 63.054 (+56,5%). Un’attrattività esercitata anche in ambito internazionale, grazie alla tradizione e al prestigio delle discipline artistiche in Italia. Per la sola fascia accademica, gli stranieri iscritti sono 10.710 nell’a.a. 2015-2016, con un incremento del 10,7% sull’anno precedente e un peso sul totale degli iscritti del 17% (il corrispondente indicatore per il sistema universitario nell’insieme è pari al 4,3% nel 2014-2015). Le strutture più frequentate sono le Accademie di belle arti statali e non, con il 22,3% di stranieri iscritti ai corsi di I e II livello, pari al 70,3% degli stranieri che scelgono l’Italia per conseguire un titolo terziario in campo artistico-musicale. Secondo i dati del 2014-2015, gran parte del successo estero dell’offerta Afam dipende dal consistente flusso in ingresso di cinesi (circa il 52% del totale). Secondo i direttori Afam interpellati dal Censis, le principali criticità riguardano la mancata emanazione dei decreti attuativi della legge 508/99 (per l’84,5%), l’insufficienza dei fondi disponibili (59,2%) e le modalità di reclutamento obsolete e non meritocratiche (53,5%). Va garantita la possibilità di reclutare docenti di prestigio (per il 70,7%), rafforzato il collegamento con il mondo del lavoro (68,3%), migliorati i servizi di accoglienza e diritto allo studio (63,4%). Per i direttori delle Accademie di belle arti è urgente avviare i dottorati di ricerca, completando l’offerta formativa e sviluppando le attività di ricerca (68,8%). Il 56,3% di loro vedrebbe con favore lo sviluppo di un’offerta di corsi a pagamento per gli stranieri interessati.

I ridotti sbocchi professionali, principale causa di insoddisfazione delle scelte universitarie. La ridotta attrattività dell’istruzione universitaria è ormai un fenomeno di lungo periodo. Il cambio di segno delle immatricolazioni nell’anno accademico 2014-2015 (+1,1% sull’anno precedente) fa sperare in una inversione di tendenza. A quattro anni dal conseguimento del titolo, il 68,4% dei laureati ha indicato l’interesse disciplinare quale principale motivo per la scelta del percorso universitario intrapreso, seguito a distanza dalla convinzione che l’immatricolazione al corso di laurea preferito garantiva buone prospettive lavorative (16,3%). Tuttavia, il 32,4% oggi non si riscriverebbe allo stesso corso. Circa il 20% di chi disconosce la scelta fatta individua la causa nella maturazione di nuovi interessi, ma quasi il 60% è insoddisfatto per gli sbocchi professionali della laurea conseguita (e il livello di insoddisfazione è superiore di oltre 8 punti percentuali tra le laureate rispetto ai colleghi maschi). La scelta universitaria, anche se causa di qualche rimpianto, resta pur sempre un’esperienza positiva per i più. L’86,1% di chi non si iscriverebbe di nuovo al corso di studi prescelto dichiara, nonostante tutto, di volersi riscrivere.


Dati statistici, Fonte ISTAT

Comportamenti offensivi e violenti tra i giovanissimi: Bullismo

Nel 2014, poco più del 50% degli 11-17enni ha subìto qualche episodio offensivo, non rispettoso e/o violento da parte di altri ragazzi o ragazze nei 12 mesi precedenti. Il 19,8% è vittima assidua di una delle “tipiche” azioni di bullismo, cioè le subisce più volte al mese. Per il 9,1% gli atti di prepotenza si ripetono con cadenza settimanale.

Hanno subìto ripetutamente comportamenti offensivi, non rispettosi e/o violenti più i ragazzi 11-13enni (22,5%) che gli adolescenti 14-17enni (17,9%); più le femmine (20,9%) che i maschi (18,8%). Tra gli studenti delle superiori, i liceali sono in testa (19,4%); seguono gli studenti degli istituti professionali (18,1%) e quelli degli istituti tecnici (16%).

