Anime belle e turismo di guerra

Il caso delle due volontarie rapite in Siria tra cronaca e polemica.

bringbackourgirlsIeri ero al mare e quasi per caso, spigolando sul cellulare, sono venuta a conoscenza del caso di Greta Marzullo e Vanessa Ramelli, le volontarie rapite in Siria. Come tutti non avevo la più pallida idea di chi fossero così ho voluto documentarmi leggendo reazioni e controreazioni. Siccome avevo una giornata libera ho potuto leggere tutto quel che trovavo con la dovuta calma. E, arrivata a un certo punto, ho provato ad analizzare l’articolo che aveva scatenato le polemiche. Luciano Gulli, su Il Giornale, ha sostenuto che non ci si improvvisa reporter di guerra, e non ci si improvvisa neppure cooperanti. E ha ragione anzi, parafrasando il suo stesso linguaggio, “come si fa a non dargli ragione?”. Io so ancora troppo poco delle ragazze rapite per dire se erano o meno in grado di affrontare quell’impegno ma so una cosa: giornalisti e cooperanti (o volontari) molto più vecchi di loro sono stati rapiti a dispetto degli anni di esperienza.

A me, comunque, non interessa la prima parte del suo articolo in cui si impegna a sottolineare la dabbenaggine delle due ragazze. Si può essere d’accordo o meno ma non è quello l’argomento del mio post. Mi interessano invece le omissioni e gli incisi come quando Gulli dice, usando il caso delle due volontarie come spunto: “sognare di andare in battaglia «per dare una mano», per «testimoniare», come troppe volte abbiamo visto fare a tante anime belle, dalla Bosnia all’Irak di Saddam”. A chi si sta riferendo? A quali personaggi e a quali eventi? Poche righe sotto lo spiega lui stesso: “Sono le stesse cose che scrivemmo nel settembre di dieci anni fa, quando a Bagdad vennero liberate Simona Torretta e Simona Pari. Le «due Simone» uscirono incolumi da un’avventura durata tre settimane. Non così andò l’anno dopo, quando sempre a Bagdad rapirono la giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena”.

Benissimo ma non abbiamo ancora capito cosa c’entri la Bosnia, visto che le due Simone e la Sgrena operavano tutte in Iraq. Per assicurarsi che il messaggio sia chiaro Gulli precisa: “Per liberarla, quella volta, morì l’agente del Sismi Nicola Calipari”. Però omette una cosa importante, ossia che Calipari non fu ucciso dai sequestratori né dagli iracheni bensì da un soldato americano. Questa non è un’opinione ma un puro e semplice fatto di cronaca, comunque lo si voglia interpretare. Calipari è stato ucciso dal fuoco amico del militare Mario Lozano quando ormai l’operazione era conclusa e i sequestratori erano stati lasciati alle spalle. Dunque, perché continuare ad attribuirne la responsabilità alla Sgrena, anche di fronte a questa evidenza?

Andiamo avanti. C’è una contraddizione insanabile tra l’affermazione di principio “non ci si improvvisa reporter di guerra” e l’uso a mo’ di esempio di Giuliana Sgrena. La giornalista de Il Manifesto, che piaccia o no, al momento del sequestro nel 2005, aveva all’attivo un passato di reporter in zone di guerra, tra cui Algeria, Somalia e Afghanistan. Tutto si può dire ma non che si trattava di una che si improvvisa.

Procediamo ulteriormente. L’altra affermazione che non si può non condividere è che “non ci si improvvisa neppure cooperanti”. L’esempio pratico è dato citando Simona Torretta e Simona Pari rapite in Iraq nel 2004. Peccato che al momento del sequestro la Torretta era già stata in Afghanistan, Kosovo, Albania, Montenegro e la Pari aveva all’attivo dieci anni in Iraq (1994-2004). Dunque non proprio delle improvvisate nemmeno loro.

Andando avanti nella mia ricerca, mi sono resa conto che c’era qualcosa che non riuscivo mettere a fuoco, un dettaglio che collegava i casi della Sgrena e quello delle due Simone. Ciò che mi sfuggiva era semplicemente questo: entrambi i  sequestri erano stati gestiti da Nicola Calipari come capo della seconda divisione “Ricerca e Spionaggio all’Estero” del SISMI. Cercando questa informazione ho trovato anche qualcosa di più. Calipari non ha gestito solo il recupero di Sgrena, Torretta e Pari ma è stato responsabile delle operazioni per il sequestro di Enzo Baldoni e Fabrizio Quattrocchi purtroppo finiti male.

