Archivio dell'autore: ruminatiolaica

Un discorso sulla violenza

La prima cosa che mi ha detto il mio compagno stamani è stata: lo hanno arrestato. Siamo rimasti in silenzio.

Sinceramente non so bene cosa si può dire in merito. Mi piacerebbe pensare che è possibile evitare queste morti ma la realtà è più complicata di quello che io vorrei e anche del modo in cui vorrei che andasse il mondo.

Tutti stanno trovando una colpa nelle parole del padre dell’omicida. Io penso siano una chiave per capire. Anche per capire perché è così difficile proteggersi.

Un bravo ragazzo lo poteva essere davvero. Un ragazzo incensurato, che non da grossi problemi. Un bravo ragazzo che è diventato un assassino, che ha ucciso una vita giovanissima, una persona che conosceva bene.

Vorrei dirmi che si può prevedere ma io non sono sicura. Non sono sicura di nulla. Sarebbe facile, sarebbe rassicurante se gli assassini fossero riconoscibili. Si salverebbero in tante.

Invece è questa la fregatura, che non te lo aspetti. Perché si pensa sempre che non ti farebbe mai del male. Ed è terribile pensare il contrario perché significa ammettere che non siamo esenti dal male, nessuno di noi.

Io ci credo che l’assassino prima di uccidere “non è mai stato uno violento“. Ed è questo il dramma. “Se ti fa del male dillo almeno a me” le diceva la sorella “ma lei non mi ha mai detto nulla in questo senso e quindi non ho mai pensato che quel ragazzo potesse in qualche modo ferirla”. È vero, è così, dicono la verità.

A me piacerebbe poter pensare che ci sono formule semplici per prevenire queste morti ma la realtà è che non lo so. Barbara mi aveva dato dei buoni consigli sul dottorato prima di finire uccisa dall’ex. E chi se lo aspettava? Lei così brillante, così impegnata, così realizzata. Io non ho risposte.

Educare i figli, ma davvero è questo? Qualcuno insegna forse che è accettabile picchiare una donna o ucciderla? Francamente credo che le famiglie lo facciano già di educare, nella maggioranza dei casi.

Eppure quest’anno sono state uccise 105 donne per lo più per motivi di genere. Lo dice l’Osservatorio dei diritti. Gelosia, possesso, incapacità di accettare la separazione e le scelte altrui, vendette, dimostrazioni di potere, ritorsioni.

Forse bisognerebbe parlare del fatto che la violenza ci abita tutti. Bisognerebbe non sentirci esenti delegando tutto ciò che di noi ci fa paura alla figura del mostro. Bisognerebbe pensare che l’omicida è uno di noi, non un estraneo. Non si nasce senza pulsioni violente: a controllare la violenza si impara.

Forse bisognerebbe cambiare paradigma, cominciare a valutare il fatto che la violenza non è estranea a nessuno e così, una volta ammessa, possiamo finalmente fare un discorso serio su come imparare a controllarla.

Forse.

https://www.centrouominimaltrattanti.org

Contro la mostrificazione

Anni fa, studiando per un lavoro, ho guardato un documentario sulla storia e il pensiero di Etty Hillesum. A un certo punto dei ragazzi intervistano Michale Wery, dell’Istituto di Neuroscienze di Bruxelles, sul fatto che la Hillesum (proprio lei) parla della barbarie che si può trovare dentro ciascuno di noi.

Wery dice: non spiego la barbarie; osservo me stesso. Ci sono volte in cui mi sono detto che c’è qualcosa di barbaro in me. Sono rimasto colpito dal potenziale di violenza che ho dentro. Poco tempo fa tenevo in braccio il gattino di mia figlia. Mi sono accorto che l’avrei potuto strangolare con una facilità assoluta e questa consapevolezza mi ha portato a interrogarmi. Quando ero giovane mio cugino mi ha chiesto di fare il bagnetto a suo figlio. Era neonato e in quell’istante mi sono reso conto che quel piccolo essere vivente era alla mia mercé. Quel giorno ho preso coscienza del potere che avevo su questo essere vivente. Quale sarà il limite?

Vent’anni dopo – continua Wery – stavo lavorando in giardino e ho sentito qualcuno gridare e chiamarmi per nome. Il mio vicino era caduto nel pozzo e stava annegando. Sapevo benissimo di doverlo aiutare, nonostante ciò ho avuto un’immagine terribile: “puoi fare ciò che vuoi di quest’uomo”. Hai il potere di trovare un modo per tirarlo fuori e salvarlo, hai il potere di ucciderlo. In quei momenti della mia vita ho avuto potere sull’altro. E mi dico: presta attenzione alla barbarie che dorme in te. Il fatto di dare un nome a queste cose, il fatto di parlarne, mi fa capire che non ne ho veramente paura. E questo ci rende più liberi rispetto alle tendenze che vivono in noi.

Il discorso di Wery mi incuriosì e ci ho pensato letteralmente per anni. La stessa cosa che lui racconta la sperimentiamo con i cuccioli, con i bambini, con le persone che ci chiedono aiuto. Una sensazione di potere assoluto che si presenta di fronte a chi consideriamo inferiore o più debole. Questo è l’elemento in grado di scatenare la barbarie in ciascuno di noi. Ogni giorno scegliamo diversamente ma ogni giorno questa possibilità può presentarsi. La natura di ogni essere umano può, all’occorrenza, essere violenta.

Accettare questo significa rinunciare all’idea del mostro che, in realtà, è solo il nome che diamo al riflesso della nostra paura. Noi abbiamo dentro (anche) pulsioni violente ed esserne consapevoli vuol dire accettare la necessità di farci i conti e di gestirle. Nessuna rabbia, nessuno sfogo sarebbe sufficiente a compensare lo stupore e il gelo che coglie leggendo la storia dell’ennesima donna uccisa. Non fatelo, non cedete alla tentazione di pensare che l’assassino sia qualcosa di diverso da un uomo. Non lasciatevi andare all’emotività facile dei discorsi forcaioli. Rimanete lucidi. Riflettete. Ragionate. Perché dove c’è caos c’è sempre qualcuno che riesce a trarne vantaggio.

(Continua….)

Nell’immagine installazione di Philip Worthingto, Shadow Monsters

MoMA, dec 7, 2012–jan 2, 2013

Gli spostapoveri e i lanzichenecchi

La mia prima reazione leggendo l’articolo di Alain Elkan è stata di chiedere ai miei contatti social se fosse un pezzo di satira di costume. E le risposte sono state spassose. Ho perfino pensato che se fossi un editore vorrei raccogliere gli esercizi di stile su quell’articolo e chiamare il libro “L’uomo del treno” perché tra tutti i tormentoni estivi dagli anni ’80 in poi è il più divertente.

Ma da quando stamani ho cominciato a leggere le difese d’ufficio sul diritto a viaggiare in pace non mi diverto più.

Così oggi, dalle alzate di scudi a protezione del signor Elkan, scopriamo che il problema di Trenitalia sono quattro adolescenti chiassosi che parlano di ragazze, scrollano lo smartphone e ammassano i vuoti nei cestini.

Non l’aria condizionata che non va o va troppo, non il riscaldamento che non va o va troppo, non le corse che non ci sono per collegare tratte ovvie (uno per tutti il raddoppio Lucca Firenze atteso come Godot), non i tempi ridicolmente lunghi per fare tratte brevi, non che da mesi a Bologna il treno è sostituito dal bus e alla fermata – 40° col sole a picco – non c’è neanche uno straccio di telo che manca poco gli anziani ci rimangono secchi, non che a Prato nei bagni pubblici a pagamento (notare bene) accettano solo monete e non c’è uno sportello utile nel giro di un chilometro, perché il bar interno mica ce l’ha il bagno e se ci sono bambini o anziani tanto peggio per loro.

No, il problema non sono i carri bestiame strapieni di gente che giustamente vengono chiamati gli “spostapoveri” perché di grazia se ti fanno il favore di fornirti un micragnoso mezzo pubblico per spostarti senza usare la macchina, mezzi a volte non revisionati a cui si spezzano i mozzi delle ruote e si schiantano in una stazione come a Viareggio, o che si scontrano l’uno con l’altro sul binario unico come ad Andria.

Il problema non è che amministratori e governanti continuano a investire in millemila assi viari per il trasporto su gomma e ti dicono che la tramvia non si fa perché non c’è l’economia di scala.

Il problema non è che ti dicono che i cittadini hanno il culo pesante ed è per quello che non funzionano i mezzi pubblici, così ignorando per puro pregiudizio le file alle biglietterie. Che le corse siano insufficienti o non ci siano proprio sembra del tutto irrilevante.

No. Niente di tutto questo.

Il problema sono quattro adolescenti brufolosi che hanno imbroccato le offerte di Trenitalia per la prima classe di Italo e parlano delle solite sbruffonate estive, di ragazze e nottate in giro, disturbando un lettore di Proust.