Le vittime assidue di soprusi raggiungono il 23% degli 11-17enni nel Nord del paese. Considerando anche le azioni avvenute sporadicamente (qualche volta nell’anno), sono oltre il 57% i giovanissimi oggetto di prepotenze residenti al Nord.

Tra i ragazzi utilizzatori di cellulare e/o Internet, il 5,9% denuncia di avere subìto ripetutamente azioni vessatorie tramite sms, e-mail, chat o sui social network. Le ragazze sono più di frequente vittime di Cyber bullismo (7,1% contro il 4,6% dei ragazzi).

Le prepotenze più comuni consistono in offese con brutti soprannomi, parolacce o insulti (12,1%), derisione per l’aspetto fisico e/o il modo di parlare (6,3%), diffamazione (5,1%), esclusione per le proprie opinioni (4,7%), aggressioni con spintoni, botte, calci e pugni (3,8%).

Il 16,9% degli 11-17enni è rimasto vittima di atti di bullismo diretto, caratterizzato da una relazione vis a vis tra la vittima e bullo e il 10,8% di azioni indirette, prive di contatti fisici. Tra le ragazze è minima la differenza tra prepotenze di tipo “diretto” e “indiretto” (rispettivamente 16,7% e 14%). Al contrario, tra i maschi le forme dirette (17%) sono più del doppio di quelle indirette (7,7%)


 

 Contributi

Sergio Astori, Narcisisti di oggi (e di domani?)  

Sergio Astori, Psichiatra e docente presso la Facoltà di Psicologia dell’Università Cattolica di Milano

Narciso sta prendendo il posto di Edipo nelle menti e nei cuori dei nostri giovani? Incuriosisce che «per dirsi qualche cosa» i ragazzi degli anni Sessanta, secondo il ritornello composto da Franco Migliacci (1963), dovessero «farsi mandare dalla mamma a prendere il latte», mentre quelli di oggi «per comandare» debbano andare «in tangenziale» (Fabio Rovazzi, Daniele “Danti” Lazzarin, 2016). I “nati nel nuovo millennio” sono descritti dai mass media come autoreferenziali, poco motivati, impacciati nel confronto con mamme ipercinetiche e padri latitanti: i cosiddetti Papà-Pig, perché il padre di Peppa Pig non sa fare quasi nulla e la famiglia lo dimentica anche al picnic. Nella rappresentazione popolare sembrano giovani orfani di genitori, consolabili solo col piacere chimico. «I tuoi genitori ti han sbattuto fuori, ti chiamo hai la batteria scarica, fatti ogni singola droga, per asciugarti ogni singola lacrima» rappa Gué Pequeno (2013). Sono davvero così fragili i pronipoti di Gianni Morandi? Sui mezzi pubblici incrocio gruppi di studenti che sanno alternare la commozione per il film Disney visto la sera prima a risatine maliziose su quanto “tira la foto di un tipo” sui social. 

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Patrizia Fistesmaire, La tensione della cosa pubblica*

* l’articolo in versione integrale è stato concesso dall’autrice a questo blog

Patrizia Fistesmaire, Dirigente Psicologa e Psicoterapeuta Responsabile del Consultorio della Zona Piana di Lucca

L’episodio di Lucca è un evento triste perché mette tutti gli adulti di fronte ad un’inquietudine esistenziale ove si tende a porsi nei panni del professore più che del giovane. Non siamo di fronte ad un conflitto generazionale ma ad un atto che segue una logica differente dalla contestazione e dalla lotta tra il giovane e l’adulto, tra lo studente e la scuola, per l’affermazione di sé e di diritti considerati dei principi per cui cercare uno scontro. Preoccupa la modalità di aggressione, non soltanto l’aggressione in sé. L’umiliazione e la spettacolarizzazione di questa (…). Immortalare un’immagine e diffonderla significa dargli una vita propria che spesso sfugge sia all’intenzione che alla consapevolezza di chi lo ha fatto. Ma gli adolescenti di oggi hanno nuovi bisogni rispetto al passato poiché sono figli di una società notevolmente mutata.