E’ Il Giornale stesso che spiega in un articolo del 30/10/2009 come Quattrocchi non fosse un semplice militare italiano di stanza in Iraq ma un contractor dipendente dalla Praesidium Corporation, la compagnia italiana di guardie del corpo che lo ha assunto e inviato in territorio di guerra dove sarebbe stato ucciso all’età di 36 anni. Dunque, c’è qualcosa che non mi torna: anni di esperienza di guerra non fanno di te una professionista se sei una reporter o una cooperante ma se sei un contractor invece sì.

Giusto per evitare inutili polemiche, chiarisco che in questo contesto non utilizzo la precisazione del contractor con l’intenzione di sminuire la tragica morte di Quattrocchi (2004) ma semplicemente per evidenziare che non era stato mandato in Iraq dallo Stato Italiano, né per una operazione di pace né tantomeno per un intervento bellico. Quattrocchi era in Iraq perché aveva firmato un contratto con una compagnia privata di guardie del corpo. Eppure il suo recupero è stato gestito dallo Stato Italiano e a spese dello Stato Italiano, cioé nostre, di noi cittadini. Esattamente come quello di tutti gli altri ostaggi compresi, ad esempio, i turisti lombardi rapiti in Niger nel 2012, quando la Farnesina sconsigliava da mesi l’ingresso agli italiani.  Nonostante questo ho sentito suonare le sirene a lutto delle lamentazioni economiche solo per i cooperanti, i volontari e i giornalisti.

Oltre al caso Quattrocchi, Nicola Calipari aveva gestito anche il sequestro di Enzo Baldoni e qui la cosa si fa veramente interessante. L’attuale direttore de Il Giornale è Alessandro Sallusti il quale, con Vittorio Feltri, si è alternato più volte alla direzione di questa testata e a quella di Libero. Dopo un periodo di co-direzione Feltri-Sallusti, nel dicembre 2010, Feltri ha lasciato Il Giornale di cui è rimasto a capo Sallusti.

Nel periodo del sequestro Baldoni, il direttore di Libero era Vittorio Feltri e Libero trattò la vicenda Baldoni con dei toni che a distanza di anni continuano a far riflettere:

Non ci vuole un fine esegeta per capire fin dai titoli, soprattuto dai titoli, che lo scopo è screditare non solo l’uomo Baldoni per le sue idee ma anche la sua stessa attività professionale. Faccio notare che proprio nell’ultima locandina, quella che titola con il colpo in testa al giornalista italiano che cercava brividi in Iraq, la bandiera che si vede alle spalle è quella della Croce Rossa Internazionale, associazione presso cui Baldoni prestava servizio come volontario. Quella stessa Croce Rossa, per intendersi, che insieme ad altre associazioni analoghe va a raccogliere i feriti degli incidenti, le vittime di malori e effettua il trasporto dei malati “senza distinzione di nazionalità, razza, religione, di condizione sociale o di appartenenza politica”. Queste erano le vacanze intelligenti a cui allude il titolo del pezzo di Renato Farina? Sì, proprio quel Renato Farina, che scrisse sotto lo pseudonimo Dreyfus l’articolo che mandò sotto processo Alessandro Sallusti con l’accusa di diffamazione deliberata. Il titolo affermava falsamente: Obbligata ad abortire a 13 anni.  Sallusti stesso fu costretto a smascherare Farina perché, proprio come recita l’adagio popolare, “dagli amici mi guardi Dio ché dai nemici ci penso io”.