Ultimo ma non ultimo, il problema dei rifiuti sui treni sono questi barbari, signora mia, non che nei cestini c’entra appena una cicca di sigaretta e non vengono mai cambiati. E poi chi di noi comuni mortali li ha mai visti i tavolinetti per scrivere a mano? Ti va già di culo se riesci ad appoggiare il portatile sulle ginocchia facendo spessore con lo zaino. Sui treni che prendo io funziona sempre così.

Del resto serve sempre un capro espiatorio pronto all’uso per ogni evenienza. Non è forse la stessa cosa che sta succedendo per i negazionisti del cambiamento climatico?

Mica sono d’accordo con loro: le anomalie climatiche le vedo e soprattutto le soffro. Ma se siamo convinti che un cambiamento climatico è in corso, dobbiamo anche ammettere che le cause antropiche non sono mica i negazionisti climatici ma questo modello produttivo predatorio delle risorse, questo sistema economico alienante e questi governi incapaci di tenere testa alla grandi realtà industriali che sono la causa prima di ogni mutazione climatica.

Prendersela con i negazionisti è come prendersela con un altro passeggero del tram – o del treno – che come te subisce gli sballottamenti del pessimo guidatore ma indossa la maglia gialla invece che color verde ecologico. E nessuno mette in discussione il guidatore incapace bensì il lanzichenecco di passaggio o quello che si è messo la maglia gialla invece che color verde ecologico.

Del resto è sempre utile individuare un nemico fatto su misura: primo, non è più colpa tua ma del nemico, purché sia adeguato all’occorrenza; secondo, puoi evitare di prendere le decisioni necessarie che risolverebbero qualcosa ma sono inevitabilmente impopolari; terzo, puoi usare il meccanismo identitario a tuo vantaggio rinforzando il legame dei buoni che costituiscono la tua bolla di riferimento; quarto, tutto questo non ti costerà nessun investimento concreto.

L’alibi perfetto. Parliamo del negazionista o del lanzichenecco che scandalizza tutti ma guardiamoci bene dal parlare dei Governi o delle Amministrazioni che investono negli assi viari per il trasporto su gomma ma affermano che la tramvia o il treno o il trasporto pubblico non sono sostenibili in un’economia di scala. 

Perché la colpa è sempre dei cittadini che hanno il culo peso, mica dei Governi o delle Amministrazioni che non fanno investimenti o leggi adeguate prendendo iniziative che comportano una spesa economica o una qualche impopolarità (poi dice il populismo…).

Pedonalizzando, togliendo posteggi, introducendo pedaggi, liberalizzando la circolazione delle bici e dei monopattini sulle strade ‘normali’ (molto più comodo che fare le ciclabili) – senza preoccuparsi di migliorare il trasporto pubblico. Anzi: riducendo le corse sulla scorta di valutazioni economiche. E quel punto chissà come mai le priorità green non contano più. Chissà come fanno ad andare a lavorare quelli che non hanno le macchine “verdi” e non hanno soldi per comprarle (grazie Fede, ti ho proprio copincollata).

E allora vuoi mettere quant’è più semplice e rassicurante puntare il dito e tutta l’attenzione sul negazionista?

Quindi grazie anche al signor Elkann che con la sua stilografica ha dato modo anche a noi che non viaggiamo in prima – ma facciamo gli workshop in inglese e leggiamo Le monde diplomatique – di capire che non è la nostra cultura poliglotta che fa la vera differenza ma solo i soldi che possiamo spendere e gli agganci che possiamo far valere nei posti che contano.

Il disegno è di Kelsey Heinrichs 

https://www.repubblica.it/cultura/2023/07/23/news/racconto_alain_elkann_sul_treno_per_foggia_con_i_giovani_lanzichenecchi-408733095/?fbclid=IwAR0ZJ1y-YgJrVEQTdRCx0FM517aHbef9i5zO6nJ-f-CeJBkdYJkvhiIUmjE

https://mowmag.com/culture/su-giovani-lanzichenecchi-e-treni-ha-ragione-elkann-c-e-poco-da-ridere-e-da-indignarsi-serino-racconto-perfetto?fbclid=IwAR1FQzVGG9F8R83sr7l8UY9qD5rwZbiCZzG1ddS0FTWMHZ-w5XluBXujPyA

Di Sporcelli e braghettoni: la questione dei libri di Roald Dahl

Scusate. Il titolo è uno sporco trucco per sfruttare l’onda della polemica. Onda che passerà tra non molto ma che a me serve per fissare alcuni concetti. Non parlerò infatti del braghettonismo ma del caso dei libri emendati di Roald Dahl in relazione al metodo.

Anche se questo piccolo blog non è particolarmente importante, uso le sue pagine per segnare le questioni che ritengo in qualche modo utili e annotare i pensieri che prima o poi potrei voler rileggere.

Stavolta è il turno di Roadl Dahl il cui lavoro è stato riedito dall’editore Puffin in forma emendata. Lo spiega Il post alla cui ricostruzione mi sono affidata perché lo ritengo uno dei giornali online più attendibili in questo periodo storico. La notizia viene da una fonte primaria che è un articolo del Telegraph riportata poi da vari giornali.

Vorrei prenderla un po’ alla lontana quindi partiamo da un caso precedente. Ve la ricordate la questione del bacio del principe a Biancaneve etichettata come una vicenda di cancel culture? Ebbene non lo era.

Era successo che due giornaliste di un giornale locale online, il San Francisco gate, recensendo una nuova attrazione di Disneyland a tema Biancaneve, avevano inserito la considerazione che il bacio del principe non era consensuale*.

L’articolo, in realtà più ampio, dava una valutazione positiva dell’attrazione e chiudeva dicendo che la scena finale è una fiaba e non una lezione di vita.

L'attrazione di Biancaneve, scena del bacio.
Immagine dell'inaugurazione del 30 aprile 2021 tratta dal San Francisco Gate

Immagine dell’inaugurazione del 30 aprile 2021 tratta dal San Francisco Gate

Fu montato un caso che non esisteva: il giornale era di livello locale, si trattava della recensione di una nuova attrazione (peraltro positiva), le giornaliste non avevano il potere di intervenire su niente. Nessuna cancel culture, solo un caso sbandierato e gonfiato oltre ogni limite.

Qual è la differenza rispetto al caso dei libri di Dahl? Che il testo è stato effettivamente cambiato in nome di una qualche sensibilità che, visti gli interventi, non si sa bene su cosa sia basata.

Secondo Il Post sono stati cambiati i seguenti passaggi (nell’edizione ufficiale inglese, non nella traduzione). Io ne trascrivo la traduzione italiana.

In The witches:

“Le streghe sono tutte donne. Non voglio parlar male delle donne. In genere sono adorabili. Ma tutte le streghe sono donne: è un fatto” [traduzione di Francesca Lazzarato e Lorenza Manzi dall’edizione italiana].

Di questo passaggio nella nuova edizione è rimasta solo la prima frase:

“Le streghe sono tutte donne”.

Le streghe portano i guanti per coprire gli artigli e sono senza capelli per cui il bambino protagonista dice alla nonna che tirerà i capelli a tutte le donne per scoprire se sono streghe.

La nonna risponde:

“Non dire stupidaggini. Non puoi tirare i capelli a tutte le donne che incontri, anche se portano i guanti. Provaci e vedrai”.

Nella nuova edizione diventa:

“Non dire stupidaggini. Peraltro ci sono molte altre ragioni per cui una donna potrebbe indossare una parrucca senza che ci sia nulla di sbagliato” [traduzione de il Post].

Andiamo avanti

“Che faccia la cassiera in un supermercato o la segretaria in un ufficio […]”

diventa:

“Che sia una grande scienziata o gestisca un’attività […]”.

Una strega con guanti, i capelli lunghi e il vestito viola insieme ad altre donne anziane con cappelli colorati

Matilda non legge più Kipling ma Jane Austen.

La signora Hoppy di Agura Trat non è più una “attraente signora di mezza età” ma una “gentile signora di mezza età”.

Negli Sporcelli

“Una persona con pensieri gentili non potrà mai essere brutta. Potrà avere il naso bitorzoluto e la bocca storta e i denti fuori, ma se ha pensieri gentili, questi le illumineranno il viso come raggi di sole e apparirà sempre bella” [Traduzione di Paola Forti]

è stato completamente rimosso “double chin” che nelle precedenti edizioni in italiano è tradotto con “bocca storta”.

Un uomo e e una donna trascurati a testa in giù

Sono state rimosse le parole “domestica”, “grasso”, “matto” e le occorrenze di “bianco” e “nero”, anche in riferimento a un cappotto.

Finora ho sempre sminuito il fenomeno della cancel culture perché erano per lo più montature giornalistiche strumentali e il problema rimane. Questa però non lo è perché l’intervento è reale e incide sull’integrità di un testo.

Se il problema è la capacità di comprensione e di problematizzazione dei bambini piccoli è certamente giusto intervenire ma non così.

Quello che risulta non è un testo che rispetta i diritti di tutti ma un testo che da una spolverata alle coscienze più pelose senza affrontate i problemi. Dove per peloso intendo alludere, ad esempio, a coloro che vedono discriminazione nell’uso di “bianco” e “nero” per un cappotto.