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Ma première pensée a été de me demander si la violence chez l’enfant était un symptôme. C’est souvent ma méthode – partir de la première idée qui me vient en tête, sans juger si elle est bonne ou mauvaise. C’est un principe qui peut s’autoriser de la psychanalyse (…). Mon point de départ a donc été de me demander si la violence chez l’enfant était un symptôme, et pourquoi. Car qui dit symptôme en psychanalyse dit déplacement de la pulsion, ou du moins, dans les termes freudiens, substitution d’une satisfaction de la pulsion – ce qui, en lacanien, peut se traduire par jouissance (…). Voilà la question que je me suis posée : l’émergence de la violence, n’est-ce pas le témoignage qu’il n’y a pas eu de substitution de jouissance ?

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 Con il bullismo abbiamo sempre usato l’approccio sbagliato?

Il Post

La strategia di Pikas si chiama “metodo dell’interesse condiviso” e oltre ad essere applicato nei paesi scandinavi da circa trent’anni viene utilizzato in via sperimentale in alcuni paesi francofoni come Francia, Belgio e Svizzera, e anche in Australia. Due ricercatori australiani hanno condotto un’indagine su questo metodo dimostrando nel 2010 che, ovunque sia stato messo in pratica, ha raggiunto ottimi risultati. Il metodo parte dal presupposto che le molestie e il bullismo siano un fenomeno di gruppo: ci sono studenti il ​​cui coinvolgimento è maggiore, altri che partecipano in modo indiretto (ad esempio ridendo) e poi c’è il resto della classe che resta a guardare.

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Bullismo: genitori, che fate?

intervista a Gustavo Pietropolli Charmet, psichiatra e direttore del consultorio sull’adolescenza dell’istituto “Minotauro”.

Altroconsumo

Il bullismo è un fenomeno sottostimato, come risulta nella nostra inchiesta?

Ė poco conosciuto nella sua definizione specifica, c’è invece una banalizzazione del significato della parola bullismo: di solito i genitori lo riferiscono genericamente a dispetti e prevaricazioni o a normali difficoltà che i figli possono incontrare in età scolastica.

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Ersilia Menesini è Professoressa Ordinaria di Psicologia dello sviluppo presso l’Università degli Studi di Firenze. Nel monografico estivo di Psicologia e scuola (luglio/agosto 2015) Il bullismo a scuola. Come prevenirlo, come intervenire si rivolge agli insegnanti, agli psicologi scolastici, ad altri professionisti che lavorano in collaborazione con la scuola e ai genitori.

Il libro nasce per dare una visione più completa e aggiornata del fenomeno bullismo, descrivere e approfondire alcune strategie per la prevenzione e il contrasto del problema e offrire strumenti utili per intervenire in modo efficace.

 

 


