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Un discorso sulla violenza

La prima cosa che mi ha detto il mio compagno stamani è stata: lo hanno arrestato. Siamo rimasti in silenzio.

Sinceramente non so bene cosa si può dire in merito. Mi piacerebbe pensare che è possibile evitare queste morti ma la realtà è più complicata di quello che io vorrei e anche del modo in cui vorrei che andasse il mondo.

Tutti stanno trovando una colpa nelle parole del padre dell’omicida. Io penso siano una chiave per capire. Anche per capire perché è così difficile proteggersi.

Un bravo ragazzo lo poteva essere davvero. Un ragazzo incensurato, che non da grossi problemi. Un bravo ragazzo che è diventato un assassino, che ha ucciso una vita giovanissima, una persona che conosceva bene.

Vorrei dirmi che si può prevedere ma io non sono sicura. Non sono sicura di nulla. Sarebbe facile, sarebbe rassicurante se gli assassini fossero riconoscibili. Si salverebbero in tante.

Invece è questa la fregatura, che non te lo aspetti. Perché si pensa sempre che non ti farebbe mai del male. Ed è terribile pensare il contrario perché significa ammettere che non siamo esenti dal male, nessuno di noi.

Io ci credo che l’assassino prima di uccidere “non è mai stato uno violento“. Ed è questo il dramma. “Se ti fa del male dillo almeno a me” le diceva la sorella “ma lei non mi ha mai detto nulla in questo senso e quindi non ho mai pensato che quel ragazzo potesse in qualche modo ferirla”. È vero, è così, dicono la verità.

A me piacerebbe poter pensare che ci sono formule semplici per prevenire queste morti ma la realtà è che non lo so. Barbara mi aveva dato dei buoni consigli sul dottorato prima di finire uccisa dall’ex. E chi se lo aspettava? Lei così brillante, così impegnata, così realizzata. Io non ho risposte.

Educare i figli, ma davvero è questo? Qualcuno insegna forse che è accettabile picchiare una donna o ucciderla? Francamente credo che le famiglie lo facciano già di educare, nella maggioranza dei casi.

Eppure quest’anno sono state uccise 105 donne per lo più per motivi di genere. Lo dice l’Osservatorio dei diritti. Gelosia, possesso, incapacità di accettare la separazione e le scelte altrui, vendette, dimostrazioni di potere, ritorsioni.

Forse bisognerebbe parlare del fatto che la violenza ci abita tutti. Bisognerebbe non sentirci esenti delegando tutto ciò che di noi ci fa paura alla figura del mostro. Bisognerebbe pensare che l’omicida è uno di noi, non un estraneo. Non si nasce senza pulsioni violente: a controllare la violenza si impara.

Forse bisognerebbe cambiare paradigma, cominciare a valutare il fatto che la violenza non è estranea a nessuno e così, una volta ammessa, possiamo finalmente fare un discorso serio su come imparare a controllarla.

Forse.

https://www.centrouominimaltrattanti.org

Contro la mostrificazione

Anni fa, studiando per un lavoro, ho guardato un documentario sulla storia e il pensiero di Etty Hillesum. A un certo punto dei ragazzi intervistano Michale Wery, dell’Istituto di Neuroscienze di Bruxelles, sul fatto che la Hillesum (proprio lei) parla della barbarie che si può trovare dentro ciascuno di noi.

Wery dice: non spiego la barbarie; osservo me stesso. Ci sono volte in cui mi sono detto che c’è qualcosa di barbaro in me. Sono rimasto colpito dal potenziale di violenza che ho dentro. Poco tempo fa tenevo in braccio il gattino di mia figlia. Mi sono accorto che l’avrei potuto strangolare con una facilità assoluta e questa consapevolezza mi ha portato a interrogarmi. Quando ero giovane mio cugino mi ha chiesto di fare il bagnetto a suo figlio. Era neonato e in quell’istante mi sono reso conto che quel piccolo essere vivente era alla mia mercé. Quel giorno ho preso coscienza del potere che avevo su questo essere vivente. Quale sarà il limite?

Vent’anni dopo – continua Wery – stavo lavorando in giardino e ho sentito qualcuno gridare e chiamarmi per nome. Il mio vicino era caduto nel pozzo e stava annegando. Sapevo benissimo di doverlo aiutare, nonostante ciò ho avuto un’immagine terribile: “puoi fare ciò che vuoi di quest’uomo”. Hai il potere di trovare un modo per tirarlo fuori e salvarlo, hai il potere di ucciderlo. In quei momenti della mia vita ho avuto potere sull’altro. E mi dico: presta attenzione alla barbarie che dorme in te. Il fatto di dare un nome a queste cose, il fatto di parlarne, mi fa capire che non ne ho veramente paura. E questo ci rende più liberi rispetto alle tendenze che vivono in noi.

Il discorso di Wery mi incuriosì e ci ho pensato letteralmente per anni. La stessa cosa che lui racconta la sperimentiamo con i cuccioli, con i bambini, con le persone che ci chiedono aiuto. Una sensazione di potere assoluto che si presenta di fronte a chi consideriamo inferiore o più debole. Questo è l’elemento in grado di scatenare la barbarie in ciascuno di noi. Ogni giorno scegliamo diversamente ma ogni giorno questa possibilità può presentarsi. La natura di ogni essere umano può, all’occorrenza, essere violenta.

Accettare questo significa rinunciare all’idea del mostro che, in realtà, è solo il nome che diamo al riflesso della nostra paura. Noi abbiamo dentro (anche) pulsioni violente ed esserne consapevoli vuol dire accettare la necessità di farci i conti e di gestirle. Nessuna rabbia, nessuno sfogo sarebbe sufficiente a compensare lo stupore e il gelo che coglie leggendo la storia dell’ennesima donna uccisa. Non fatelo, non cedete alla tentazione di pensare che l’assassino sia qualcosa di diverso da un uomo. Non lasciatevi andare all’emotività facile dei discorsi forcaioli. Rimanete lucidi. Riflettete. Ragionate. Perché dove c’è caos c’è sempre qualcuno che riesce a trarne vantaggio.