Intendiamoci: io non penso che ci sia da salvare qualcosa o qualcuno. Come spiega Il post le modifiche sono state fatte con l’autorizzazione di chi detiene i diritti d’autore: la Roald Dahl Story Company, società che dal 2021 appartiene a Netflix. Netflix comincia a collaborare con Roald Dahl Story Company nel 2018. Nel 2020 Roald Dahl Story Company comincia a modificare i testi. Nel 2021 viene acquisita. Notizia questa che non è esattamente neutra dato che Netflix ha intenzione di creare una gamma di prodotti esclusivi tratti dalle opere di Dahl. Certo, non è una censura in senso proprio. Diciamo allora che è l’adattamento a un trend il cui scopo principale è di rendere il prodotto più commercialmente appetibile.

Ma non è che questo sia consolante o sminuisca l’evento. Dal mio punto di vista è pure peggio perché sottrae spessore e sostanza alle battaglie importanti (parità di genere, antirazzismo, diritti delle persone LGBTQ, body positivity, etc.) riducendo un panorama valoriale complesso a una mera questione di appetibilità sul mercato. Mercato che ha un peso, ovviamente, ma che non è l’unico fattore di valutazione e non è necessariamente prioritario quando si parla di diritti.

Il caso dei libri di Roald Dahl mi ha fatto pensare che, alla fine, la famigerata cancel culture non si presenterà con i tamburi e le fanfare, non è un gruppo di femministe esasperate, di attivisti/e LGBTQ esagitati, di antirazzisti molto woke, ma si manifesterà come acquiescenza a un trend che aggiusta le battaglie civili alla esclusiva misura di una maggior vendibilità.

La discussione, comunque sia, è piuttosto significativa rispetto ad alcune trasformazioni in corso. Tutto questo fermento mi ha fatto venire in mente anche un episodio che per la mia formazione è stato importante. Durante un corso di storia della lingua italiana, uno dei casi di studio affrontati era la questione della leggibilità dei Promessi sposi scritti in un italiano che non era più comprensibile ai ragazzi.

La questione non era banale. Si discuteva infatti se era opportuno o meno trasporre in italiano corrente la lingua dei Promessi sposi. Sembra una cosa semplice ma richiama due aspetti per nulla scontati. Il primo è che la questione della lingua in Manzoni è fondamentale. Il secondo è che la cosa riguarda anche l’approccio didattico.

Ci sono due possibilità: da una parte semplificare un linguaggio ritenuto difficile portandolo al livello dei ragazzi; dall’altra dare ai ragazzi gli strumenti per comprendere i Promessi sposi così come sono.

Il non detto di questo dibattito era però la cosa più interessante: nel primo caso si consideravano i ragazzi incapaci a priori di acquisire le conoscenze necessarie per leggere un testo difficile; nel secondo si chiedeva ai ragazzi di acquisire strumenti cognitivi accessori come condizione preliminare per poter leggere un testo.

Quest’ultima può sembrare la scelta più ovvia ma non lo è perché per farlo occorrono un livello di scolarizzazione più alto, diciamo scuola superiore, e una preparazione pregressa che non è indifferente e tanto meno scontata.

Al di là del caso in sé, la questione riguardava due aspetti importanti: l’accessibilità, nel senso di comprensione, e l’integrità del testo. Si parlava di integrità del testo perché, appunto, quello era un corso di laurea in filologia neolatina e dunque il caso era utile alla comprensione del metodo. Tutto era giocato su due aspetti entrambi importanti ma apparentemente inconciliabili.

Riscrivere i Promessi sposi secondo il linguaggio contemporaneo attribuendoli a Manzoni era impensabile: un tradimento del lettore prima ancora che dell’autore. Viceversa, pretendere che tutti acquisissero le conoscenze necessarie alla lettura di quel testo significava stabilire uno standard che avrebbe escluso una parte dei lettori.

Non dirò la soluzione anche perché non fu data: era più importante capire la problematizzazione. Dirò invece quello che è venuto dopo, ovvero la risposta che ho trovato e che ritengo un compromesso onorevole.

Nel tempo, grazie anche alla diffusione dei libri illustrati, delle graphic novel (che per inciso amo tantissimo), dell’attenzione ai libri per ragazzi, sono uscite diverse riscritture e adattamenti dei Promessi sposi.

Se ci fate caso le riscritture e gli adattamenti non vanno mai sotto il nome di Alessandro Manzoni ma sotto quello del curatore o della curatrice che non solo se ne prende il merito ma anche la responsabilità. Sottolineo: merito e responsabilità.

Infatti non è Manzoni che ha scritto quelle parole ma un’altra persona con una sensibilità – giustamente – moderna e un sistema di pensiero e di valutazione – giustamente – moderno.

Si privilegiano esclusivamente la trama e l’intreccio mentre si adattano la lingua e le espressioni al modo in cui ci si esprime oggi. È un’operazione legittima e non intacca l’integrità del testo lasciando credere al lettore che Manzoni parlasse e ragionasse come si ragiona nel XXI secolo.

Ora facciamo finta che io non parli di Alessandro Manzoni ma di Roald Dahl. Che cosa impedisce di presentare i suoi romanzi in forma di “adattamento” (non “aggiornamento” che è cosa diversa), lasciando integra la percezione di quello che è il linguaggio effettivo di Dahl?

Tanto più che in Dahl, oltre alla trama e all’intreccio, sembra proprio che la scelta linguistica abbia un peso specifico molto grande nel determinare la firma d’autore. Non tanto perché l’edizione è sacra ma, al contrario, perché l’edizione di un testo d’autore può essere soggetta a tutti i rimaneggiamenti possibili. Ed è perfettamente legittimo.

A un solo patto: che se la mano non è dell’autore lo si presenti come rimaneggiamento o come riscrittura. Infatti questo è il modo più razionale per lasciare integro un testo, peraltro storicizzato, e per rendere più facile quel testo per la sensibilità contemporanea.

Non c’è niente che lo vieta. Se deve essere libertà – e io penso sia legittimo – deve esserlo fino in fondo non a metà: sia nel modificare un testo d’autore, sia nell’avvertire il lettore – chiunque egli sia – che il testo d’autore è stato modificato da altri.

E allora la domanda è: perché non viene fatto?


* Un’amica mi fa notare che il bacio del principe è un’invenzione Disney. È vero, basta leggere la fiaba, che ha una storia editoriale piuttosto articolata, in una delle edizioni dei Grimm.


Gallimard Jeunesse, l’editore francese dei libri per ragazzi di Roald Dahl, ha fatto sapere che non modificherà le proprie edizioni: «Questa riscrittura riguarda solo la Gran Bretagna. Non abbiamo mai modificato i testi di Roald Dahl e a oggi non abbiamo in programma di farlo». Invece Salani, l’editore italiano, non ha finora risposto alle richieste di commento.


Magari non sarà la soluzione ma questa riflessione che mi ha segnalato la mia amica Beatrice mi sembra molto interessante:

https://www.theguardian.com/commentisfree/2013/oct/14/feminism-capitalist-handmaiden-neoliberal

Il Pinocchio politico di Guillermo del Toro

Fin dalle prime immagini è una meraviglia per gli occhi, ma per chi si aspetta una lettura filologica dell’opera di Carlo Lorenzini ci saranno molte sorprese. Se non volete spoiler fermatevi qui perché parlerò apertamente del film e della storia.

Il Pinocchio di Guillermo del Toro non solo è ambientato in Italia nella seconda guerra mondiale ma i personaggi si danno del voi, coerentemente con l’uso dell’epoca, e il clima di un paese di provincia di quegli anni è ben ricostruito. Sono proprio gli scorci dei paesi preappenninici della Toscana che a chi è nato in queste terre sembra di riconoscere ad ogni piè sospinto. E la prima emozione forte che mi ha comunicato è stata quella di vedersi raccontati, con rispetto e con amore.

Mi ha colpito molto lo spazio che assume il rapporto con la chiesa e il prete di Geppetto, presentato come artigiano intento a realizzare il crocifisso di legno sopra l’altare. Mi sono chiesta perché e poi l’ho capito lungo lo svolgimento del film. Essendo ambientato in un paesino italiano durante la seconda guerra mondiale tutto è stato ricostruito con attenzione, non solo i dettagli di costume ma anche il clima socioculturale, ed è abbastanza ovvio che il ruolo della religione in quell’epoca fosse di forte riferimento per tutta la comunità.

È straniante sentire un Pinocchio che tutto contento dice vuole andare in chiesa ma in effetti, vista l’attenzione alla ricostruzione del periodo, è perfettamente coerente. Il regista però non si lascia scappare l’occasione di fare un parallelo sorprendente tra il crocifisso e Pinocchio, entrambi di legno, entrambi fatti da Geppetto ma l’uno adorato dalla gente e l’altro accusato di stregoneria dalla stessa gente perché è un burattino che si muove e parla autonomamente.