Le  letture

 Se i genitori sono degli eterni adolescenti come fanno i ragazzi a crescere? Come si può aiutare un figlio se si preferisce il ruolo di madri-sorelle o padri-fratelli? Nel corso degli ultimi cinquant’anni siamo passati da una generazione di genitori autoritari a una generazione di genitori deboli. Ma la soluzione non è tornare indietro. Secondo Ammaniti è necessario cambiare marcia, non confondere l’autorità con l’autoritarismo. Non si tratta di ricreare vecchie barriere, ma di capire che la separazione serve a salvaguardare le differenze che caratterizzano ogni essere umano. Leggere l’anteprima
 I servizi di psichiatria vedono crescere il numero di giovani che accusano forme di disagio psichico. Un fatto allarmante, che più che il segnale di un aumento delle patologie, è il sintomo di un malessere generale che permea la società. Un fenomeno che costringe a interrogarci su che cosa si basi la nostra società, su quali siano le cause delle paure che ci portano a rinchiuderci in noi stessi. I problemi dei più giovani sono il segno visibile della crisi della cultura occidentale fondata sulla promessa del futuro come redenzione laica. Si continua a educarli come se questa crisi non ci fosse, ma la fede nel progresso è sostituita dal futuro cupo, dalla brutalità che identifica la libertà con il dominio di sé, del proprio ambiente, degli altri.
 Après l’enfance, c’est le temps des métamorphoses. Après l’enfance, il faut trouver de nouveaux mots, de nouvelles façons de dire, d’écrire – sur les murs, sur le corps parfois – pour faire trace de sa présence. Ou bien effacer toute trace de ce corps en trop. Après l’enfance, on s’affronte à des terreurs insoupçonnées, à des attraits naissants, et il n’y a pas de mode d’emploi qui dise comment faire. Alors, on s’avance à plusieurs, en bande ou avec la meilleure copine. D’autres appuis se proposent, combien plus périlleux et radicaux parfois.  Après l’enfance, nous ne pouvons plus nous contenter de tendre aux jeunes gens et aux jeunes filles déboussolés le miroir d’une adolescence qui ne reflète que nos rêves ou nos peurs – de parents, d’adultes, de citoyens.
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#quellavoltache, il libro sulle molestie

Pochi mesi fa, donne di tutte le condizioni hanno raccontato sui social network le storie delle molestie subite. A qualche mese di distanza da quel racconto collettivo una della cose più interessanti da registrare sono le reazioni in senso contrario. C’è infatti qualcuno che continua a ripetere ossessivamente di finirla con questa lagna che relega le donne a un’immutabile ruolo di vittima. Sarebbe una posizione condivisibile se non fosse che manca qualsiasi relazione tra il racconto collettivo, frutto di un atto di ribellione, e il processo di vittimizzazione.

Raccontarsi pubblicamente è un atto di coraggio: lo si fa perché si è arrabbiate e perché si vuole smascherare il gioco di un rispetto formale, e non sostanziale, propinato a beneficio dello status quo. È talmente evidente la natura combattiva dell’azione che si rimprovera al movimento di essere troppo aggressivo, come è accaduto nella lettera delle attrici francesi che – giocando con la semantica dell’ovvio – rivendicavano la «libertà di essere molestate». Se da una parte si rinfaccia la lagna e dall’altra l’aggressività, è chiaro che esiste un problema nei confronti delle donne che rompono il silenzio. Cosa ci si aspetta dalle molestate: che siano più arrabbiate o più tranquille, più dure o più remissive, che parlino o che tacciano? Perché in qualunque modo si muovano pare che arrechino fastidio alla cattiva coscienza di una qualche fetta dell’opinione pubblica.

Nell’arcipelago di varia umanità delle posizioni avverse, la più surreale è comunque l’accusa di moralismo che vorrebbe ridurre un fenomeno internazionale di massa a una questione di perbenismo da boudoir. Ho parlato con molte delle donne che hanno rotto il silenzio e sarà forse un caso ma dicono tutte di amare il sesso. Ciò che non amano è di essere strusciate, palpate, baciate, approcciate contro la loro volontà. Quando la loro volontà è protagonista e partecipe, non solo vogliono essere strusciate, palpate, baciate e approcciate: vogliono a loro volta strusciare, palpare, baciare e tutto quanto segue. Aderire alla campagna degli hashtag non ha significato promuovere la castità e il cilicio, bensì scegliere una sessualità positiva e propositiva, consapevole e partecipe.

Per l’Italia, l’hashthag #quellavoltache è nato il 12 ottobre 2017 su proposta della giornalista Giulia Blasi, pochi giorni prima della campagna americana #metoo. Anche se ancora nessuno lo sapeva, in quel momento era nato un racconto corale che grazie alla passione di un gruppo di donne avrebbe preso la forma del libro. Il racconto non è mai stato proposto come atto di giustizia sommaria e tanto meno come caccia alle streghe. Della caccia alle streghe manca anzi la cosa essenziale: le donne che hanno raccontato le molestie, tramite gli hashtag, hanno messo la propria faccia e la propria storia ma non il nome del molestatore.

