Questo maledetto Natale

Di questo post potete farne quel che volete, a questo punto non mi interessa. Leggetelo, buttatelo, ridetene. Non ha importanza. A volte ci sono cose che ti stanno lì. Non le dici per pudore, per rispetto, perché non sei l’unica ad avere diritto di essere ascoltata: non esisti solo tu. Poi però succede che il tuo malessere, la tua sofferenza vengono minimizzati, ridicolizzati, buttati via e allora quel che avevi trattenuto esce tutto in una volta.

Fatene quel che volete di questo post ma fermatevi qui se non vi interessano i contenuti personali e dolorosi. Perché questo è il motivo per cui tengo a questo maledetto Natale.

Si chiamava Roberto, aveva otto anni era il mio migliore amico, è morto di cancro. Continuo ad andarlo a trovare al cimitero anche adesso. Il primo grande mistero della mia vita. I miei non mi fecero partecipare ai funerali per paura che stessi male.

Si chiamava Gino, era mio zio, Si suicidò senza lasciare spiegazioni. Avevo dodici anni. La mia famiglia e la loro erano una cosa sola. Suo figlio grande, mio cugino, era l’altra metà di me. L’impatto fu talmente violento che saltò tutto. Mia zia non volle festeggiare il Natale quell’anno. Da allora niente più Natale insieme, niente Pasqua, niente pic nic. Quell’anno è finita la mia infanzia.

Si chiamava Raffaella, era una mia compagna di classe, un’amica. Morì all’improvviso non ho mai capito perché. Quando sua sorella mi ha chiesto l’amicizia su FB la cosa mi ha stordito. Tutte le volte che vedo la sua foto sorrido perché le assomiglia. Si chiamavano Francesca e Fabrizio, tumore, erano poco più grandi di me. Un altro punto interrogativo della mia adolescenza. Lei faceva le magistrali, lui suonava la batteria.

Si chiamava Giordano, era il padre di un amico. Incidente sul lavoro, morte bianca. Quell’amico mi venne a cercare la notte dell’incidente e mi disse che suo padre stava crepando, letterale, che dovevo accompagnarlo. Vagammo tutta la notte finché tornammo a farci dire che non ce l’aveva fatta. Quel ragazzo a mala pena maggiorenne entrò a lavorare in catena di montaggio per sostenere la famiglia: una madre e una nonna entrambe vedove. Quel ragazzo è mio marito.

Si chiamava Marco, aveva 26 anni. Si era tolto la cannula della tracheotomia da poco. Festeggiavamo a casa nostra. Salì per andare al bagno e si accasciò. Chiamammo il medico, che è un nostro vicino di casa. Arresto cardio circolatorio. Il medico lo fece partire in ambulanza per non lasciarlo lì e dare alla sorella, che era con lui, un po’ tempo. Il medico mi disse che se ne era già andato, di non rischiare andando troppo veloci. Fui io a telefonare alla madre, mentendo. In Pronto Soccorso, alla notizia impazzirono tutti. E io mi sentivo in colpa perché era morto a casa nostra. Temevo che suo padre mi incolpasse.

Si chiamava Tarcisio, era mio padre. Non avevo un buon rapporto con lui, per quello ero andata via di casa. Ma quando si era aggravato ero ritornata e aiutavo mia madre ad accudirlo. Metà settimana stavo a casa mia, metà settimana stavo a casa con mia madre. Pancreatite. Non si poteva operare. Gli ultimi tempi nelle allucinazioni vedeva sua madre, sembrava sereno. Quando è morto mi sono zavorrata di ansiolitici e ho consolato tutti, specie mia madre, perché pensavo che qualcuno lo doveva pur fare. Non ho potuto abbracciarlo perché abbiamo dato l’assenso all’espianto di cornee. Per le procedure di espianto il corpo va tenuto monitorato per 24 ore. Quando ho firmato per l’espianto mi tremava la mano. Al funerale, venne il padre di Marco, il ragazzo che era morto un mese prima, e mi abbracciò. Capii così che non mi attribuiva colpe per la morte del figlio.

