Joker ovvero la possibilità del male

! Contiene spoiler !

La sera in cui ho visto il film avrei voluto rinunciare perché ero troppo stanca. Ma mio marito è venuto a riferirmi che secondo il telegiornale forse ci sarebbero stati dei presidi di polizia fuori dai cinema. Quella è stata la molla che mi ha spinta a uscire: se davvero fosse successa una cosa del genere, io avrei voluto vederla. Invece no, non c’era alcun presidio. La circostanza si è verificata negli USA e in forza della notiziabilità dell’evento è stata applicata all’Italia. Impropriamente. Così mi sono ritrovata in una sala piena di adolescenti delusi che si aspettavano un film diverso. Infatti non era Batman.

Ho contato le scene di violenza: sono cinque, di cui tre quelle cruente. Le scene dei riot sono poco più che coreografie sullo sfondo. Se questa era la preoccupazione, dopo Taxi driver, Fight club, V per vendetta e la quantità di film che hanno inscenato la violenza sociale negli ultimi decenni, il mondo occidentale dovrebbe essere estinto. Il film è accusato di razzismo ma gli operatori che assistono Arthur Fleck impedendogli di diventare violento sono tutti neri. Semmai c’è da chiedersi perché gli assistenti sociali e gli psicologi della parte disagiata di Gotham siano tutti rappresentati come afroamericani. Si parla di un film misogino ma l’unica relazione affettiva di Arthur è il rapporto immaginario con la vicina afroamericana. Quando entra per la prima volta nella casa di lei e capisce di aver avuto un’allucinazione, esce senza protestare. E se Arthur uccide ferocemente il collega Randall, causa del suo licenziamento, verso l’altro, Gary, è del tutto amichevole. Gary è un uomo con nanismo che rimane chiuso nell’appartemento di Arthur perché non arriva a sbloccare la porta. Arthur, ormai fuori controllo dopo l’uccisione di Randall, potrebbe sopraffare Gary facilmente. Eppure lo libera dicendogli che è stato l’unico ad essere gentile. Paradossalmente questo film è perfino politically correct. Sì, certo, sono schemi di interazione semplificati ma proprio per questo è impossibile fraintenderli. Arthur incontra le prime tre vittime nella metro mentre stalkerano una donna sola. Quando si accorgono dei problemi di Arthur si accaniscono su di lui e in questo modo la passeggera riesce a scappare. Solo allora Arthur tira fuori la pistola per difendersi e spara. È così che inizia la sua metamorfosi in assassino.

La storia alla fine è lineare, semplice. È ispirata a un supereroe dei fumetti ma incastonata nella vita reale. Non ci sono superpoteri ed effetti speciali. C’è chi trova che Joaquin Phoenix sia sopra le righe ma è ovvio che lo sia: questo è il suo superpotere. Il superpotere di un antieroe che è stato privato degli effetti speciali, a cui resta solo sé stesso e il suo tragico gigantismo pop. Questa storia, che non è nemmeno un film d’azione, è pensata per un pubblico vasto, non per la saletta d’essai. Il fatto di ruotare intorno al personaggio di Joker lo fa sembrare un film su Batman. In questo modo il protagonista diventa una metafora popolare, attingendo dall’immagine di uno dei villain più famosi del nostro tempo. Questa scelta mi pare forse la cosa più interessante perché è deliberatamente collegata al tipo di pubblico a cui si rivolge. Questo film è un’operazione umanistica piuttosto che politica: lo dice Arianna Finos nell’intervista a Todd Phillips. Se si esce dalla visione di Fight club esaltati per l’esplosione finale, Joker lascia addosso una tristezza senza soluzione.

La prima cosa che colpisce è l’impressionante cambiamento fisico di Joaquin Phoenix. Non è semplicemente dimagrito, è dimagrito al punto da mostrare ogni singolo osso. Di conseguenza colpisce tutta la fisicità di Arthur Fleck che provoca disagio in ogni sua espressione. La storia non parla di un criminale vincente ma di un emarginato sconfitto che rimane sconfitto anche quando si prende la rivincita sulle vite degli altri. Arthur Fleck non vince mai. È e rimane quello a cui vengono sottratti uno dopo l’altro l’assistenza, i farmaci, il lavoro, l’identità, il rispetto, le relazioni sociali. Al punto che non gli rimane nulla da perdere. E in questo sì che c’è un rischio di identificazione reale. Non nella violenza che segue un percorso tutto diverso, non nella rivolta a cui Arthur è estraneo. L’omicidio non implica alcun riscatto, nessuna affermazione di potere. Arthur era un perdente e lo rimane sempre. L’identificazione è nella sottrazione di diritti, nell’ipocrisia con cui viene giudicato dopo che gli è stato tolto tutto. Arriva ad uccidere alla fine di un concatenamento di eventi alla cui origine c’è una colpa sociale. Arthur è stato abbandonato dalla società, gli hanno tolto ogni cosa ma gli hanno dato in mano un’arma. E lui diventa un assassino per difendere dai tre yuppie che lo colpiscono con gratuita ferocia. Curiosamente – ma non troppo – il film è politicamente corretto verso le donne, gli afroamericani, le persone con disabilità. Non è un film sulla follia, è un film che parla del pericolo costituito dal non prendersi carico dei problemi. Non si può non pensare agli autori dei mass shooting che hanno squassato l’America contemporanea. È un film che smaschera quell’approccio moralistico che porta alla difesa dei diritti individuali e alla negazione dei diritti collettivi*. Un film che parla di un mondo dove si deve essere corretti verso le minoranze ma si possono tagliare i fondi ai servizi sociali e all’assistenza sanitaria. E quel mondo è facilmente identificabile con il nostro. Forse per questo è considerato un film da prendere con cautela. Non perché inciti realmente alla violenza ma perché in qualche modo parla di cose che ci mettono in discussione tutti.