Per una persona che ha subito molestie il primo problema da affrontare non è quello(pur importantissimo) di essere creduta ma di capire cosa le sta succedendo. Salvo comportamenti plateali, si stenta a capacitarsi: il confronto con le altre serve a capire che si è vissuta la stessa vicenda, a dare un nome e una spiegazione alla propria storia. Incrociare le informazioni aiuta a rendersi conto degli eventi e a prendere interamente coscienza del proprio vissuto. Condividere i racconti delle molestie subite significa mettere a disposizione i materiali necessari per confrontarsi con queste storie, per conoscerne gli schemi, per individuarne i comportamenti. Significa creare uno strumento di autodifesa e di critica sociale, gli aspetti più importanti di #quellavoltache. Ora sta ai lettori raccogliere l’eredità di queste storie con tutte le domande che pongono.

Ilaria Sabbatini

Il libro si può acquistare qui: http://www.manifestolibri.it/shopnew/product.php?id_product=770

Presentazione del libro #quellavoltache Casa delle donne di Roma, 9 marzo 2018 con Giulia Blasi, Anna Lanave e Marianna Peracchi, curatrici del Libro e Miriana Trevisan (video di Plautilla Bricci)

PresaDiretta: Sesso e potere

 

PresaDiretta propone un reportage girato tra l’Italia e gli Stati Uniti sulle molestie sessuali, gli abusi e le disparità uomo donna. Un viaggio straordinario in un mondo che sta cambiando, fino a ieri le donne reagivano col silenzio, oggi non più. Tutto è cominciato a Hollywood. Uno dei più grandi scandali nel mondo del cinema, quello che ha travolto il grande produttore Harvey Weinstein, accusato da decine di attrici, modelle e impiegate di abusi, stupri e molestie sessuali.

 

Cultura Commestibile 253 (marzo 2018), p. 21

 

 

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Non vi salverete solo perché siete italiani

La mattina di sabato 3 febbraio 2018 un uomo di Tolentino raggiunge Macerata, percorre in auto una via cittadina e spara dal mezzo in corsa. Colpisce sei persone non italiane. All’inizio non si sapeva nemmeno se fossero uomini o donne, si sapeva solo che erano neri. Piano piano arrivano anche i nomi delle vittime: Gideon Azeke, 25 anni, incensurato; Jennifer Odion, 29 anni, incensurata; Mahamadou Toure, 28 anni, incensurato; Wilson Kofi, 20 anni, incensurato; Omar Fadera, 23 anni, incensurato; Festus Omagbon, 32 anni, incensurato.

Per l’omicidio di Pamela Mastropietro, italiana, è indagato Innocent Oseghale, nigeriano, spacciatore. Per la tentata uccisione di sei persone, africane, è reo confesso Luca Traini, italiano, neofascista. Sono coetanei, reclusi nello stesso carcere. E ora guardate le facce delle vittime. Sono ragazzi. Tutti meritano la stessa giustizia, la stessa solidarietà, la stessa compassione. L’unica vera differenza è tra vittime e criminali.

Chi giustifica politicamente Traini non sta difendendo gli italiani, sta difendendo un tizio che colpisce le persone di altra nazionalità così come colpisce gli italiani. Nella sparatoria di Macerata, Traini ha esploso i colpi da un’auto in corsa. Ha ferito sei persone di nazionalità non italiana. Ma dalle immagini dei TG si vede che i colpi hanno perforato le vetrine di negozi italiani. Attività che potrebbero essere le vostre. I bambini italiani sono stati tenuti dentro le scuole perché correvano il pericolo di essere colpiti. Bambini che potrebbero essere i vostri. Questo significa che il razzismo e l’intolleranza divorano tutti, senza distinzioni. Non illudetevi, non vi salverete solo perché siete italiani.