(Continua….)

Nell’immagine installazione di Philip Worthingto, Shadow Monsters

MoMA, dec 7, 2012–jan 2, 2013

The wonder il prodigio necessario al patriarcato

The wonder è un film visivamente sontuoso. Attenzione a non confonderlo con titoli analoghi. Sebastian Lelio, il regista, ha scritto la sceneggiatura con Emma Donoghue, l’autrice del racconto omonimo che parla di una fasting girl, una di quei ragazzini che in età vittoriana erano ritenuti capaci di vivere senza alimentarsi per lunghi periodi, effetto sociale della grande carestia e della recente guerra di Crimea.

La fotografia è estremamente elegante, la ricostruzione dei costumi e degli ambienti molto ben curata. Il livello di qualità di questo film è tale da spingere me e Marito, che di questo si occupa, a discutere di come le chimere diffondano le luci sui volti dei componenti della commissione uno per uno.

Florence Pugh nei panni dell’infermiera è notevolissima, anche se tutto il cast è davvero ma davvero buono. La storia è serrata, l’analisi sociale del fenomeno prodigioso niente affatto banale. A me ha ricordato il bello studio di Giordano Bruno Guerri su Maria Goretti e il contesto sociale in cui è vissuta, bisognoso di una santa propria. Una società di contadini, depauperata di tutto in cui tra i pochi notabili vige una rigorosa supremazia di stampo patriarcale, col potere di distruggere l’economia delle famiglie con un si o con un no.

++Qui inizia lo spoiler++

L’infermiera Elizabeth viene convocata dal consiglio autonominato di una piccola comunità irlandese per controllare continuativamente una bambina che si dice sopravviva da quattro mesi senza toccare cibo.

Si alternerà con la suora Michael, rappresentando insieme a lei le due componenti opposte che finiscono poi per trovare un punto d’incontro. Solo tra le due donne però, perché i notabili della comunità sono tutti uomini e tutti (tranne uno) interessati a far sì che il miracolo sia vero.

La cosa interessante è che dell’autonominato consiglio fanno parte il medico, il prete, un grande latifondista proprietario della casa dove vive la famiglia di Anna e il proprietario della locanda dove l’infermiera alloggia, l’unico davvero scettico, insieme al giornalista che diventa l’amante di Elisabeth.

Elisabeth scopre che per quattro mesi la madre di Anna ha sostenuto l’inganno passando il cibo alla figlia di bocca in bocca, mentre le da il bacio del buongiorno o della buonanotte. Ma la bambina è convinta che quella sia manna dal cielo, quindi alla domanda se mangia cibo risponde sempre di no perché lei si nutre solo della manna dal cielo.

La famiglia è povera, ultrareligiosa, fiaccata della grande carestia, inserita in una comunità divisa tra la maggioranza di chi vuole credere al prodigio a tutti i costi e la minoranza di chi resta fedele alla ragione. Il giudizio non è solo sui familiari della bambina ma anche e soprattutto sul consiglio dei notabili che fa carte false per avere il proprio caso di santità e per rendersi così speciale.

Ma l’osservazione voluta dalla commissione impone che la bambina non abbia più contatti con la madre. Dunque quando la madre non può più passare il cibo alla figlia, Anna comincia a deperire veramente, poi ad ammalarsi, ad allettarsi e infine entrare in una fase di agonia.

L’infermiera intuisce l’inganno, lo rivela alla commissione che non le vuol credere e chiama a testimoniare Anna che nega di essere stata nutrita da sua madre. Allora l’infermiera si appella alla donna pregandola di ricominciare a dare cibo alla bambina con i baci ma la madre rifiuta convinta che la morte della figlia potrà portare in paradiso lei e riscattare il figlio morto.

Nel frattempo infatti, Anna ha rivelato a Elisabeth che suo fratello, morto di malattia, l’ha abusata ripetutamente quando aveva nove anni e che la madre imputa a lei e al suo “peccato” la morte del figlio, rovesciando completamente il rapporto vittima e abusatore.

Anna è prossima alla morte. Elisabeth con un inganno la porta a una fonte sacra dove la bambina andava sempre. Le fa credere che morirà come Anna e rinascerà come Nan, una bambina che non ha mai vissuto niente di brutto nella sua vita. Anna si addormenta credendo di morire e si sveglia come Nan, che rinasce e viene portata a Dublino dal giornalista amico di Elizabeth. Nel frattempo Elisabeth da fuoco alla casa di Anna per cancellare prove della sua sparizione e permettere alla bambina di vivere una vita lontano da quell’ambiente.

Tutto funziona ma Elisabeth si ustiona le mani nell’incendio. Viene curata dalla suora Michael la quale racconta all’infermiera di aver avuto la visione di un angelo a cavallo che portava via Anna. Si capisce quindi che Michael ha intuito gli eventi e ne diventa complice quando chiede a Elisabeth la conferma che Anna è andata davvero in un posto migliore di quello.

++Spoilerissimo++

Chicca delle chicche, il film inizia con una carrellata sul set del film, partendo dal dietro le quinte e dichiarando il gioco, per poi concentrarsi sulla ricostruzione della stiva della nave dove l’infermiera sta mangiando durante la traversata dall’Inghilterra.

Stessa cosa alla fine. L’ultima scena continua con una ripresa dell’attrice che interpreta Kitty, la sorella di Anna, sul set in abiti contemporanei che ripete “dentro-fuori” in riferimento al gioco dell’illusione ottica dell’uccelino fuori e dentro la gabbia, con cui Anna ama giocare.

Tutto è incentrato sul cibo, sul sesso e sull’ingerenza sociale nelle relazioni personali e familiari. In fondo la famiglia che lascia morire Anna di inedia non è altro che la risposta a una comunità che ha bisogno della santa e per questo vuole crederci a tutti i costi.