L’articolo su Cultura Commestibile 326, p.12

 

Intervista a Todd Phillips (grazie a Francesca Sand per la segnalazione)

* Mi chiedo il perché della scelta di titolo così inusuale per la programmazione al cinema che si intravede durante la fuga di Arthur. Il riferimento a Zorro, il film in proiezione quando sono morti i genitori di Bruce, è chiaro. Qui però diventa “Zorro, the gay blade” (1981) ed esiste veramente.

Scrive Francesca Papasergi:

«“Cosa ottieni se metti insieme un malato di mente solitario e una società che lo abbandona? Ottieni quello che ti meriti.”

Se vi stavate domandando il perché della nettissima dicotomia tra molta della critica cinematografica statunitense e quella del resto del mondo a proposito di Joker, la risposta sta in questa battuta. Quello che li disturba profondamente, a mio avviso, è il tema del fallimento sociale visto come innesco di violenza e malvagità senza possibilità di controllo o di redenzione. Si scoprono potenzialmente cattivi, possibili artefici di un male più grande di loro, e questo li fa star male. La responsabilità penale è personale; poi c’è la natura, l’essere deviati di per sé; gli americani che non hanno gradito hanno guardato il film e si sono sentiti i mandanti morali delle cose brutte che avrebbero potuto evitare facendo scelte diverse (leggi: sparatorie nelle scuole, per esempio), che è la terza possibilità. La storiella che gira da anni su Gesù di Nazareth clonato e cresciuto, che so, dal capo di una banda nelle favelas di Rio riassume il tutto. Per dirla proprio all’americana, “it takes a village”.

Joker è una conseguenza di Gotham».

2 pensieri su “Joker ovvero la possibilità del male

  1. Simone

    Non ho ancora visto questa pellicola, cosa che ho intenzione di fare ma quel che più mi colpisce attiene al crescente successo della maschera di Joker, cosa che mi ha colpito sotto più punti e che cercherò di sintetizzare anche se in modo incompiuto e puramente intuitivo.
    Il ruolo di Joker pare ormai ambire a quei ruoli shakespeariani come il Riccardo III. Gli attori che prestano il volto al personaggio lo caratterizzano di elementi distinti (seguendo anche la scrittura ché l’attore, in fondo, è pur sempre un contenitore vuoto che va riempito di contenuti) ma è il suo successo che è significativo; come se tutti fossimo incentrati sulle storture che ci hanno reso diversi, in modo irrevocabile, dalle persone che avremmo voluto essere e il cui danno al prossimo è nulla più di un effetto collaterale. C’è una dimensione enormemente drammatica in tutto questo, forse all’origine del successo di altre serie TV come Mindhunter per esempio; il nostro rapporto col male non è più sociale ma solamente autoriferito e la sua materializzazione viene interpretata come un atto di purezza morale davanti a un mondo ormai infido e disconosciuto che, nella sua ipocrisia normalizzante, è incapace di grandezza anche nel dolore. Se gli eroi sono la summa delle virtù della società che li crea, il killer patologico riassume in sé la statura e gli attributi di una società psichicamente danneggiata che non riesce a farsi carico di questo dolore, che pur tuttavia ambisce a una sua narrazione la cui ultimale redenzione languisce nel ricordo di una purezza irrevocabilmente perduta, che si è mutata in qualcosa di famelico e bestiale, ugualmente incorruttibile quanto lo era la stessa purezza che sentiamo esserci stata sottratta per sempre.

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    1. ruminatiolaica Autore articolo

      Capisco quello che dici. La cosa interessante è che secondo me questa narrazione genera un tipo di villain diverso. Non semplicemente antieroico, che a suo modo sarebbe una forma di eroismo. Io credo che generi un tipo di personaggio in cui rimane evidente la natura di vittima anche quando diventa un assassino. Un paradosso. Un po’ come quando Joaquin Phoenix – Joker riesce a piangere mentre il disturbo da cui è afflitto lo costringe a ridere.

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