Si chiamava Marco, era il relatore della mia tesi. Era stata una sua iniziativa di chiedermi di laurearmi con lui. Per me come un secondo padre. Era dializzato come mio padre. Complicazioni per una iniezione di antibiotico. Se ne è andato sette giorni esatti prima della mia discussione. Nessuno mi voleva dire che era morto. Lo seppi solo la sera una volta rientata a casa. Quando il mio fidanzato me lo disse mi crollò il mondo addosso. Perdevo un mentore, un amico, un maestro e molto di più. La mattina dopo sono tornata in biblioteca. Ho passato le nottate dicendo il Padre nostro e confondendomi a pensare che il padre nostro, minuscolo, era lui.

Si chiamava Alda, era la nonna del mio compagno. È morta per consunzione, non si sa bene la causa. Ha smesso di mangiare e di bere. Il medico disse che tenendola a casa avrebbe fatto prima. Ma sua figlia, la madre del mio compagno, ebbe paura. Il mio compagno rispettò la volontà di sua madre e la fecero ricoverare. Fu un mese di cure inutili e dolorose. Quel mese io stavo finendo la tesi. Per potermi concentrare mi proibirono di fare i turni. Io studiai e studiai e arrivai in fondo. Alla fine mi laureai. Potei andarla a trovare finalmente. Lei mi riconobbe. Non parlava più. Dopo poco se ne andò. Sono contenta di averla potuta rivedere.

Si chiamava Alberto, 42 anni. L’amico geniale che tutti dovrebbero avere. Al mio matrimonio riempì le due pile di arenaria di vino bianco e rosso. Pur non essendo laureato arrivò nella terzina per il ruolo di tecnico informatico alla Scuola Normale. Mi regalò una penna souvenir da Cluny, poi si accorse che non c’entrava nulla ma andava bene lo stesso. Era ipocondriaco. Ebbe un’emorragia cerebrale, non riuscì a chiamare i soccorsi. Sua madre che abitava al piano di sopra non si accorse di niente. Del resto era Alberto che accudiva lei perché era senile. Di lui se ne accorsero i colleghi per via dell’assenza. Quando fu soccorso era già in coma. Noi sapevamo che non voleva rimanere in quello stato. L’unica persona che poteva decidere decise di non lasciarlo andare. È rimasto così per undici mesi, li ho contati. Non si è mai ripreso.

Michela aveva 42 anni, seppi della sua morte dal manifesto funebre. Capii che era lei quando lessi che era una postina. Tumore. Mi capitò di vedere il manifesto mentre andavo a trovare mia madre che era già malata, a casa di mia sorella. Lei era una compagna di liceo, eravamo nella stessa associazione. Cantava bene e sapeva suonare la chitarra. Al suo funerale c’erano pochi amici e il prete alluse al fatto che era lesbica ma senza dirlo e senza rispetto. Uscii a metà funzione. Lei meritava di meglio. Il padre mi confidò che forse il suo bipolarismo dipendeva dalla posizione del tumore nel cervello. Io non ne avevo idea, però mi andava bene che questo lo consolasse e gli dissi che forse era vero.

Loretta, mia madre. Tumore al polmone. Aveva avuto un infarto ed era nefropatica. La chemio l’avrebbe costretta alla dialisi, l’operazione implicava un alto rischio che morisse sotto i ferri. Abbiamo deciso per la rinuncia alle cure. Per un caso di mala sanità non ha avuto terapie palliative. Ho deciso io la sedazione profonda mentre lei gridava che le facessero qualcosa perché sentiva dei cani che la mangiavano da dentro. Le sue grida le ha sentite anche il mio compagno da fuori. Quando l’oncologa ha saputo che era la prima volta che vedevamo un oncologo e che lei non seguiva alcun protocollo per le cure palliative, non ha detto parola, bastava la sua faccia. Mi ha chiesto se capivo che con la sedazione profonda dovevo salutare mia madre “qui e ora”. Ho detto che lo capivo. Mi ha chiesto se davo l’assenso per la sedazione profonda. Ho detto di si. Ho provato sollievo quando lei si è addormentata. Le ho tenuto la mano tutte le volte che era il mio turno. Il giorno che è morta avevo lezione di inglese. Non so perché non ci sono voluta andare. Sono andata da lei, invece. Studiavo al suo tavolino. Lei ha avuto delle apnee. Quando l’infermiere mi ha detto che c’eravamo le ho tenuto la mano. L’ho vista smettere di respirare. Ho visto salirle sulle labbra una schiuma rosa di sangue e mucosa. Ho capito. Ho ricordato i cani. Non l’ho detto a nessuno perché era troppo crudele. Lo dico ora perché serve a capire. Ho sentito la sua mano farsi fredda e solo allora ho lasciato che mi allontanassero per sistemarla. Sono andata fuori e ho fumato una sigaretta alla sua salute. Ho smesso di fumare solo diversi anni dopo.