++Un commento++

Mi è stato chiesto un commento sul ruolo oscurantista della Chiesa. Beh, questo non è un film contro la Chiesa o la superstizione o le credenze popolari. Questo è un film contro un patriarcato trasversale che attraversa tutti gli ambienti sociali, da quello religioso a quello laico, fino a quello proprio dell’ambiente scientifico.

Di fronte a una commissione autonominata di soli uomini, le due donne chiamate a osservare la digiunante, l’infermiera e la suora che rappresentano il punto di vista scientifico e religioso, stanno sempre in piedi entrambe e mai alla pari con gli uomini. Sempre nella posizione di essere interrogate o di servire.

L’infermiera viene contestata sul suo stesso piano professionale quando riferisce al medico i gravi sintomi della bambina dovuti alle privazioni e il medico le risponde che il lavoro di lei non è fare diagnosi: quello spetta soltanto a lui. Tra l’altro il dettaglio corrisponde al fatto concreto del non poter esercitare la medicina da parte delle donne.

Ebbene il ruolo oscurantista della Chiesa, in questa storia, non c’è. Per l’esattezza non c’è perché c’è un altro oscurantismo, meno ovvio, meno scontato e anche molto più disconosciuto. La Chiesa condanna il suicidio, non vuole la morte per inedia della presunta santa. Infatti alla fine il riconoscimento del prodigio evapora perché la bambina viene dichiarata morta di stenti. Nonostante il latifondista voglia fare un santuario sopra la casa bruciata, contraddetto dal prete e dal medico.

Ma diciamolo meglio: il ruolo oscurantista è definito in modo molto più specifico e trasversale. La lettura di Sebastian Lelio e di Emma Donoghue è molto più grave e precisa di un’accusa generica alla Chiesa. Non è un caso se la suora si assicura che la bambina sia fuggita e stia bene. Michael scopre l’inganno e tace, pur potendo distruggere sia Elisabeth che Anna. E non solo rinuncia a farlo ma fa capire a Elisabeth che manterrà il segreto raccontando ciò che ha visto come una visione paradisiaca che paradossalmente avvalla la tesi che Anna sia morta, affermando che è fuggita. Attraverso questo racconto la suora usa la superstizione della famiglia e della comunità per avallare l’assurdo racconto della santità di una bambina lasciata morire d’inedia. Ma al tempo stesso lo rende anche inutilizzabile perché se la bimba è morta di inedita significa che il miracolo non è mai accaduto. 

Semmai c’è al centro di tutte le dinamiche la violenza maschile sottolineata più volte, non a caso, dalla locandiera. La quale dice che la colpa è degli uomini poco prima che la suora racconti la fuga di Anna. Ed è sempre la locandiera che si accorge che il proprio marito chiama l’infermiera davanti alla commissione degli uomini prima di lasciarle mangiare la sua colazione. È chiaramente tutto legato al potere maschile. Anche il padre di Anna, un uomo debole e vile, quando Elisabeth lo implora di far mangiare la figlia protesta che la bambina gli ha fatto giurare di non chiederglielo. Non potendo esercitare alcun potere usa le manie della bambina per difendere la propria posizione. Mentre la madre diventa a sua volta lo strumento del potere del fratello sulla sorella. 

Da notare che la locandiera, oberata dai troppi figli che non vuole, è proprio la moglie dell’unico uomo del consiglio che rimane scettico verso il digiuno di Anna. L’unico anti oscurantista. Non opprime la ragazzina ma opprime comunque la moglie atteraverso legami sociali e morali che non vengono solo imposti e accettati ma anche esercitati e goduti. In sostanza l’oscurantismo è tutto legato alla parte maschile della società rappresentata. 

E in effetti questo risulta. Il medico che doveva rappresentare la scienza avalla a tutti i costi la versione della bimba santa, il latifondista proprietario della casa vuole creare un santuario sopra la casa bruciata, solo il prete, che fino ad allora avallava la versione della manna, dice che non ci sono le prove.

++Allargare il panorama++

Se invece si vuole parlare del ruolo della chiesa cattolica irlandese nel perpetrare una serie di atti violenti e abusatóri contro le donne le scelte di visione sono diverse. Per mostrare questo aspetto uno dei film migliori è Magdalene.

The wonder parla di patriarcato in senso trasversale, ben oltre la questione confessionale. L’oscurantismo è rappresentato in tutta la società vittoriana, e non a caso le uniche figure capaci di riscatto sono le donne che per un verso o per l’altro hanno studiato: l’infermiera e la suora.

Viceversa Magdalene parla chiaramente degli abusi della chiesa cattolica irlandese nei confronti delle donne. Molto meno incisivo ma comunque bello è Philomena. E sempre per parlare del rapporto della Chiesa con le donne c’è Agnus Dei (o Les innocents). Questo solo per citarne alcuni dei titoli tra i più famosi.

Non ho paura di parlare dell’Oscurantismo della Chiesa. Semplicemente non voglio infilare tutto nello stesso calderone perché è sbagliato metodologicamente e non offre nemmeno alcun vantaggio dal punto di vista della riflessione femminista.

Libertà di (non) poter scegliere

La sentenza della Corte suprema degli Stati Uniti rende i singoli stati liberi di applicare le proprie leggi in materia di aborto. Così Texas e Missouri lo hanno già reso illegale.

Le scelte etiche sono sempre terreno di mediazione e di potenziale conflitto ma questo divieto non ridurrà affatto l’aborto, lo renderà solo più classista.

Perché, appunto, il sistema valoriale non è necessariamente condiviso e non serve a niente vietare una pratica che per una parte della popolazione non rappresenta un problema etico. Si può solo regolamentarla.

Succederà che le donne ricche andranno ad abortire negli altri stati e le donne povere ricorreranno all’aborto clandestino sfuggendo definitivamente a qualsiasi rete sociale.