In un sistema sociale razzista, se avete fortuna, potete schiacciare tutti quelli che non sono come voi. Se invece siete sfortunati, sarete voi ad essere schiacciati da quelli che comandano. In un sistema sociale razzista non potete essere sicuri di finire nel gruppo dei vincitori. In un sistema sociale razzista verreste indagati per capire se siete troppo scuri o troppo chiari per essere italiani, si  controllerebbe da quante generazioni lo siete, vi verrebbe chiesto se siete utili alla società o se siete un peso. In un sistema sociale razzista nessuno di voi sarebbe al sicuro: in qualsiasi momento potreste essere ritenuti non abbastanza puri. In un sistema sociale razzista nessuno di voi − seppur italiani, bianchi, occidentali − potrebbe dirsi veramente salvo. Le persone perseguitate dal nazismo e dal fascismo erano tedesche, italiane, polacche, francesi, austriache da generazioni. Il razzismo è l’inganno estremo perché prima o poi, in un modo o nell’altro, tradisce sempre chi afferma di voler difendere. Il razzismo è fedele solo a chi ne fa le regole e ne detta le leggi. Ma quelli è praticamente certo che non sarete voi.

Chi sono i sei feriti

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Labadessa, la normalizzazione e lo Scrondo

Stavolta parliamo di Labadessa e dei suoi apologeti. Finora l’ho evitato perché la cosa ha avuto anche troppa amplificazione ma tant’è: se tutti ne parlano, chi siamo noi per sottrarci? Scanserò la rassegna stampa perché onestamente i tormentoni mi annoiano. Direte voi: “E tu allora? Non partecipi al tormentone anche tu?”.  Sì, partecipo anch’io e infatti mi annoio da sola. Però quando ho formulato un pensiero creando un legame di significati, dopo mi dispiace buttarlo via e quindi lo appunto sul blog.

Ha raccontato tutto Maria Laura Ramello, nel suo articolo trovate la notizia e il commento.  Labadessa ha poi spiegato di essere stato bannato da FB a causa delle segnalazioni. È stato sospeso per 24 ore e su questo i suoi fan si sono molto infiammati. Un anno fa sono stata sospesa 3 giorni per pornografia a causa questa foto. Mi fu comunicato che se avessi fatto ulteriori infrazioni il mio profilo sarebbe stato definitivamente bloccato.

Jean Gaumy, Klaus Kinski e Romy Schneider durante le riprese di L’important c’est d’aimer, Andrzej Żuławski 1975

Avevo visto la foto in un museo di arte contemporanea, a una mostra. Aggirai l’ostacolo ripubblicando la stessa foto mascherata. La cosa buffa è che ho anche una serie di foto di Robert Mapplethorpe, Francesca Woodman e Joel-Peter Witkin in cui i nudi sono molto più espliciti ma per qualche alchimia social stanno sempre lì indisturbati. In ogni caso io non mi ritengo censurata. E nemmeno Labadessa ha parlato di censura anche se lo hanno fatto ampiamente i suoi solerti apologeti. Labadessa nelle sue scuse, ha fatto intendere che chi lo ha criticato crede veramente che lui “vorrebbe stuprare una ragazza!”. Beh non è per questo che è stato criticato e neanche per la sua presunta leggerezza. E qui si arriva a un punto che non è facile da spiegare.

Il gioco di Labadessa era di autorappresentarsi come un ragazzo insicuro che non sarebbe stato corrisposto dalle ragazze carine. Ok, è un gioco tipicamente nerd. La formulazione nerd poteva essere: “una così me la darebbe solo se svenuta” che però è alquanto diverso da “vorrei che fossero svenute per prenderla”. Non credo affatto che desideri veramente stuprare qualcuna ma non credo nemmeno che sia solo una battuta infelice, credo invece che sia una delle tante conseguenze della normalizzazione.