Manuela era mia zia, la vedova del mio zio, quello suicida. Anche lei tumore, al pancreas. Confesso che un po’ di pensieri ce l’ho, dato che mamma, nonna e zia se ne sono andate tutte per tumore. Un’infermiera gentile mi ha messa nel protocollo di prevenzione prima che avessi l’età per entrarci. La zia Mèla era la persona più gentile che io abbia conosciuto. Aveva sposato lo zio Piero, il fratello del marito morto. Due persone che insieme si reggevano in piedi e tiravano su i miei due cugini come brave persone e uomini affidabili. Mèla pensava che ce l’avrebbe fatta. Anch’io lo pensavo. Per il semplice fatto che era impossibile che morisse. Piero era morto poco prima. Aveva avuto un malore, l’ape su cui viaggiava era finita in mezzo a un incrocio. Era stata colpita da un altro mezzo. Il malore gli aveva provocato un danno cerebrale, il trauma lo aveva reso inoperabile. Era in un centro di riabilitazione in attesa di essere guarito abbastanza per l’operazione. È ripartita l’emorragia e se ne è andato così. Mèla gli ultimi giorni, piena di morfina, chiedeva se Piero era già arrivato. E io le dicevo di sì perché in fondo era vero.

Giac era un artista. Giacomo Verde, detto i’vverde. Uno che ha contato molto nelle nostre vite. Lo conobbi per via di Genova 2001. Da lui ho imparato a relazionarmi con la comunicazione. Per lui il mio compagno si avvicinò al video. Con lui abbiamo vissuto l’avventura del collettivo, la terza parte delle mia vita. Quando ci sposammo non volevamo fronzoli. Sarebbe stato un matrimonio civile poi tutti a prendere l’aperitivo al bar davanti al comune e fine della storia. Giacomo si oppose. Il mio compagno lo sfidò: allora organizzala tu la cena di matrimonio. Lo fece davvero. Mi ricordo di gente che arrivava con pentole piene e casse di vino. Mi ricordo di quando portarono le parti della torta nuziale e la montarono nel nostro tinello. Mi ricordo dell’amica che ci regalò le bomboniere con quell’errore di data che le rende uniche. Mi ricordo di Giacomo che ci fece il video del matrimonio mentre noi sudavamo come non mai. Mi ricordo anche quando si sentì male la prima volta e non venne al Primo Maggio, allora gli portammo il gelato. Mi ricordo quando mandò a mio marito la foto della diagnosi. Carcinoma livello 9, che vuol dire? Eh, come glielo dici cosa significa livello 9? Come lo racconti a te stesso? Ricordo che mi chiese di fargli alcune iniezioni per la cura ormonale. Ridendo e scherzando gli foravo la natica mentre mi tremavano le mani e mi congelavo dalla rabbia. È andato nello stesso hospice della mia mamma e di Alberto. Era convinto che fosse per bilanciargli il livello della morfina. Non potevamo vederlo. Era già iniziata la pandemia di Covid. L’ha potuto incontrare una volta solo un’amica infermiera poi suo fratello. L’abbiamo sentito al telefono, poi per whatsapp, poi sempre meno, alla fine solo fiorellini e cuoricini. Per il Primo Maggio ha detto che ci saremmo rivisti a festeggiare l’anno dopo. Ho sperato con tutte le mie forze che vedesse almeno la riapertura, il momento in cui la pandemia mollava la presa. È morto la notte tra l’1 e il 2 maggio. Hanno riaperto il 3, mi sono arrabbiata. Aveva dato disposizioni per il suo funerale posticipato. Siamo stati tutti al gioco. Ho aspettato il giorno del funerale ma c’era allerta meteo e non si è fatto. Sto ancora aspettando di poterlo salutare insieme a tutti gli altri, come si deve.