Comunque bisogna riconoscere almeno una cosa: Luciano Gulli è stato onesto, non ha usato uno pseudonimo e nonostante tutto non ha riportato falsità. Tutto sommato sono anche convinta che il titolo “altre incoscienti da salvare” non sia opera sua. Sembrerebbe quasi che Gulli parlasse da padre ansioso, se non fosse per l’irrefrenabile tentazione della chiusa ideologica che cita alcuni e omette altri ben più scomodi rapiti del recente passato. E poi c’è rimasta una questione aperta: la Bosnia, dove tante anime belle sono andate «per dare una mano», scritto tra virgolette. Nel gennaio 1994 a Mostar, in Bosnia, persero la vita tre inviati della Rai di Trieste: il giornalista Marco Luchetta (41 anni), e gli operatori Alessandro Ota (37 anni) e Dario D’Angelo (41 anni). I tre, racconta Repubblica, dovevano realizzare un servizio sui bambini ricoverati nell’ospedale locale, quando una granata, proveniente dalle linee croato-bosniache li colpì. Morirono mentre tentavano di riprendere un bambino che giocava in strada nonostante il bombardamento.

Ma in Bosnia, oltre alle anime belle, andavano anche quelle brutte. Gabriele Moreno Locatelli faceva parte di un gruppo di cinque pacifisti italiani che nel 1993 tentarono di rompere simbolicamente l’assedio di Sarajevo con l’attraversamento della prima linea del ponte Vrbanja. Gigi Ontanetti, dei Beati i costruttori di Pace, era con lui in quel frangente e racconta in una intervista a Il Resto del Carlino  del 12/01/99: «In guerra tutto diventa lecito. Non escludo neppure che tra noi volontari si fossero inoltrati personaggi ambigui. Come quell’italiano che tentò di venire con noi a Sarajevo per fare il cecchino a 600 marchi ogni vittima. A Sarajevo ce n’erano diversi di cecchini italiani. Non era un segreto. Possibile che le autorità italiane non siano intervenute? C’erano perfino quelli che invece pagavano per farsi un “safari di caccia all’uomo”». La notizia è solo apparentemente sconvolgente perché non è affatto una novità, anche se se ne parlò (e se ne parla ancora) troppo poco. Nel 1995 il Tribunale dei Popoli denunciava il fenomeno del turismo di guerra, ossia l’offerta di vacanze in Bosnia per poter fare il tiro all’uomo. Per dirla in soldoni: gente che pagava fior di quattrini per poter sparare ad altri esseri umani come se fossero selvaggina.

Che le devo dire caro signor Gulli, in fondo capisco le sue apprensioni per le ragazze, ma legga i commenti in calce al suo articolo: “dementi”, “cretine”, lasciatele lì”. Lei ha aizzato la bestia che dorme nel profondo di ognuno di noi, poi è passato oltre. Vanessa e Greta sembrano solo un’occasione accidentale per parlare d’altro. Ma perché tutto questo accanimento nei confronti di chi va a operare nei paesi in guerra? Personalmente, tra le «anime belle» che sognano di partire «per dare una mano» e le anime brutte che pagano per fare le vacanze con il tiro all’uomo io continuo a preferire le prime. E sono convinta che le vacanze intelligenti non si definiscano in base al fatto di stare  davanti o dietro al mirino di un fucile. Le domando e mi domando un’ultima cosa, signor Gulli. Perché, in questa nostra società, se uno si ammazza a vent’anni con il rally o il motociclismo è un eroe e se invece si mette a rischio per ragioni umanitarie allora è un idiota?

Con stima

Ilaria Sabbatini

Il progetto a cui hanno dato vita Greta Marzullo e Vanessa Ramelli:  Horryaty – Assistenza medica in Siria fonte Huffingtonpost.it

Leggi anche: “Vincere facile” contro Greta e Vanessa

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2 pensieri su “Anime belle e turismo di guerra

  1. ruminatiolaica Autore articolo

    Non si può improvvisare un lavoro così rischioso. E su questo voglio fugare qualsiasi dubbio: sì è proprio così. Il problema però non è questo, su cui concordo in pieno. Il guaio è che si sta cogliendo l’occasione per estendere il discorso a tutto e a tutti. Per esempio, io credo che Gino Strada vada ringraziato e non trattato da deficiente perché frequenta gli scenari attualmente più pericolosi. Secondo me il problema è che la discussione si sta spostando sull’opportunità che i civili vadano a operare in zone di guerra. I giornalisti, i volontari, i cooperanti, i fotoreporter, i medici che operano in zone di guerra sono dei dementi o sono persone da rispettare?

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