Tutta questa discussione non riguarda solo Labadessa, riguarda una cultura diffusa non facile da individuare, una cultura fatta di piccole forzature apparentemente insignificanti che un pezzettino alla volta alzano gradualmente la posta. Si chiama normalizzazione: è un processo di costruzione della normalità che passa attraverso forme non immediatamente riconoscibili. La normalizzazione non è innocua perché, se non la si disinnesca, si evolve in qualcosa di peggiore. La differenza tra la normalizzazione della battuta su un soggetto, la svalutazione di quel soggetto e la riduzione della sua autonomia è una differenza di grado non di qualità. Dunque no, quella non è solo una battuta infelice, è la conseguenza della normalizzazione e come è ovvio che sia non viene individuata. Ecco perché si chiama normalizzazione.

Sto accusando Labadessa di intenzioni violente? Certo che no. Sto dicendo però che Labadessa, e più ancora i suoi apologeti, non sembrano consapevoli di queste correlazioni che rappresentano delle differenze di grado rispetto a una cultura che loro stessi rifiutano: quella del controllo di un genere sull’altro. Il fatto è che questa cultura, piaccia o no, ci è entrata dentro e la reazione forte che c’è stata non può essere liquidata troppo semplicemente. È ovvio che non vada bene insultare e minacciare un tizio per ciò che ha scritto ma non va bene nemmeno derubricare tutto a una battuta infelice. Quando Teo Mammuccari metteva Antonella Elia sotto il suo tavolo di vetro sembrava ci fosse tanto da ridere. Poi qualcuno si incazzò e anche allora si parlò di polemiche eccessive. Ora non succederebbe più ma non è avvertita una limitazione della libertà di satira. Semplicemente è stato reso visibile il meccanismo di normalizzazione e quel meccanismo non ha fatto più ridere.

Sorvolerei sugli apologeti di Labadessa che sostengono come nella fantasia vale tutto, perché chi fantastica di uccidere qualcuno non è che poi lo uccide davvero. Ecco, io questo manco l’avevo pensato di Labadessa però mi stupisce che ci sia qualcuno che lo usa per discorsi paralleli e asimmetrici. Labadessa stesso ha detto che non desidera stuprare una ragazza: se volete difenderlo magari leggete prima cosa scrive.  Sorvolerei anche su quelli che se la prendono con i dementi della rete: quando la rete li asseconda allora si sentono appagati, quando non li asseconda allora la rete diventa il Male.

Spero di non darvi una notizia sconvolgente ma la rete non è un’entità aliena come gli Antichi di Lovecraft. Non c’è nessuna città perduta, non ci popolazioni selvagge che adorano divinità blasfeme. Voi siete la rete − esattamente come lo sono io − e poiché siete la rete, contribuite a costruire la rete con i vostri contenuti che parlano di app, di dementi e attribuiscono paternità ai desideri di stupro. Ci siete dentro. Così come siete dentro ai meccanismi di normalizzazione che ci riguardano tutti.

E ora riportiamo le cose alla loro misura passando da Chtulu allo Scrondo. Partiamo dalle referenze. Lo Scrondo era un personaggio di Disegni e Caviglia, che apparve sui primi numeri di Cattivik, nell’inserto Carta sprecata e nelle trasmissioni Matrioska e L’araba fenice. Vedi alla voce: Moana Pozzi, nudo integrale, cancellazione immediata. Questo per chiarire il contesto. Il buon Disegni tempo fa disse: «Siate impietosi: se non riuscite a capirlo, niente soggezione, non vi affannate a inventare significati che non ci sono, gli incapaci non siete voi, l’incapace è lui». Ora, volete davvero mettere sullo stesso piano una piccola malintesa libertà di battuta su Facebook con la reale censura applicata (per esempio) all’autore dello Scrondo?

Siete proprio sicuri? 