Già su questo aspetto ci sarebbe una marea di cose da dire ma preferirei se gli spunti venissero sviluppati in un eventuale confronto con chi legge queste mie considerazioni. Comunque questo è uno dei temi forti del film: il burattino è l’immagine dell’emarginato, del l’outsider e in questo senso ha a che fare con l’immagine sacra molto più di quel non può sembrare a un primo sguardo. Ciò è possibile solo nella grande sensibilità di Guillermo del Toro che lo spiega tra gli altri dettagli preziosi della realizzazione del film e della sua filosofia nello speciale sul processo di creazione.

Il racconto non parte da Geppetto che crea il burattino ma da suo figlio Carlo, morto sotto un bombardamento casuale (dice il narratore: le bombe furono sganciate per alleggerire gli arei) proprio mentre il falegname fa un sopralluogo per lavorare al crocifisso. Il trait d’union è la pigna perfetta che Carlo tiene in mano e rimane come ultimo ricordo del bambino. Il padre seppellisce il figlio morto in modo così atrocemente inutile e accanto alla tomba seppellisce anche la pigna che dopo molti anni da vita a un pino che cresce mentre Geppetto si abbrutisce nell’alcol, incapace di arrendersi alla morte di Carlo.

Una notte, più ubriaco del solito, Geppetto decide di abbattere il pino nato dalla pigna di Carlo e di farci un burattino che gli ricordi il suo figliolo. Proprio quella notte il grillo Sebastian si installa in un buco del legno del pino e viene portato nel laboratorio del falegname insieme al tronco.

Geppetto scolpisce il burattino in stato di ubriachezza ed è il motivo per cui Pinocchio è brutto. Intendiamoci, il character design, è pieno di dettagli poetici e romantici, ma Pinocchio è l’opposto del pupazzo carino di qualsiasi reinterpretazione precedente. Ha la faccia asimmetrica, una fessura sulla fronte cucita con due punti, la faccia immobile e al posto del cuore ha un buco che è esattamente il vano del legno abitato dal grillo Sebastian. Ed è proprio Sebastian, il cuore di Pinocchio, a rappresentare la voce narrante del racconto.

Mentre Geppetto dorme ubriaco senza aver completato il burattino, si palesa una creatura magica rappresentata come un incrocio tra una chimera e un cherubino alato dai molti occhi. La creatura è la vita e insieme a sua sorella, la morte, prende il posto della fata Turchina dando un senso completamente diverso al racconto che come dicevo è una rilettura e non una semplice messa in scena di Pinocchio.

La vita chiama le creature spirituali che abitano il bosco e da così vita al burattino. Da questa ampia e sostanziosa premessa si sviluppa tutto il racconto che prende una piega tutta particolare giocata non genericamente sul percorso di formazione del burattino ma sul suo rapporto con il circo dei burattini, dove si esibisce sotto il controllo del conte Volpe, e sul suo rapporto col fascismo, incarnato dalla figura del Podestà, che non solo rappresenta la massima autorità del paesino ma è anche il padre di Lucignolo, più fedele all’ideale che non all’amore per il figlio.

La figura del gatto non c’è, viene in qualche modo riassorbita dalla scimmia di proprietà del conte Volpe, che si chiama Spazzatura (in italiano anche nella versione inglese). Sostanzialmente il conte Volpe è da solo a vessare Pinocchio e maltrattare la sua scimmia per quel piccolo potere che pensa di detenere.

Dapprima Pinocchio viene assoldato dal conte Volpe per esibirsi come burattino straordinario. Grazie alla scimmia, invidiosa che il burattino sia il preferito del conte Volpe, Pinocchio viene a sapere che nessuno dei soldi degli incassi promessigli dall’impresario è andato a Geppetto come pattuito. Allora, d’accordo con Spazzatura, Pinocchio allestisce uno spettacolo irriverente ai danni di Mussolini, invitato speciale del conte Volpe che desidera ingraziarsi il potere per fare ancora più soldi.

Mussolini ordina di sparare al burattino ma il burattino non può morire e si ritrova in un regno dei morti dove dei conigli scheletrici blu accatastano la sua bara in mezzo a tante altre. Pinocchio esce dalla bara e si ritrova al cospetto della morte, un’altra chimera blu, che gli spiega che non può morire ma solo rimanere nel regno dei morti per un po’ prima di ritornare in vita. E infatti Pinocchio resuscita. Buffamente e ironicamente Guillermo del Toro fa dire alle stesse beghine che avevano accusato Pinocchio di stregoneria, che la sua resurrezione è un miracolo del cielo. E a noi viene da sorridere come se avesse fatto una sberleffo alle due bigotte. Non si può non cogliere in questo aspetto lo sviluppo del primissimo e tenero paragone tra il burattino stortignaccolo e il Cristo di legno realizzato da Geppetto.

Inizia qui la seconda parte della formazione di Pinocchio con il Podestà che lo prende per farne un perfetto soldato, insieme al figlio Lucignolo, trattato sempre con freddezza e distacco. Pinocchio e Lucignolo, come due reietti, fanno amicizia in vamerata e diventano complici. Quando il Podestà li costringe a lottare in una guerra simulata, con le bombe di coriandoli e i proiettili di vernice colorata, i due riescono a trovare il modo di vincere insieme e di fare pari.

La notizia è accolta pessimamente dal Podestà che vorrebbe costringere Lucignolo a uccidere Pinocchio per prevalere. Ma Lucignolo si rifiuta e in questo si manifesta il grande amore di Guillermo del Toro, un gigante sia fisico che morale, verso gli emarginati. Lucignolo disobbedendo è buono. E nello stesso modo Pinocchio, definito dal Podestà un burattino ribelle e dissidente, fa della sua personalità irriverente una chiave per la libertà.

Nel frattempo Geppetto è finito nel ventre del pescecane (un pescecane meravigliosamente freak) andando alla ricerca di Pinocchio per mare. Una bomba distrugge il campo di addestramento per i bambini soldato del Podestà e Pinocchio si ritrova ad affrontare la vendetta del conte Volpe, con l’aiuto della scimmia Spazzatura che finalmente si emancipa e passa dalla parte del burattino, provocando la fine del conte Volpe.

Pinocchio e la scimmia cadono in mare e lì vengono inghiottiti dal pescecane. Trovano Geppetto e il grillo e riescono a liberarsi sfruttando la capacità del naso di Pinocchio di crescere con le bugie. Anche qui Guillermo del Toro introduce una variante interessante. Il naso non cresce solamente, diventa un ramo di pino con tanto di fronde e nuove pigne.

Pinocchio mente, incoraggiato da tutti, per farsi crescere il naso e con quello raggiungere lo sfiatatoio dello squalo. I quattro riescono a liberarsi in modo rocambolesco ma alla fine Geppetto cade in acqua svenuto, rischiando di annegare. Pinocchio muore un’altra volta e chiede alla morte di salvare Geppetto. La sfinge gli risponde che è possibile solo a patto che lui diventi umano cioè mortale. E il modo per ottenerlo è rompere le regole, visualizzato nella scena con la rottura delle clessidre che regolano il tempo di Pinocchio. Pinocchio rompe le regole e diventa umano ma, in un colpo di scena molto apprezzabile, rimane comunque un burattino benché mortale.

Pinocchio muore nel tentativo di salvare Geppetto che approda sano e salvo sulla spiaggia col grillo e la scimmia. Accortosi della morte di Pinocchio capisce che non avrebbe mai potuto essere come il figlio Carlo e gli dice che lo ama così com’è. Si palesa ancora una volta la vita che spiega come Pinocchio sia morto per sempre. Solo il grillo riesce a risolvere la situazione riscuotendo la promesse che gli aveva fatto la vita di avverare un suo desiderio. Il grillo desidera che Pinocchio viva e così accade.

In un finale del tutto inatteso e di una bellezza sorprendente assistiamo poi alla morte di Geppetto, a quella del grillo, sepolto in una scatola di fiammiferi nel cuore di Pinocchio. E infine muore anche la scimmia Spazzatura, ultima compagna con cui Pinocchio andava a portare i fiori sulle tombe degli altri due. Quando muore anche Spazzatura, Pinocchio è libero di andare per il modo nella certezza che prima o poi morirà anche lui.

La chiusura avviene sull’immagine una pigna di pino, in una perfetta circolarità narrativa, mentre la voce del grillo spiega che le cose accadono e poi si muore tutti, prima o poi. Che detto così sembra una botta di pessimismo ma in realtà, nel contesto del racconto, con la pigna in primo piano, è un chiaro inno alla vita e alle storie straordinarie che tutte le vite racchiudono.

Ho già notato che la ricostruzione degli ambienti sociali e dei contesti ambientali è particolarmente attenta. Giullermo del Toro ha usato la consulenza di Ruth Ben Ghiat storica del fascismo, dei totalitarismi e del colonialismo italiano. Colgo l’occasione per ringraziare Igiaba Scego che mi ha segnalato questa collaborazione. In effetti si vede proprio la mano di qualcuno che conosce sia l’epoca che gli ambienti. Ed è un gran bene.