I miei nonni non li ho mai conosciuti, sono figlia tardiva. Ricordo a malapena i nomi, Alaide e Ugo, che fu registrato a Ellis Island come emigrante, Giuseppe e Aladina, detta dal nonno la marescialla. Lei ha salvato un po’ di gente durante la guerra: uno che aveva trovato un tracciante al fosforo scambiandolo per caffè e gli era esploso in mano e anche mia madre, che aveva smesso si respirare per il richiamo d’aria di una bomba troppo vicina. Aladina faceva partorire le donne, è stata l’unica nonna a vedermi appena nata, poco prima di morire. Io spero sempre di assomigliare a lei. Di tutti loro ho solo fotografie, non ricordi.

Ho scritto tutto questo per due motivi che come al solito sono diventati tre.

1) Sono stanca di sentirmi minacciare con le intubazioni, le pronazioni e i racconti di dolore. Il dolore lo conosco molto da vicino. Fin da piccola. Direi che è stato il compagno di tutta una vita. Un compagno con cui ho  convissuto. Come con la perdita del resto. Conosco l’abitudine alle nottate in corsia. Conosco il momento in cui ti dicono che non ce l’ha fatta. Conosco l’attesa e l’esito incerto. Sia da parente che da paziente. Quindi non usate i morti di Covid per piegare la loro scomparsa alla vostra argomentazione.

2) Ho tralasciato molte cose ma ho scritto quel che basta per dire che i racconti di dolore smisurato li ho anch’io nel mio carnet. Ce li abbiamo tutti. Solo che ho deciso di non usarli contro nessuno. Non sono sassi da scagliare, sono il mio bagaglio, parte della mia identità. Se oggi li ho esposti è solo per mostrare che esistono. Come dice la mia amica Annalisa Strada, i morti non si celebrano con la penitenza, il vuoto della loro mancanza si colma solo con lo scambio d’affetto tra chi li ha amati e conosciuti. Per questo la retorica sui morti per zittire chi si lamenta del Natale solitario è inutile.

3) Ho scritto tutto questo senza pensare che la mia sia una storia eccezionale. L’ho scritto perché quando hai passato qualcosa del genere, ogni maledetto Natale diventa prezioso. Non importa se hai litigato con tua sorella, se non riesci a vedere spesso i parenti, se hai rapporti monchi e frammentari. Natale è una possibilità, un’ipotesi. Magari stavolta riesco a vedere la cugina che ho ritrovato. O sento l’altro mio cugino che ho perso di vista. O riesco a dire a quell’altra il bene che le voglio. Chi lo sa. Natale è una delle poche cose importanti che mi rimangono e vedermelo sottrarre è una delle cose peggiori che potesse succedermi in questo momento. Non pretendo che tutti capiscano. Ma è un dolore mio che necessita di rispetto e di spazio. Ho scritto tutto questo perché sento la mia sofferenza minimizzata, strumentalizzata, irrisa. Ci dicono di adattarci, di sopportare. Senza però mai scordarci di consumare. Ma a questo giro non ci rimane altro che quello: comprare, comprare, comprare senza nessuno a cui poter regalare un accidente di niente.



Avvertenza:

A chi mi vuole accollare i sensi di colpa dei 900 morti, rispondo così

Per chi mi ammonisce di stare attenta a non dare ragione a Salvini dico questo. Per quanto sia molto improbabile che accada, diffido qualsiasi personaggio politico dall’usare strumentalmente questo post. Non ho scritto questo per nessun altro se non per gli amici.

Questo post è dedicato a Giuliana e Francesca

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