Paradossalmente le cose peggioreranno non solo per le donne ma anche per il famoso diritto alla vita che verrà compresso in una gestione clandestina e classista.

Può sembrare controintuitivo ma il fatto è che tutto quanto passa dalle maglie dello Stato ha maggiori margini di intervento, compreso il diritto alla vita.

La differenza non è solo nei valori, che ovviamente in questo caso non sono condivisi, ma proprio nell’approccio ai fenomeni che può essere pragmatico o dogmatico.

Hanno scelto quello dogmatico e non si sono preoccupati del danno che avrebbero fatto agli stessi valori che sostengono.

Come ha sottolineato un’amica, nel dibattito è stata criticata l’idea che la corte dovrebbe considerare la volontà pubblica. Citando il giudice supremo Rehnquist è stato affermato: “The Judicial Branch derives its legitimacy, not from following public opinion, but from deciding by its best lights”.

Credo che in questo modo il rischio che si corre è quello di corteggiare un modello di Stato etico che invece di considerare i cittadini portatori di diritti, decide qual è il comportamento eticamente edificante e pretende di educarli.

Quando lo Stato si propone di formare e orientare i cittadini nega di fatto l’autonomia ai singoli secondo una concezione paternalistica.

Ritengo invece che lo scopo dello Stato sia mediare la convivenza di persone con principi e valori diversi, evitando l’offesa ai diritti dell’uno da parte dell’altro non decidere cosa è meglio per i cittadini al posto loro come fossero bambini.

Anche perché non è solo questione di diritto (si lo è, certo, ma è anche altro). L’aborto è considerato sempre anti-etico nei un sistemi valoriali che ritengono individuo qualsiasi stadio di sviluppo del feto. Sistemi valoriali e di pensiero legittimi ma che non rappresentano una convinzione universale, nemmeno nelle religioni.

Credo si possa dire senza timore di smentite che la maggioranza dei cittadini concorda sul fatto che l’aborto tardivo, oltre un certo termine, è eticamente inaccettabile (tranne eccezioni precise): il problema è stabilire il confine tra un prima e un dopo.

Se non erro, il limite di tempo per l’aborto legale, coincide nelle varie legislazioni con il tempo di formazione del sistema nervoso. Al di là delle opinioni personali ritengo che sia l’unico principio che può essere considerato condiviso.

Capisco anche che per alcuni non sia così e dal mio punto di vista è importante regolamentare i termini dell’aborto legale proprio perché si tratta di un limite labile. Ma il ruolo dello Stato non è decidere cosa è meglio per me (e per inciso è lo stesso motivo per cui ero dubbiosa sull’intervento dello Stato nel caso di Charlie Gard).

Esiste poi un’ulteriore aspetto su cui mi ha fatto riflettere un’altra persona. Il tema dell’aborto legale è di fondamentale importanza e proprio per questo dovremmo evitare di scollegare la questione dei diritti dalla questione politico economica.

Per i ricchi cambierà poco mentre per i poveri cambierà tutto. Mi sembra invece che si stenti a parlare apertamente di povertà. Questa sentenza colpirà i poveri, i ricchi troveranno comunque una via di fuga. E se non colleghiamo il tema dei diritti al tema della povertà, i diritti non significano più niente.

Se oltre ai diritti in sé non viene difeso l’accesso universale ad essi, si sta difendendo un potenziale privilegio. Laddove si smette di vedere il privilegio è solo perché se ne sta assumendo il punto di vista.

https://www.ilpost.it/2022/06/24/corte-suprema-sentenza-aborto-motivazioni/

L’incubazione mediatica del femminicidio

Si chiamava Carol, Carol Maltesi ma i media la chiamano con il nome che aveva scelto come attrice porno, Charlotte. E invece delle foto normali, da sola o con suo figlio come per le altre donne, di lei ci sono le foto del set, quelle in cui è un po’ scollacciata ma non troppo sennò vengono oscurate dai social.

Lei, Carol, è stata uccisa e fatta a pezzi da un omicida che ha filmato tutto. Prima l’ha ridotta in fin di vita a martellate in testa. Quando ha capito che forse era ancora viva, l’ha finita con una coltellata alla gola perché stava soffrendo. Secondo lui è stato un gesto di pietà. Ha fatto a pezzi il corpo di lei asportandole i tatuaggi, lo ha messo nel congelatore e ce l’ha tenuto per due mesi. Poi lo ha distribuito in quattro sacchi della spazzatura e lo ha trasportato dal milanese all’alta Val Camonica. Ha provato anche a bruciarlo nel barbecue di un B&B ma non ce l’ha fatta. Sono le sue dichiarazioni. Infine lo ha gettato in un dirupo. Nei giorni successivi ha usato gli account di lei per rispondere a suo nome e depistare le indagini.

Pausa. Occorre tirare il fiato per sopportare questa sequela di orrori. Lui era il fotografo a cui lei si affidava. Tutte le foto di lei che ci sono sui social le aveva fatte lui. L’omicida è stato con la vittima per tutto il tempo del suo breve e recente percorso nel porno.

Eppure tutto quello che i giornali riescono a mettere nel titolo è che la vittima lavorava come attrice di film porno. Non contenti alcuni la chiamano con il nome che lei usava per lavoro. «Davide Fontana ha fatto a pezzi Charlotte Angie», una porno attrice. Come suona diversa da «Davide Fontana ha fatto a pezzi Carol Maltesi», una donna che sta crescendo un figlio, una donna che lavora, a prescindere che ci piaccia il lavoro che fa.

La chiamano Carol Maltesi solo e soltanto quando raccontano della volta in cui lei fece un video su Instagram per parlare della violenza sulle donne. Ma dimenticano che il tema del suo video sono le violenze psicologiche e i pregiudizi nei suoi confronti. Le sue parole su Instagram contro sono un pugno nello stomaco. Lei non si nasconde e parla proprio di ciò che ora, dopo la sua morte, la sta vittimizzando per la seconda volta.