C’è un dettaglio di cui mi sono innamorata. Nel paesino di Geppetto si accede attraverso un arco medievale, inerpicandosi su una strada in salita che fa subito una curva. Su quella curva c’è un palazzo ad angolo, sulla cui piccola facciata c’è un’immagine di Mussolini che viene coperta dal cartellone del circo sgangherato. Questo scorcio mi ha dato la sensazione di vedere i paesini che conosco benissimo e mi ha attivato il ricordo di due staffette che ho avuto la fortuna di intervista insieme a mio marito: Didala Ghilarducci e Nara Marchetti. Nara ci ha raccontato dei ritratti di Garibaldi che tenevano in casa di nascosto quando abitavano a Longoio (Bagni di Lucca) e che non erano ben visti dai fascisti. Mi è venuto in mente anche mio nonno, che non ho mai conosciuto ma di cui mi hanno raccontato la storia. Prima di emigrare in America e poi trasferirsi in città, era nato e cresciuto a Villa Basilica, un paese a un tiro di schioppo da Collodi. Quello scorcio di paesello con la faccia del duce e il motto fascista ha interagito con tutti questi racconti nella mia memoria, dandogli una forma nuova, rivitalizzandoli in un modo imprevisto. Questo scorcio potrebbe essere uno dei tanti paeselli del pre Appennino, come quello dove visse Carlo Lorenzini oppure mio nonno Ugo.

E non credete a chi dice solo che questo è un Pinocchio antifascista perché davvero è molto molto di più. Questo Pinocchio è un emarginato, un diverso, un outsider non solo rispetto al fascismo ma anche rispetto a qualsiasi morale restrittiva e costrittiva, sia essa quella delle beghine, sia essa quella del Podestà, sia essa quella del conte Volpe accecato dall’avidità.

Ma l’ultima disobbedienza salvifica che compie questo Pinocchio è quella rispetto alla perfezione, al desiderio di Geppetto che Pinocchio sia come il bravissimo Carlo, il figlio morto bambino. Ebbene Pinocchio non è Carlo, Pinocchio non è perfetto, Pinocchio non è obbediente, Pinocchio non è compiacente e nelle mani innamorate di Guillermo del Toro tutti quelli che erano difetti da emendare diventano i pregi e le doti grazie ai quali il burattino salva sé stesso e tutto il suo mondo.

Tralascio il parterre de roi che si è cimentato nel doppiaggio originale. Andatelo a vedere per curiosità. Un solo consiglio: guardate anche il video sulla realizzazione tecnica del film, completamente in stop motion. Questo film non è una meraviglia solo per il risultato visivo ma anche per il modo in cui è stato lavorato e per le scelte fatte dal regista proprio su questo piano.

The wonder il prodigio necessario al patriarcato

The wonder è un film visivamente sontuoso. Attenzione a non confonderlo con titoli analoghi. Sebastian Lelio, il regista, ha scritto la sceneggiatura con Emma Donoghue, l’autrice del racconto omonimo che parla di una fasting girl, una di quei ragazzini che in età vittoriana erano ritenuti capaci di vivere senza alimentarsi per lunghi periodi, effetto sociale della grande carestia e della recente guerra di Crimea.

La fotografia è estremamente elegante, la ricostruzione dei costumi e degli ambienti molto ben curata. Il livello di qualità di questo film è tale da spingere me e Marito, che di questo si occupa, a discutere di come le chimere diffondano le luci sui volti dei componenti della commissione uno per uno.

Florence Pugh nei panni dell’infermiera è notevolissima, anche se tutto il cast è davvero ma davvero buono. La storia è serrata, l’analisi sociale del fenomeno prodigioso niente affatto banale. A me ha ricordato il bello studio di Giordano Bruno Guerri su Maria Goretti e il contesto sociale in cui è vissuta, bisognoso di una santa propria. Una società di contadini, depauperata di tutto in cui tra i pochi notabili vige una rigorosa supremazia di stampo patriarcale, col potere di distruggere l’economia delle famiglie con un si o con un no.

++Qui inizia lo spoiler++

L’infermiera Elizabeth viene convocata dal consiglio autonominato di una piccola comunità irlandese per controllare continuativamente una bambina che si dice sopravviva da quattro mesi senza toccare cibo.

Si alternerà con la suora Michael, rappresentando insieme a lei le due componenti opposte che finiscono poi per trovare un punto d’incontro. Solo tra le due donne però, perché i notabili della comunità sono tutti uomini e tutti (tranne uno) interessati a far sì che il miracolo sia vero.

La cosa interessante è che dell’autonominato consiglio fanno parte il medico, il prete, un grande latifondista proprietario della casa dove vive la famiglia di Anna e il proprietario della locanda dove l’infermiera alloggia, l’unico davvero scettico, insieme al giornalista che diventa l’amante di Elisabeth.

Elisabeth scopre che per quattro mesi la madre di Anna ha sostenuto l’inganno passando il cibo alla figlia di bocca in bocca, mentre le da il bacio del buongiorno o della buonanotte. Ma la bambina è convinta che quella sia manna dal cielo, quindi alla domanda se mangia cibo risponde sempre di no perché lei si nutre solo della manna dal cielo.

La famiglia è povera, ultrareligiosa, fiaccata della grande carestia, inserita in una comunità divisa tra la maggioranza di chi vuole credere al prodigio a tutti i costi e la minoranza di chi resta fedele alla ragione. Il giudizio non è solo sui familiari della bambina ma anche e soprattutto sul consiglio dei notabili che fa carte false per avere il proprio caso di santità e per rendersi così speciale.

Ma l’osservazione voluta dalla commissione impone che la bambina non abbia più contatti con la madre. Dunque quando la madre non può più passare il cibo alla figlia, Anna comincia a deperire veramente, poi ad ammalarsi, ad allettarsi e infine entrare in una fase di agonia.

L’infermiera intuisce l’inganno, lo rivela alla commissione che non le vuol credere e chiama a testimoniare Anna che nega di essere stata nutrita da sua madre. Allora l’infermiera si appella alla donna pregandola di ricominciare a dare cibo alla bambina con i baci ma la madre rifiuta convinta che la morte della figlia potrà portare in paradiso lei e riscattare il figlio morto.

Nel frattempo infatti, Anna ha rivelato a Elisabeth che suo fratello, morto di malattia, l’ha abusata ripetutamente quando aveva nove anni e che la madre imputa a lei e al suo “peccato” la morte del figlio, rovesciando completamente il rapporto vittima e abusatore.

Anna è prossima alla morte. Elisabeth con un inganno la porta a una fonte sacra dove la bambina andava sempre. Le fa credere che morirà come Anna e rinascerà come Nan, una bambina che non ha mai vissuto niente di brutto nella sua vita. Anna si addormenta credendo di morire e si sveglia come Nan, che rinasce e viene portata a Dublino dal giornalista amico di Elizabeth. Nel frattempo Elisabeth da fuoco alla casa di Anna per cancellare prove della sua sparizione e permettere alla bambina di vivere una vita lontano da quell’ambiente.

Tutto funziona ma Elisabeth si ustiona le mani nell’incendio. Viene curata dalla suora Michael la quale racconta all’infermiera di aver avuto la visione di un angelo a cavallo che portava via Anna. Si capisce quindi che Michael ha intuito gli eventi e ne diventa complice quando chiede a Elisabeth la conferma che Anna è andata davvero in un posto migliore di quello.

++Spoilerissimo++

Chicca delle chicche, il film inizia con una carrellata sul set del film, partendo dal dietro le quinte e dichiarando il gioco, per poi concentrarsi sulla ricostruzione della stiva della nave dove l’infermiera sta mangiando durante la traversata dall’Inghilterra.

Stessa cosa alla fine. L’ultima scena continua con una ripresa dell’attrice che interpreta Kitty, la sorella di Anna, sul set in abiti contemporanei che ripete “dentro-fuori” in riferimento al gioco dell’illusione ottica dell’uccelino fuori e dentro la gabbia, con cui Anna ama giocare.

Tutto è incentrato sul cibo, sul sesso e sull’ingerenza sociale nelle relazioni personali e familiari. In fondo la famiglia che lascia morire Anna di inedia non è altro che la risposta a una comunità che ha bisogno della santa e per questo vuole crederci a tutti i costi.

++Un commento++

Mi è stato chiesto un commento sul ruolo oscurantista della Chiesa. Beh, questo non è un film contro la Chiesa o la superstizione o le credenze popolari. Questo è un film contro un patriarcato trasversale che attraversa tutti gli ambienti sociali, da quello religioso a quello laico, fino a quello proprio dell’ambiente scientifico.

Di fronte a una commissione autonominata di soli uomini, le due donne chiamate a osservare la digiunante, l’infermiera e la suora che rappresentano il punto di vista scientifico e religioso, stanno sempre in piedi entrambe e mai alla pari con gli uomini. Sempre nella posizione di essere interrogate o di servire.

L’infermiera viene contestata sul suo stesso piano professionale quando riferisce al medico i gravi sintomi della bambina dovuti alle privazioni e il medico le risponde che il lavoro di lei non è fare diagnosi: quello spetta soltanto a lui. Tra l’altro il dettaglio corrisponde al fatto concreto del non poter esercitare la medicina da parte delle donne.