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Lettera d’amore da #metoo

Con molta calma e dolcezza, sottovoce e lentamente per non turbare nessuno. Ecco immaginatemi così: vi sto parlando con tutta la delicatezza che so e che posso. In fondo è quasi una lettera d’amore. È da un po’ che ci penso e ne parlo con Marito, ne parlo con le amiche, ne parlo con tutti quelli che ne vogliono parlare.

La lettera delle tre Catherine − Deneuve, Millet, Robbe-Grillet (googolate chi sono per favore) − non è stata fraintesa neanche un po’. È stata proprio contestata in pieno, esattamente come quando si fa un frontale con la macchina che veniva dalla corsia opposta. Una andava in una direzione, l’altra nella direzione contraria e si sono prese in pieno. Quindi non venitemi a riportare leggende: non c’è nessun malentendu, abbiamo capito bene e per essere sicure l’abbiamo letta pure in francese.

La successiva presunta lettera di scuse della Deneuve non è una lettera di scuse. Ma neanche un po’, scordatevelo proprio. Tant’è vero che la prima lettera collettiva usava l’ambiguo importuner e la seconda il netto harcelement. In sostanza è stato un passo falso raddrizzato al volo, ma senza alcun malentendu. Tutte le donne di #metoo − ma dico tutte − difendono la libertà di corteggiamento. E questo è il gioco sporco che cercava di fare la lettera francese: sovrapporre la molestia (harcelement) e il corteggiamento più o meno tenace (importuner). Di conseguenza dipinge per contrasto le donne di #metoo come avverse al corteggiamento, frigide, moraliste, misandriche o addirittura sessuofobe.

Sarà un caso, ma tutte quelle con cui ho parlato amano il sesso su una scala che va da mediamente, ad assai, a parecchio, a proprio tanto, a tantissimo. Poi è fisiologico che nelll’insieme ci sia anche qualche donna asessuale in senso lato. Ma del resto, se dall’altra parte ci può stare tranquillamente una dominatrice sadomachista praticante come Robbe-Grillet, allora decadono le insinuazioni di indifferenza o fobia del sesso mosse alle donne di #metoo. Se non c’entra niente la lettera francese con le preferenze sessuali delle firmatarie, allora non c’entra niente nemmeno la campagna #metoo con l’approccio personale di queste donne alla sessualità.

Datevi pace perché è stato dichiarato da tutte le parti − e più di così restano solo i sottotitoli − che non c’è alcuna volontà moralizzatrice o castratoria. Se la volete sentire spiegata in un’altra maniera, alle donne di #metoo piace fare l’amore, piacciono gli uomini (o le donne), piace il sesso e pure la sperimentazione. Vi sorprendereste di certe confidenze che ovviamente non dirò. Però potete sempre immaginarle a piacimento.

In linea generale il discorso portato avanti da #metoo non è poi così difficile da capire e si articola in due punti:

1) L’unico risultato che vogliamo ottenere è di non essere più strusciate, palpate, baciate, approcciate contro la nostra volontà.

2) Quando c’è la nostra volontà vogliamo essere strusciate, palpate, baciate e anche di più: vogliamo strusciare, palpare, baciare e tutto quanto segue.

Postilla: Se non avete capito che aderire alla campagna metoo non significa promuovere il cilicio e praticare la castità ma scegliere una sessualità positiva e propositiva, partecipe e gaudente, sperimentale e gioiosa [ommioddìo quindi il sesso piace anche a loro] allora avete già perso il gioco della seduzione amici cari e vi resta da fare soltanto una cosa ma non sarò io a suggerire quale.

E una volta per tutte finitela di dire che #metoo è l’origine di tutto. #Metoo è un fenomeno contemporaneo a #balancetonporc e #quellavoltache. Chiedetevi perché in tanti paesi diversi sono nati movimenti così simili nello stesso momento: potrebbe essere la volta buona che capite cosa sta succedendo.

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Ringrazio Silver a cui ho fregato questa epica vignetta.