Ma quando raccontano il suo omicidio, neanche il nome all’anagrafe le concedono. E neanche un’immagine normale: preferiscono mettere in copertina quelle un po’ hard, perché l’aspetto morboso di questo omicidio attira gli spettatori e così si capisce bene come stanno le cose.

Neanche la dignità nella morte. E neanche nella morte le concedono la libertà di gestire il proprio corpo secondo le sue scelte, giuste o sbagliate che siano. Come se l’approvazione sociale e morale fossero il prerequisito per essere considerate vittime. Se non ti comporti da brava ragazza, sei meno vittima delle altre, vali meno di un’altra donna. Lo fanno sempre: se non è l’approvazione sociale sono la verginità, la monogamia, la moralità, l’abbigliamento, l’atteggiamento.

Se non rispecchi i canoni prestabiliti va bene chiamarti col nome da attrice porno anche quando si parla del tuo omicidio. E mettere le foto in cui si vedono le tette, quel che basta non troppo, sennò i social censurano i capezzoli. Tanto non è morta una donna con una vita e un futuro, è morta una porno attrice. Poco importa cosa volesse, quali fossero i suoi progetti, la sua normalità. Faceva la porno attrice. Quindi era una porno attrice. E questo è tutto ciò che i titoli dei giornali riescono a raccontare. O meglio, vogliono raccontare.

Il giorno in cui si capirà che i femminicidi nascono nel momento in cui le donne smettono di essere percepite come esseri umani, sarà sempre troppo tardi.

Nutrendosi della reiterata rivittimizzazione delle vittime, il prossimo femminicidio comincia la sua storia qui, radicandosi nel modo in cui viene raccontato il femminicidio precedente. Comincia ora.

Oggi, con questa narrazione, inizia l’incubazione del prossimo femminicidio.

Edit:

Tra l’altro non si capisce neanche perché un comico venga stigmatizzato (giustamente) per una frase oggettificante nei confronti di donna una vittima di femminicidio mentre se la maggioranza dei giornali possono titolare sottolineando per dritto e per rovescio che la vittima faceva la porno attrice, mettendo come immagini le foto dei set, usando il nome della vittima come porno attrice al posto del nome all’anagrafe, invece non succede niente.

Luana morta in fabbrica. Il corpo, il femminismo e la politica.

Natalia Aspesi ha scritto un pezzo di confronto tra la morte in fabbrica di Luana D’Orazio e alcuni temi del femminismo contemporaneo. Gli argomento continuavano a risuonarmi in testa così mi sono riletta in dettaglio il pezzo in cui parlava di Luana, dell’operaia a cui è stato strappato lo scalpo in un calzaturificio di Asolo e dell’operaio morto schiacciato in una fabbrica di materie plastiche a Busto Arsizio.

La cosa mi ha colpito soprattutto per il clamore che sollevato sui media e sui social in merito alla questione, questione che alla fine si è messa a ruotare intorno alla Aspesi invece che a Luana. Se non nomino tutti quelli che sono intervenuti è solo perché c’è stata una tale serie di rimbalzi polemici che non ho voglia di ricostruirli.

Comunque per capire ho cercato le notizie di cronaca e ho letto una frase su una delle altre morti non mediatizzate di cui parla la Aspesi, che mi è arrivata come un cazzotto nello stomaco: “La donna si è presentata davanti all’azienda in compagnia della suocera per chiedere gli effetti personali del marito”. È una scena che conosco. Lo dico senza un briciolo di autocommiserazione. Anni fa un amico bussò a casa mia a notte fonda per dirmi di uscire con lui perché suo padre stava morendo. Non feci discussioni e nel tragitto per l’ospedale mi spiegò dell’incidente sul lavoro.

Arrivammo che suo padre era già morto e quel sacchetto di plastica con gli effetti personali glielo consegnarono in mano. Il giorno dopo avevo un compito di storia che il mio senso del dovere idiota mi impose di non disertare. Durante la ricreazione guardai quel giornale che avrei evitato se fossi rimasta a casa. Il bidello lo teneva aperto sulla pagina locale: c’era un infimo trafiletto che dava la notizia, a segnalare la normalizzazione di questi eventi proprio nella sua evasiva brevità. E questa cosa continua a succedere ancora oggi per gli incidenti sul lavoro, anche nei casi letali. Difficilmente i morti sul lavoro passano dalla cronaca locale alle testate nazionali.

Solo Luana D’Orazio è salita agli onori dei quotidiani di tutto il paese occupando brevemente l’intera scena. Per un momento Luana ha percorso gli infiniti capillari dei canali media e social con tutto il nero splendore della sua storia. Talmente pop, nell’immaginario di tutti, da arrivare ad essere ritratta in un murale. La santa laica, la madre dell’orfano, la bambina uccisa. Ogni volta che scrivo e ritocco il testo le mani mi diventano gelide com’è gelido quello che provo verso tutta la vicenda.

Qual è la differenza tra gli schieramenti contrapposti e quale il legame? Qual è la cosa che non riescono a vedere? È questa: il ruolo del corpo nel successo della notizia. “Immaginate il bel corpo giovane di Luana, un corpo come il vostro, straziato da una cieca macchina” scrive la Aspesi che coglie, ma senza approfondirlo, il punto centrale della narrazione. La notiziabilità del corpo di Luana, così bello, così giovane, così narrativamente adatto a farne una mini epopea popolare. Notiziabilità che nel rovescio della propria medaglia significa la scarsa, scarsissima, spendibilità mediatica di quello che come Luana non è. Di quello che non è bello e non è giovane, come nel caso degli altri operai feriti e uccisi.

Percentualmente parlando, la maggior parte della copertura mediatica per Luana D’Orazio non riguarda gli incidenti sul lavoro né le cause della sua morte. Riguarda la sua bellezza, la sua giovinezza, la sua maternità precoce, la sua comparsata nel film di Pieraccioni, i suoi video spensierati.