Ebbene il ruolo oscurantista della Chiesa, in questa storia, non c’è. Per l’esattezza non c’è perché c’è un altro oscurantismo, meno ovvio, meno scontato e anche molto più disconosciuto. La Chiesa condanna il suicidio, non vuole la morte per inedia della presunta santa. Infatti alla fine il riconoscimento del prodigio evapora perché la bambina viene dichiarata morta di stenti. Nonostante il latifondista voglia fare un santuario sopra la casa bruciata, contraddetto dal prete e dal medico.

Ma diciamolo meglio: il ruolo oscurantista è definito in modo molto più specifico e trasversale. La lettura di Sebastian Lelio e di Emma Donoghue è molto più grave e precisa di un’accusa generica alla Chiesa. Non è un caso se la suora si assicura che la bambina sia fuggita e stia bene. Michael scopre l’inganno e tace, pur potendo distruggere sia Elisabeth che Anna. E non solo rinuncia a farlo ma fa capire a Elisabeth che manterrà il segreto raccontando ciò che ha visto come una visione paradisiaca che paradossalmente avvalla la tesi che Anna sia morta, affermando che è fuggita. Attraverso questo racconto la suora usa la superstizione della famiglia e della comunità per avallare l’assurdo racconto della santità di una bambina lasciata morire d’inedia. Ma al tempo stesso lo rende anche inutilizzabile perché se la bimba è morta di inedita significa che il miracolo non è mai accaduto. 

Semmai c’è al centro di tutte le dinamiche la violenza maschile sottolineata più volte, non a caso, dalla locandiera. La quale dice che la colpa è degli uomini poco prima che la suora racconti la fuga di Anna. Ed è sempre la locandiera che si accorge che il proprio marito chiama l’infermiera davanti alla commissione degli uomini prima di lasciarle mangiare la sua colazione. È chiaramente tutto legato al potere maschile. Anche il padre di Anna, un uomo debole e vile, quando Elisabeth lo implora di far mangiare la figlia protesta che la bambina gli ha fatto giurare di non chiederglielo. Non potendo esercitare alcun potere usa le manie della bambina per difendere la propria posizione. Mentre la madre diventa a sua volta lo strumento del potere del fratello sulla sorella. 

Da notare che la locandiera, oberata dai troppi figli che non vuole, è proprio la moglie dell’unico uomo del consiglio che rimane scettico verso il digiuno di Anna. L’unico anti oscurantista. Non opprime la ragazzina ma opprime comunque la moglie atteraverso legami sociali e morali che non vengono solo imposti e accettati ma anche esercitati e goduti. In sostanza l’oscurantismo è tutto legato alla parte maschile della società rappresentata. 

E in effetti questo risulta. Il medico che doveva rappresentare la scienza avalla a tutti i costi la versione della bimba santa, il latifondista proprietario della casa vuole creare un santuario sopra la casa bruciata, solo il prete, che fino ad allora avallava la versione della manna, dice che non ci sono le prove.

++Allargare il panorama++

Se invece si vuole parlare del ruolo della chiesa cattolica irlandese nel perpetrare una serie di atti violenti e abusatóri contro le donne le scelte di visione sono diverse. Per mostrare questo aspetto uno dei film migliori è Magdalene.

The wonder parla di patriarcato in senso trasversale, ben oltre la questione confessionale. L’oscurantismo è rappresentato in tutta la società vittoriana, e non a caso le uniche figure capaci di riscatto sono le donne che per un verso o per l’altro hanno studiato: l’infermiera e la suora.

Viceversa Magdalene parla chiaramente degli abusi della chiesa cattolica irlandese nei confronti delle donne. Molto meno incisivo ma comunque bello è Philomena. E sempre per parlare del rapporto della Chiesa con le donne c’è Agnus Dei (o Les innocents). Questo solo per citarne alcuni dei titoli tra i più famosi.

Non ho paura di parlare dell’Oscurantismo della Chiesa. Semplicemente non voglio infilare tutto nello stesso calderone perché è sbagliato metodologicamente e non offre nemmeno alcun vantaggio dal punto di vista della riflessione femminista.

Ma di quale indifferenza andate parlando?

A Civitanova Marche, il 29 luglio, è stato ucciso un uomo per futili motivi, con varie aggravanti di cui si occuperà la legge. Fin dal primo lancio della notizia si è parlato di indifferenza. E da quel momento è stato tutto un susseguirsi di commenti e articoli sulla stessa falsariga. Solo per caso mi sono resa conto che le cose non erano andate così come un certo giornalismo voleva raccontare.

Si è verificata un’incredibile manipolazione delle notizie per cui le persone che sono intervenute, pur non riuscendo a evitare l’omicidio, sono diventate per l’opinione pubblica nazionale (e poi internazionale) indifferenti e razziste. L’effetto telefono senza fili ha trasformato quei pochi individui presenti in folle indifferenti perché razziste, pur senza sapere niente di loro

La prima affermazione è stata che erano tutti lì a riprendere la scena col telefonino. 

Ti aspetteresti una gran quantità di video da vari punti di vista, invece no. Il mio compagno mi dice: “io ho visto un solo video, ora controllo”. Chiede in rete, verifica, e in effetti c’è un solo video. Potremmo esserci sbagliati, ma al momento non ne circolano altri: solo 39 secondi di girato, sempre gli stessi.

Hanno detto che la gente non ha fatto niente, è stata indifferente. 

Poteva essere. Il 30 luglio però leggo casualmente da Loredana Lipperini un post che riportava ciò che le aveva scritto Sara, che era presente ai fatti: «Io c’ero a Civitanova, ho visto tutto e ho aiutato come tante altre persone. Ho letto il commento di Mentana che come molti dice che quell’uomo è morto nell’indifferenza generale: non è vero. Io sono ancora molto scossa e non riesco a dormire. Di tutto questa assurdità di come può morire una persona mi porterò nel cuore sempre l’immagine del dottore in vacanza col costume che è stato chiamato dalle persone in attesa che arrivasse l’ambulanza e ha provato a rianimarlo. Delle persone si hanno ripreso ma le riprese sono state date subito agli agenti per incastrare l’aggressore che da quanto ho potuto capire è stato preso grazie anche a un signore che lo ha rincorso e lo ha segnalato alla polizia. Si capisce tanto da come vengono diffuse le notizie quando certe cose le vedi con i tuoi occhi». Lo stesso commento l’ho letto sulla bacheca di Sara, almeno finché ha retto. Poi il post non è stato più raggiungibile. Non è difficile immaginare perché lo abbia tolto.

C’era pieno di gente − hanno scritto − e nessuno ha mosso un dito. 

Siccome mi piace verificare sempre ho guardato il video (39 secondi), anzi l’ho analizzato. Si sentono le grida delle persone presenti e uno che dice «chiamate i carabinieri, la polizia, qualcuno». Infatti sono stati chiamati e sono arrivati, come ha scritto Sara. Incuriosita dalla polemica che montava ho continuato a verificare. Nel video non si vedono persone presenti. L’unico che si vede è un vecchio col cane. Il Corriere, riportando le informazioni degli investigatori, dice che erano in cinque, di cui due anziani (un uomo e una donna), la ragazza moldava che ha ripreso la scena e un impiegato che ha dato un calcio alla stampella e inseguito l’assassino. Le folle indifferenti erano due anziani, una donna moldava e un impiegato. La quinta, la fidanzata dell’assassino, era entrata in un negozio e non si è accorta di niente, se non a delitto compiuto. Lui era tornato indietro a cercare l’ambulante.

Cinque persone. Cinque. E un uomo nel pieno delle forze in preda a una crisi di rabbia violenta che atterra la vittima. Alle 14 di pomeriggio, in una strada dove non si vede passare nessuno.

Mario Mosconi, 56enne impiegato all’agenzia delle dogane e dei monopoli di Civitanova, che venerdì pomeriggio si trovava proprio in Corso Umberto I

Continuano a dire che nel video si vedono passanti che non si fermano.

Ho ripreso in mano il video più volte. Non chiedetemi perché. Sentivo che in questa versione c’era una sorta di pilota automatico. Ho osservato com’è composto il luogo dov’è avvenuto l’omicidio. L’aggressione si è compiuta su un marciapiede piuttosto ampio. C’è una fila continua di macchine parcheggiate sul lato. Poi c’è una strada grande dove passano le macchine. Sull’altro lato c’è un’altra fila continua di auto parcheggiate. I pochi passanti che si vedono scorrere camminano sul marciapiede dell’altro lato. L’assassino e la vittima stanno a terra, nascosti dalla auto parcheggiate. Quelli che si vedono passare sull’altro marciapiede non si fermano, non girano neanche le testa, non si accorgono di quello che sta succedendo. Li dividono dalla scena due file di macchine parcheggiate e una strada trafficata.

A volte la realtà è molto più mediocre dei fantasmi che le si proiettano addosso. Non c’è nessuna grandezza e nessun abisso. Non c’è vigliaccheria, non c’è eroismo. Non c’è indifferenza. Ci sono solo cinque persone che cercano di fare qualcosa e non riescono a far allontanare l’omicida.