Alla fine tutto questo ha finito per divorare l’unica realtà: Luana non è morta per ragioni minimamente legate a questa narrativa, non serve evocarle; Luana è morta sul posto di lavoro. Il suo corpo bello, il suo viso giovane sono finiti dentro una macchina tessile. La macchina non fa differenza. Ma di questa storia sarebbe importato molto meno se la sua immagine non fosse stata così appetibile per la narrativa dei media.

E forse è proprio questo il punto di rottura ma anche di contatto che non si riesce a trovare tra gli schieramenti opposti, come in fondo in tutta la questione del contrasto tra narrativa e sostanza. L’ossessione del corpo, sempre soggetto alla valutazione e alla misurazione da parte di altri. In funzione della conformità alle attese sociali o al successo della notizia. So che non si capisce da che parte sto, se pro o contro la Aspesi. Ho scelto, ma in questo discorso il mio schieramento non ha alcuna importanza.

Sulla figura di Luana D’Orazio, vittima di un incidente sul lavoro, è stato applicato un filtro Instagram. Il corpo fisico consegnato al racconto orrorifico della macchina che ne fa scempio. L’immagine affidata alla narrazione di una bellezza eterna, celebrata dai media che si sono fatti teca di cristallo. Una teca come quella di Biancaneve che ha dominato il dibattito pubblico di quei giorni in una polemica infiammata ed effimera.

La morte di Luana – così vicina, attuale, drammatica – necessitava di emotività e semplificazione per essere facilmente assimilabile dal pubblico. Così è partito il filone narrativo della bellezza, della giovinezza, della maternità fresca. Ci hanno raccontato un fiore appena sbocciato alla vita e subito spezzato dalla macchina crudele. E sarebbe una favola perfetta non fosse che la questione non è affatto romantica ma crudamente pragmatica, economica, contrattuale, politica.

Esiste un modo per silenziare la questione sindacale? La rivendicazione della sicurezza? Il tema delle responsabilità e delle cause? Sì, raccontare una favola. Raccontare l’archetipo della bella giovane falciata dalla crudele macchina. Adesso sì che il tema del corpo ritorna – “il bel corpo giovane di Luana” – nel suo significato di oggetto di attenzione. Ma torna per occupare tutta la scena e cancellare con la sua presenza ogni altra istanza. E Luana viene masticata per la seconda volta da questa narrazione che sostituisce il panegirico del corpo alla politica ma il corpo in sé non lo rispetta affatto.

Ciao Silvia, come stai?

Oggi ho impastato ed è una cosa che non avrei mai potuto prevedere. Credo di averla sempre considerata un’attività legata a rigide separazioni di ruoli. Poi ho incontrato qualcuno che mi ha fatto riflettere su come ci siano le cuoche e gli chef e ho capito che il problema non era il pane ma il tipo di riconoscimento che ti viene dato per farlo. Può essere il trionfo della casalinghitudine o un nuovo modo di intendere il tempo e la convivenza: è tutto da giocare. Ho iniziato a fare il pane perché nel primo periodo della quarantena non potevamo averlo fresco. Semplicemente per bisogno. Poi ho scoperto che un mio compagno di università, panificava anche lui e tutto è diventato molto meno schematico. Non era più questione di uomini o donne ma di prendersi cura.

Mia madre creava canali di comunicazione attraverso il cibo. Ogni tanto prendeva delle olive e del pane buono, mi aspettava e li tirava fuori come una sorpresa. Non si mangiava altro. Il pane e le olive, la chiacchierata, il caffè e la sigaretta. Dopo che è morta l’ho cercata nelle sue ricette e nei suoi gusti. Non sapevo quasi niente di quello che cucinava, ho imparato ogni piatto come un pezzo di memoria riconquistata. Per ultimo il pane. Mia madre aveva una fornaia di fiducia. Nel suo negozio c’era sempre un odore particolare. Era l’odore del lievito che cuoce e riempie l’aria dell’attesa di pane caldo. L’ho sentito di nuovo in casa mia. So che non continuerò a panificare ma mi ricorderà sempre la faccia dei miei alla prima pagnotta ben fatta. Li ho nutriti e in questi giorni mi interessava solo quello. Del resto non potevo fare altro.

Così, quando è arrivata la notizia della liberazione di Silvia Romano, ho pensato alla stessa cosa. Avrà mangiato? Avrà potuto riposarsi? Chissà se l’hanno trattata male. È istintivo, non riguarda l’essere donne o uomini, riguarda l’essere animali sociali. Mangi, dormi, come ti senti? È la prima cosa che si chiede a un figlio, a un amico, a una sorella. Il resto viene dopo, con i tempi e i modi di Silvia. Se vorrà. Se non vorrà andrà bene lo stesso. Lei non ci deve niente, questo deve essere chiaro. Non ci deve spiegazioni su come si veste e se si è convertita. Del resto buona parte di noi, giornalisti compresi, non sono in grado di fare diagnosi dato che non sono psicologi. E nessuno è in grado di fare valutazioni a partire da una dichiarazione o da una fotografia. Quindi aspettiamo.

Sindrome di Stoccolma o libera scelta: non lo sappiamo. È stata costretta sennò la uccidevano: non lo sappiamo. Si è convertita per la condizione in cui era: non lo sappiamo. Si è messa con i suoi carcerieri: non lo sappiamo. Gli abiti tradizionali somali: non lo sappiamo. Perché ha le sopracciglia così in ordine? Ma è ingrassata? Perché sta così bene? Perché non piange? In fondo è sempre la solita storia. Elucubrazioni. Niente che abbia, al momento, altro fondamento se non le proiezioni di ciascuno di noi. La martire, la sciacquina, la ragazza facile, il simbolo, la venduta, l’eroina. È di noi che stiamo parlando, di quello che ci interessa dimostrare, non di lei. L’abitudine consolidata di parlare di una persona – di una donna – come se lei non ci fosse, rendendola oggetto non più soggetto.

In questa pandemia, per gli stigmi che l’opportunismo del momento ci ha appiccicato addosso, ho riscoperto di essere italiana. Bene, come italiana, sono contenta che sia stata riportata a casa. Se si è trattato per il suo rilascio, se si è pagato, se si è collaborato con i servizi di un altro paese non lo considero un fatto eccezionale: è parte di una dinamica politica.

Equilibri di potere, mediazioni, rapporti che riguardano anche quelle realtà che ci fanno paura. Si può far finta che non esistano ma questo non le farà sparire. Io ho bisogno di sapere che il mio Paese non mi abbandona e questo è quello che dice la liberazione di Silvia. Ho anche bisogno di sottrarmi a queste logiche ricorsive che ci inchiodano a una disputa mediocre e sempre uguale. Ogni volta la stessa identica polemica: sfilacciata, noiosa, inutile.

Ancora e sempre la stessa pruderie da harem: l’hanno presa con la forza, si è concessa, l’hanno messa incinta, si è sposata in segreto, dando per scontato che l’abbiano marchiata con il possesso sessuale. Chi vi da il diritto di parlare del corpo di una donna in questo modo? Come se fosse roba vostra e non sua? Chi vi da il diritto di annullarla come se lei, la sua vita, la sua storia, le sue stesse parole fossero solo funzione del maschio di turno? E se anche fosse, perché dovrebbe raccontarlo a voi? C’è una differenza enorme tra il preoccuparsi di chi potrebbe aver subito costrizioni o violenze e la pretesa delle pubblica prova di illibatezza. La stessa differenza che c’è tra il saper ascoltare e lo spiare.

Una delle poche eccezioni è un articolo di Alberto Negri che fa uno scarto concettuale rispetto alla solita polemica stantia. Ribaltando la prospettiva parte da una domanda molto semplice: «Come mai da noi in Italia non ci sono stati in questi anni gli attentati jihadisti»? Beh mi pare una domanda sensata. Forse, dico forse, Silvia Romano è stata protetta per proteggere tutti noi. E l’unica cosa che dovremmo chiederle è proprio quello di cui nessuno si è preoccupato.

Se ha fame, se ha sete, se vuole riposare. Se vuole silenzio.

 

Sequestro Romano, ecco perchè trattiamo con i jihadisti

Silvia Romano è tornata, la cultura di voler tenere le donne a casa non se n’è mai andata

La conversione di Silvia – Famiglia Cristiana

Dobbiamo un favore a Erdogan

Sharp objects. Una lettura di genere

! Contiene spoiler !

Ringrazio chi mi ha consigliato di vedere Sharp objects perché finalmente si tratta di un poliziesco cupo e intenso tutto al femminile. Non nel senso che ci sono poliziotti donna, quello lo avevamo già visto nel bellissimo Fargo, una vera pietra miliare. Piuttosto perché lo sguardo è femminile e riguarda un mondo femminile. La cittadina di Wind Gap, Missouri, diventa il teatro di uno scontro in cui l’elemento di genere risulta decisivo per le sorti della vicenda e per tutto il suo svolgimento.

La madre ossessiva, Adora Crellin, risulta affetta da un disturbo psicologico che la porta ad avvelenare le figlie, una dopo l’altra, solo per potersene prendere cura durante la malattia. È un’immagine potentissima che scardina profondamente il ruolo in cui Adora è stata congelata come madre dalle convenzioni sociali. Una donna è veramente donna quando sente il feto nel proprio grembo dice una delle amiche di Adora. E Adora è talmente madre che per svolgere il ruolo di accudimento verso le figlie le avvelena lei stessa pur di prendersene cura.

La protagonista, Camille Preaker, è figlia di Adora e scopre di essersi salvata solo perché ha rifiutato le cure materne. Si è ribellata, a differenza della dolce sorella Mariam, non volendo prendere le medicine che le da la madre e questo ha significato la sua salvezza. Una metafora potentissima che fa esplodere dall’interno i luoghi comuni in cui sono costrette molte donne,  compresse tra il ruolo di figlia fedele e madre devota. Non sei figlia se non obbedisci, non donna se non partorisci, non sei madre se non accudisci. Eppure obbedire e accudire diventano la chiave di un empasse mortale.

Gli uomini in questa grande affresco sono rappresentati nella stessa chiave di genere andando ben al di là di una schematizzazione sessista. Ancora una volta la sceneggiatura fa saltare il banco quando John Keene, il fratello di una delle vittime adolescenti, viene considerato colpevole perché piange la morte della sorella. John si dispera, non nasconde il dolore della perdita e la comunità lo considera ambiguo, anormale perché un uomo deve limitare le manifestazioni emotive. E alla fine diventa il capro espiatorio perfetto. Viceversa Bob Nash, il padre dell’altra vittima, viene considerato colpevole perché burbero, solitario. In tutta questa complessa vicenda, che va guardata nei dettagli per essere apprezzata pienamente, si intrecciano storie di abusi, iniziazioni violente, ruoli sociali. E alla fine il gioco di rovesciamento arriva al punto di indicare come assassino la creatura da proteggere per eccellenza, quella più fragile, quella più bella, quella più femminile. Il gioco è fatto, il capolavoro è pronto, ed è un capolavoro in chiave di genere.

Romanzo: Sharp Objects, Gillian Flynn, 20016.
Sceneggiatura: Marti Noxon, 2018
Regia: Jean-Marc Vallée.

Famiglia tradizionale e non

La famiglia tradizionale esiste e mi pare che nessuno la voglia smantellare. È questa paura che dobbiamo superare se vogliamo vivere in pace. La paura di qualcosa che non esiste. Le paure, non le persone, sono il nostro nemico.