Qualcuno sostiene che non si fanno le riprese davanti alla violenza. 

Beh invece si, si fanno eccome. Se non ci fosse stata una documentazione video l’omicidio di George Floyd nel 2020 sarebbe passato per un’altra cosa. Sarebbe stato possibile raccontare che George Floyd aveva reagito, che George Floyd era l’aggressore e l’omicidio era stato un incidente. Pensate davvero che sia così improbabile?

Molti si sono indignati perché la ragazza del video ha ripreso tutto per farlo vedere alla mamma. 

Leggo sul Corriere: “La testimonianza della donna moldava di 28 anni. Gli inquirenti: «Quel filmato ci ha dato una grossa mano»”. «Ho ripreso tutto col mio cellulare per farlo vedere a mia madre, l’ho girato in preda all’orrore». “«Per esempio – spiegano gli investigatori – il video che è diventato virale su Internet ci ha dato una grossa mano insieme ai filmati delle telecamere di Corso Umberto per ricostruire la dinamica esatta dell’aggressione subìta dal mendicante». Un documento importantissimo, dunque, che di sicuro finirà agli atti”. La ragazza ha effettivamente mandato tutto alla mamma. La mamma che non sta in Italia, ma in Moldavia. Poi sentita dalla Polizia, ha consegnato il video alle autorità senza problemi. Da quanto si è capito la madre ha inviato il video a un’amica in Italia e il video è circolato su Wathapp finché non è finito in rete.

Il ruolo delle immagini

La cosa più sorprendente per me è stata proprio l’indignazione per il video girato dalla ragazza moldava come fosse una colpa. Come se il fatto di girare un video che verrà usato nella ricostruzione dei fatti fosse insignificante. Come se non fosse la stessa identica cosa fatta dai testimoni dell’omicidio di George Floyd. 

E in merito al video voglio ricordare una cosa a cui non si pensa mai abbastanza. Vent’anni fa in Italia è stata compiuta un’enorme violazione collettiva dei diritti umani. Non lo dico io, lo dice Amnesty International, lo dicono i processi, lo dicono le ricostruzioni storiche. Io ero là. E sebbene non abbia fatto niente di male sono dovuta scappare. Ho dovuto proteggermi non solo quel giorno ma anche dopo. Quel giorno dalle botte, i giorni seguenti dall’opinione pubblica aizzata dai media. Io, come tutti quelli che erano a Genova, ho dovuto difendermi dalle accuse gratuite perché, nonostante avessimo preso le botte, respirato gas proibiti dalle convenzioni di guerra, riportato problemi di salute, nessuno credeva a quello che raccontavamo.

Ci ha salvati una sola cosa: l’enorme quantità di documentazione fotografica e video che siamo stati in grado di raccogliere e di mostrare. Circolava una sola indicazione tra gli attivisti: fotografa, filma, documenta tutto.  È grazie a questa documentazione che è stato possibile dimostrare ciò che poi è diventato di dominio pubblico: si è trattato di una violenza inaudita e noi siamo stati vittime. Non a caso il Media Center è stato distrutto poco prima che facessero irruzione alla Diaz. Noi però avevamo altre immagini, tante immagini. E le immagini hanno permesso di stabilire l’accaduto oltre ogni possibile dubbio. Le immagini sono state la nostra garanzia. Provate a pensare se non lo avessimo fatto: non ci sarebbe stato niente. I processi, le denunce di Amnesty, i racconti di quella inconcepibile violenza. Sarebbe stata solo la parola di un gruppo di giovani a cui non credeva nessuno. Sarebbe stato possibile negare che ci avevano pestati selvaggiamente e raccontare che ci avevano colpiti perché li avevamo aggrediti. E infatti ci hanno provato. Ma noi avevamo le immagini e con quelle abbiamo chiesto giustizia.

La percezione della realtà

Tutta questa vicenda si riduce a una sola domanda. Voi siete davvero sicuri che i giornali che hanno strillato all’indifferenza senza conoscere interamente gli eventi vi stiano aiutando a capire? Vi stiano facendo un bel servizio? Vi stiano raccontando i fatti?

In questi giorni ci siamo raccontati che siamo tutti eroi. Che si può fermare a mani nude un omicida in preda alla frenesia. Che quelli che avrebbero dovuto farlo erano due vecchi, due donne e un impiegato. Il quale, in effetti, è intervenuto. Ci siamo raccontati che chiamare i soccorsi, allertare le forze dell’ordine, dare un calcio all’oggetto con cui l’omicida colpiva la vittima, impedire la fuga dell’omicida e permetterne l’arresto, tentare di rianimare la vittima prima dell’arrivo dell’ambulanza, consegnare il video della colluttazione alla polizia, è “non fare niente”, è “indifferenza”. Ci siamo raccontati che un vecchio con il cane poteva fermare un quarantenne nel pieno delle forze, durante l’esplosione di una crisi di rabbia violenta.

Ho letto le affermazioni più disparate tutte accomunate da una cosa: l’assenza del principio di realtà. C’è chi ritiene paragonabile l’omicidio a quando da ragazzini si sono intromessi nelle zuffe dei compagnucci o all’intervento nelle liti in caso di diverbi, chi ipotizza che un vecchio senza alcuna preparazione poteva blandire un uomo in preda a una crisi di rabbia, chi suppone che il vecchio nel video sia razzista perché si siede e si gira, chi afferma che nel video si notano dei passanti senza riflettere se potevano davvero vedere la colluttazione e infine chi afferma che, invece di riprendere la scena, la ragazza moldava poteva tirare il cellulare addosso all’assassino, come se 200 grammi fossero un corpo contundente.

Qualcuno si è perfino spinto a parlare dell’effetto spettatore in un pubblico che assiste a una situazione d’emergenza. Anche se il fenomeno è ben documentato, nessuno parte dal dato di realtà: quanti erano, cosa potevano fare, cosa hanno fatto. Io non dico che i presenti non potessero comportarsi diversamente. Ma il dato di realtà è che ciascuno fa le cose in base alle capacità che ha, in base alle forze e alla preparazione che possiede. Il dato di realtà è che hanno cercato davvero di fare qualcosa, anche se non sono riusciti a distrarre l’aggressore e a salvare la vittima. Il dato di realtà è che non si possono chiamare indifferenti delle persone che hanno cercato di intervenire nel modo in cui potevano. 

Passo dopo passo

Cosa si può fare, mi ha chiesto qualcuno durante una discussione sui social. Non lo so. So solo cosa faccio io e di certo non per indicare agli altri la verità. Io non ce l’ho la verità. So solo che quando un racconto mi sembra troppo conforme alla mia visione del mondo mi fermo e osservo. E se noto qualche cosa che rompe la coerenza sospendo il giudizio.

Mi è capitato di cambiare idea anche dopo molto tempo ma non è un processo semplice. Credo che sia questione di tempismo: non partire mai con troppa sicurezza, qualunque sia la notizia in questione. Di fronte a reazioni univoche e uniformi, faccio un passo indietro per riconquistare la prospettiva. Se noto che all’indignazione per determinati fatti non corrispondono bene i fatti, comincio a confrontare i vari giornali.

È una semplice verifica delle fonti. Tutto dipende infatti dal rapporto tra opinione pubblica e media. Molte persone si sono immaginate la scena di una cinquantina di testimoni, tutti col cellulare puntato, che guardavano un bianco ammazzare un nero perché questo hanno recepito dai media. 

Non analizzo le fonti per indicare la verità ma solo per permettere a me stessa di capire. Alla base c’è la semplice consapevolezza che tutti siamo soggetti a cadere in distorsioni. Tale consapevolezza implica l’abitudine a tenere sotto controllo prima di tutto le mie distorsioni. Anch’io mi posso perdere, quindi fate le vostre considerazioni, usate il metodo, non lasciatevi travolgere dall’emotività delle notizie.

L’indignazione come unica risposta

Tutta questa vicenda si riduce a una sola domanda. Voi siete davvero sicuri che i giornali che hanno strillato all’indifferenza senza conoscere interamente gli eventi vi abbiano aiutato a capire? Vi abbiano fatto un bel servizio? Vi abbiano raccontato i fatti?

E se ieri ci siamo raccontati quello, mi pare coerente raccontarci oggi che i bipolari come lo è l’omicida possono uccidere, anzi uccidono. Quindi evitare di osservare tutto il resto, cioè la realtà. Cose come il contesto, la cura, gli episodi pregressi, i trattamenti sanitari obbligatori, le visite al pronto soccorso, la fuga dall’ospedale.

Ogni giorno c’è una nuova categoria pronta da odiare. Per sentirsi giusti, per sentirsi migliori, per sentirsi sicuri di quello che si è. Per rattoppare con una falsa coscienza, sempre rinnovata, i buchi delle nostre fragilità e della nostra impotenza.