Per esempio io e mio marito, siamo una famiglia tradizionale sposata regolarmente in comune. Il fatto è che non siamo sempre stati così. Dunque siamo anche una famiglia non tradizionale. La condizione è fluida, la nostra come quella di tutti. Provenivamo da altre relazioni, ci siamo messi insieme, abbiamo abitato in case diverse, poi abbiamo convissuto, poi io mi sono trasferita e siamo stati di nuovo in case diverse, poi mi sono trasferita ancora e abbiamo di nuovo convissuto, poi ci siamo sposati e se ci sarà bisogno staremo di nuovo in case diverse.

Alla faccia dei luoghi comuni abbiamo abitato con i genitori e i nonni – casa sotto e casa sopra – perché la nostra è una famiglia solidaristica. I luoghi comuni? Li abbiamo sbriciolati nei fatti. Ci siamo occupati dei genitori e dei nonni. Abbiamo vissuto con sua madre e sua nonna entrambe vedove. Quando mio padre si è ammalato abbiamo vissuto metà tempo in una casa, la nostra, e metà tempo in un’altra casa, quella dei miei genitori, in un altra città.

Abbiamo accolto gli amici, che sentiamo far parte della nostra famiglia, non abbiamo chiesto a nessuno di rendere conto del proprio orientamento. Non per scelta ma perché non ce ne frega niente: non ha importanza se non nella misura che decidono loro. Quello che tu sei non annulla quello che io sono. E se sei suora, frate, sposato, divorziata, single, omo o trans non metti in discussione la mia identità. Per me non cambia un beneamato nulla. Nemmeno la tua appartenenza politica cambia qualcosa purché tu mi rispetti e rispetti gli altri.

Abbiamo ospitato gay di destra e femministe agnostiche, volontari di destra e attiviste di sinistra, lesbiche cattoliche e preti socialisti, coppie omo e divorziati etero, giusto per dire che gli schemi li rompe la vita stessa senza bisogno di aggiungere niente. E single, tanti amici single: famiglie pure loro, nodi che fanno parte delle reti di altre relazioni. E buddisti, ebrei, musulmani, evangelici, atei in combinazioni familiari varie. E separati, risposati, conviventi con figli e senza figli oppure con figli di altri genitori. 

Siamo padrino e madrina di bambini. Abbiamo gatti, tanti gatti: per noi non sono figli, sono gatti e li amiamo lo stesso, moltissimo. Abbiamo terra e alberi e frutta. Un giardino per cenare fuori e un orto per i pomodori. Abbiamo da accudire relazioni sociali fittissime con gli esseri umani. Perché senza gli altri non sopravvivremmo, perché non siamo monadi e nemmeno la nostra famiglia è una monade. La famiglia è un intreccio, un’ipotesi di lavoro. Siamo tradizionali? Sì. Siamo NON tradizionali? Sì. Ma non siamo mai stati una cosa sola alla volta. Chiedersi cosa siamo è un falso problema e onestamente non mi interessa. 

 

«La stessa persona può essere, senza la minima contraddizione, di cittadinanza americana, di origine caraibica, con ascendenze africane, cristiana, progressista, donna, vegetariana, maratoneta, storica, insegnante, romanziera, femminista, eterosessuale, sostenitrice dei diritti dei gay e delle lesbiche, amante del teatro, militante ambientalista, appassionata di tennis, musicista jazz e profondamente convinta che esistano esseri intelligenti nello spazio con cui dobbiamo cercare di comunicare al più presto (preferibilmente in inglese). Ognuna di queste collettività, a cui questa persona appartiene simultaneamente, le conferisce una determinata identità. Nessuna di esse può essere considerata l’unica identità o l’unica categoria di appartenenza della persona». 

Amartya Sen, Identità e violenza, traduzione di Fabio Galimberti, Editori Laterza, 2006.

Cara Bongiorno se volete aiutare le donne cacciate i soldi

Sembra brutale detto così, vero? Ma vi assicuro che non c’è altro modo di dirlo. Perché oggi ci si sta concentrando su tutto tranne che sulla vera e unica soluzione: garantire alle donne vittime di violenza una via d’uscita rapida, sicura ed economicamente praticabile. Già, perché quando chiami telefono rosa una delle prime cose che ti chiedono è: “hai un posto dove andare?”.

Eppure sembra che in troppi e troppe facciano finta di non vedere e non sentire questa urgenza. Nessuno parla più di investire fondi per finanziare i centri antiviolenza. Questo significa che si è persa di vista una cosa, tanto semplice quanto fondamentale: l’aiuto concreto richiede investimenti concreti.

Volete aiutare le donne vittime di violenza? Cacciate i soldi perché i progetti di ascolto, i centri antiviolenza, le stanze rosa, gli alloggi protetti destinati alle vittime di violenza costano. E siccome costano non si fanno con le buone intenzioni, si fanno con i soldi. E siccome trattano casi che richiedono interventi specifici hanno bisogno di personale preparato. E siccome il personale preparato non cade dal cielo, il personale preparato costa. Pure la struttura che accoglie le vittime di violenza costa, e costa tutto il sistema che conduce le donne a un rifugio sicuro. Tutto costa e tutto si paga. Ed è drammaticamente necessario. Perciò se volete aiutare le donne vittime di violenza un modo c’è: investite.

Una donna che decide di sottrarsi alla violenza ha bisogno di un’alternativa SUBITO. Il giorno che decide di lasciarsi alle spalle un passato di sopraffazioni ha bisogno di andarsene, di allontanarsi dal violento. A volte il suo stesso destino di vita o di morte dipende dalla possibilità concreta di sfuggire al violento. Dunque la parola chiave è concretezza. Che significa poter chiedere aiuto a qualcuno che ti sostiene per mezzo di strutture organizzate. Che significa poter andare via, da un’altra parte, lontano da chi ti mena. Se alle donne non si da questa possibilità allora non si sta risolvendo il problema. Si sta solo girando a vuoto.