Ma va tutto bene purché si dia in pasto la miseria quotidiana a un popolo sempre più arrabbiato e meschino, che sfoga sugli altri le proprie frustrazioni.  Perché in fondo tutto serve a un solo scopo: sapere che noi siamo migliori. E con l’indignazione che ci viene regolarmente erogata ne abbiamo ogni volta la rassicurante conferma.

Libertà di (non) poter scegliere

La sentenza della Corte suprema degli Stati Uniti rende i singoli stati liberi di applicare le proprie leggi in materia di aborto. Così Texas e Missouri lo hanno già reso illegale.

Le scelte etiche sono sempre terreno di mediazione e di potenziale conflitto ma questo divieto non ridurrà affatto l’aborto, lo renderà solo più classista.

Perché, appunto, il sistema valoriale non è necessariamente condiviso e non serve a niente vietare una pratica che per una parte della popolazione non rappresenta un problema etico. Si può solo regolamentarla.

Succederà che le donne ricche andranno ad abortire negli altri stati e le donne povere ricorreranno all’aborto clandestino sfuggendo definitivamente a qualsiasi rete sociale.

Paradossalmente le cose peggioreranno non solo per le donne ma anche per il famoso diritto alla vita che verrà compresso in una gestione clandestina e classista.

Può sembrare controintuitivo ma il fatto è che tutto quanto passa dalle maglie dello Stato ha maggiori margini di intervento, compreso il diritto alla vita.

La differenza non è solo nei valori, che ovviamente in questo caso non sono condivisi, ma proprio nell’approccio ai fenomeni che può essere pragmatico o dogmatico.

Hanno scelto quello dogmatico e non si sono preoccupati del danno che avrebbero fatto agli stessi valori che sostengono.

Come ha sottolineato un’amica, nel dibattito è stata criticata l’idea che la corte dovrebbe considerare la volontà pubblica. Citando il giudice supremo Rehnquist è stato affermato: “The Judicial Branch derives its legitimacy, not from following public opinion, but from deciding by its best lights”.

Credo che in questo modo il rischio che si corre è quello di corteggiare un modello di Stato etico che invece di considerare i cittadini portatori di diritti, decide qual è il comportamento eticamente edificante e pretende di educarli.

Quando lo Stato si propone di formare e orientare i cittadini nega di fatto l’autonomia ai singoli secondo una concezione paternalistica.

Ritengo invece che lo scopo dello Stato sia mediare la convivenza di persone con principi e valori diversi, evitando l’offesa ai diritti dell’uno da parte dell’altro non decidere cosa è meglio per i cittadini al posto loro come fossero bambini.

Anche perché non è solo questione di diritto (si lo è, certo, ma è anche altro). L’aborto è considerato sempre anti-etico nei un sistemi valoriali che ritengono individuo qualsiasi stadio di sviluppo del feto. Sistemi valoriali e di pensiero legittimi ma che non rappresentano una convinzione universale, nemmeno nelle religioni.

Credo si possa dire senza timore di smentite che la maggioranza dei cittadini concorda sul fatto che l’aborto tardivo, oltre un certo termine, è eticamente inaccettabile (tranne eccezioni precise): il problema è stabilire il confine tra un prima e un dopo.

Se non erro, il limite di tempo per l’aborto legale, coincide nelle varie legislazioni con il tempo di formazione del sistema nervoso. Al di là delle opinioni personali ritengo che sia l’unico principio che può essere considerato condiviso.

Capisco anche che per alcuni non sia così e dal mio punto di vista è importante regolamentare i termini dell’aborto legale proprio perché si tratta di un limite labile. Ma il ruolo dello Stato non è decidere cosa è meglio per me (e per inciso è lo stesso motivo per cui ero dubbiosa sull’intervento dello Stato nel caso di Charlie Gard).

Esiste poi un’ulteriore aspetto su cui mi ha fatto riflettere un’altra persona. Il tema dell’aborto legale è di fondamentale importanza e proprio per questo dovremmo evitare di scollegare la questione dei diritti dalla questione politico economica.

Per i ricchi cambierà poco mentre per i poveri cambierà tutto. Mi sembra invece che si stenti a parlare apertamente di povertà. Questa sentenza colpirà i poveri, i ricchi troveranno comunque una via di fuga. E se non colleghiamo il tema dei diritti al tema della povertà, i diritti non significano più niente.

Se oltre ai diritti in sé non viene difeso l’accesso universale ad essi, si sta difendendo un potenziale privilegio. Laddove si smette di vedere il privilegio è solo perché se ne sta assumendo il punto di vista.

https://www.ilpost.it/2022/06/24/corte-suprema-sentenza-aborto-motivazioni/

L’incubazione mediatica del femminicidio

Si chiamava Carol, Carol Maltesi ma i media la chiamano con il nome che aveva scelto come attrice porno, Charlotte. E invece delle foto normali, da sola o con suo figlio come per le altre donne, di lei ci sono le foto del set, quelle in cui è un po’ scollacciata ma non troppo sennò vengono oscurate dai social.

Lei, Carol, è stata uccisa e fatta a pezzi da un omicida che ha filmato tutto. Prima l’ha ridotta in fin di vita a martellate in testa. Quando ha capito che forse era ancora viva, l’ha finita con una coltellata alla gola perché stava soffrendo. Secondo lui è stato un gesto di pietà. Ha fatto a pezzi il corpo di lei asportandole i tatuaggi, lo ha messo nel congelatore e ce l’ha tenuto per due mesi. Poi lo ha distribuito in quattro sacchi della spazzatura e lo ha trasportato dal milanese all’alta Val Camonica. Ha provato anche a bruciarlo nel barbecue di un B&B ma non ce l’ha fatta. Sono le sue dichiarazioni. Infine lo ha gettato in un dirupo. Nei giorni successivi ha usato gli account di lei per rispondere a suo nome e depistare le indagini.

Pausa. Occorre tirare il fiato per sopportare questa sequela di orrori. Lui era il fotografo a cui lei si affidava. Tutte le foto di lei che ci sono sui social le aveva fatte lui. L’omicida è stato con la vittima per tutto il tempo del suo breve e recente percorso nel porno.

Eppure tutto quello che i giornali riescono a mettere nel titolo è che la vittima lavorava come attrice di film porno. Non contenti alcuni la chiamano con il nome che lei usava per lavoro. «Davide Fontana ha fatto a pezzi Charlotte Angie», una porno attrice. Come suona diversa da «Davide Fontana ha fatto a pezzi Carol Maltesi», una donna che sta crescendo un figlio, una donna che lavora, a prescindere che ci piaccia il lavoro che fa.

La chiamano Carol Maltesi solo e soltanto quando raccontano della volta in cui lei fece un video su Instagram per parlare della violenza sulle donne. Ma dimenticano che il tema del suo video sono le violenze psicologiche e i pregiudizi nei suoi confronti. Le sue parole su Instagram contro sono un pugno nello stomaco. Lei non si nasconde e parla proprio di ciò che ora, dopo la sua morte, la sta vittimizzando per la seconda volta.

Ma quando raccontano il suo omicidio, neanche il nome all’anagrafe le concedono. E neanche un’immagine normale: preferiscono mettere in copertina quelle un po’ hard, perché l’aspetto morboso di questo omicidio attira gli spettatori e così si capisce bene come stanno le cose.

Neanche la dignità nella morte. E neanche nella morte le concedono la libertà di gestire il proprio corpo secondo le sue scelte, giuste o sbagliate che siano. Come se l’approvazione sociale e morale fossero il prerequisito per essere considerate vittime. Se non ti comporti da brava ragazza, sei meno vittima delle altre, vali meno di un’altra donna. Lo fanno sempre: se non è l’approvazione sociale sono la verginità, la monogamia, la moralità, l’abbigliamento, l’atteggiamento.

Se non rispecchi i canoni prestabiliti va bene chiamarti col nome da attrice porno anche quando si parla del tuo omicidio. E mettere le foto in cui si vedono le tette, quel che basta non troppo, sennò i social censurano i capezzoli. Tanto non è morta una donna con una vita e un futuro, è morta una porno attrice. Poco importa cosa volesse, quali fossero i suoi progetti, la sua normalità. Faceva la porno attrice. Quindi era una porno attrice. E questo è tutto ciò che i titoli dei giornali riescono a raccontare. O meglio, vogliono raccontare.

Il giorno in cui si capirà che i femminicidi nascono nel momento in cui le donne smettono di essere percepite come esseri umani, sarà sempre troppo tardi.

Nutrendosi della reiterata rivittimizzazione delle vittime, il prossimo femminicidio comincia la sua storia qui, radicandosi nel modo in cui viene raccontato il femminicidio precedente. Comincia ora.

Oggi, con questa narrazione, inizia l’incubazione del prossimo femminicidio.

Edit:

Tra l’altro non si capisce neanche perché un comico venga stigmatizzato (giustamente) per una frase oggettificante nei confronti di donna una vittima di femminicidio mentre se la maggioranza dei giornali possono titolare sottolineando per dritto e per rovescio che la vittima faceva la porno attrice, mettendo come immagini le foto dei set, usando il nome della vittima come porno attrice al posto del nome all’anagrafe, invece non succede niente.